Il 12 dicembre di cinque anni fa, a Parigi veniva firmato un accordo per
contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della
soglia di 2 °C, rispetto ai livelli pre-industriali, possibilmente non
oltre 1,5 °C.
L’accordo è stato firmato da 194 nazioni più l’Unione Europea, mentre è
stato ratificato da 188 stati. Il 3 settembre 2019 anche gli Stati Uniti
ratificarono l’accordo, ma due mesi più tardi, il 4 novembre,
l’amministrazione Trump notificò la decisione di ritirarsi. Il nuovo Presidente
Joe Biden, tuttavia, ha annunciato l’intenzione di voler tornare ad aderire.
L’accordo è un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di
ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite
meccanismi di persuasione morale e politica.
In effetti l’Accordo di Parigi, al di là
dell’obiettivo generale, non impone ai singoli stati adempimenti
obbligatori. Ogni paese che lo ratifica è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione
delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in
maniera volontaria.
E’ previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri
obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati
non venissero soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema “name and shame“,
la compilazione di una sorta di lista “della vergogna” in cui
inserire i paesi inadempienti.
Ad oggi 188 paesi hanno presentato i loro primi
obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra
(in sigla NDC, Nationally determined contributions). Il che permette a un
istituto come il Climate Action Tracker (CAT), di affermare che la transizione
verso un pianeta a ridotta produzione di gas serra è chiaramente cominciata.
Diversi paesi europei, dalla Gran Bretagna ad alcune piccole isole, sono
stati fra i primi ad annunciare la volontà di voler raggiungere, entro il 2050,
un livello di emissioni nette pari allo zero. Che tradotto significa impegno a non
emettere gas a effetto serra in quantità superiore a quella
che i sistemi naturali sono in grado di neutralizzare.
Quest’anno, anche l’Unione Europea, seguita dal Canada, ha deliberato nella
stessa direzione. Intanto altri paesi, fra cui Sudafrica, Giappone, Corea
del Sud, Cina, hanno dichiarato di voler diventare paesi a
zero emissioni entro archi temporali diversificati, che però ruotano sempre
attorno al 2050.
La Cina, ad esempio, conta di diventare un emettitore zero per il
2060. Tutti assieme, i paesi che hanno deliberato o che
hanno intenzione di deliberare l’azzeramento delle proprie emissioni
orientativamente per la metà del secolo, sono 127. Un numero importante
considerato che tutti assieme sono responsabili del 63% delle emissioni
globali.
Ma all’appello mancano ancora una sessantina di
paesi che mettono a rischio il raggiungimento degli obiettivi stabiliti
dall’Accordo di Parigi.
Il CAT stima che anche se tutti i 127 governi virtuosi mantenessero le loro
promesse, la temperatura terrestre crescerebbe comunque di 2,1° C
per il 2100. Molto, tuttavia, dipende dai passi che verranno compiuti
entro il 2030.
Se nel prossimo decennio l’umanità riuscisse a
ridurre le emissioni di anidride carbonica del 50%, ci sarebbero buone
probabilità di contenere la temperatura terrestre addirittura entro
1,5 °C.
In caso contrario le possibilità di vincere le sfide poste
dall’Accordo di Parigi sarebbero molto scarse. Da questo punto di vista il
Rapporto 2020 redatto dall’organizzazione internazionale Climate Transparency
non è molto incoraggiante.
Da un esame condotto sugli impegni assunti entro il 2030 dai paesi che
fanno parte del G20, nessuno di loro risulta soddisfacente. A tutti è stato
attribuito un voto insufficiente, se non altamente insufficiente.
Eppure nel 2020 le emissioni totali di
anidride carbonica si sono ridotte del 7,5%. Ma si tratta di una parentesi
transitoria dovuta al lockdown imposto dal Covid, a cui si teme, farà
seguito una nuova crescita di emissioni.
A farlo presagire sono le scelte che molti stati hanno compiuto per ridare
slancio all’economia post-pandemia. Nell’ambito dei pacchetti di stimolo
stanziati dai paesi del G20 nel corso del 2020, ben 439 miliardi di dollari
sono stati destinati alle fonti energetiche, per scoprire che il 54% di essi,
240 miliardi, serviranno a sostenere i combustibili fossili: petrolio,
gas e carbone.
La temperatura media globale è già di 1,1 °C
superiore all’era pre-industriale e gli effetti si sentono. Nel ventennio
compreso fra il 1999 e il 2019, i paesi del G20 hanno perso 220mila vite umane
e 2600 miliardi di dollari a causa di uragani, inondazioni e altri eventi
climatici estremi.
Il tempo a nostra disposizione per agire si sta facendo sempre più scarso,
per cui bisogna rafforzare i passi positivi fin qui compiuti: bisogna ampliare
la quota di energia elettrica rinnovabile che oggi non va oltre il 27%,
dobbiamo convertire il nostro sistema trasporti, dobbiamo cambiare modo
di fare agricoltura e di costruire le nostre case. Un grande progetto di
riforma rivendicato a gran voce dai nostri figli.
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