Un appello lanciato da 39 giornalisti del servizio radiofonico pubblico svedese punta il dito contro le discriminazioni, a volte velate a volte no, che i reporter (e più in generale i lavoratori) con un background straniero sono costretti a subire nell’insospettabile Svezia.
Se pensiamo
alla Svezia pensiamo a un paese aperto alle diversità, accogliente e
rispettoso delle minoranze. Lo pensiamo perché è vero.
Storicamente, la
Svezia è sempre stata uno dei rifugi più sicuri per chi migra. È il terzo
paese al mondo per accoglienza di rifugiati pro capite dietro Canada e
Australia e nel 2015 ha registrato un record di 162.877 richieste di asilo,
l’1,6% della popolazione svedese, composta da circa 10 milioni di persone.
Equiparando questo dato agli abitanti degli Stati Uniti, è come se Washington
nel 2015 avesse ricevuto cinque milioni di richieste (in realtà sono state solo
83 mila).
Il 25% degli svedesi ha un background straniero
Non ci sono
numeri esatti per stabilire quanti svedesi abbiano un background straniero
perché – fortunatamente – lo stato svedese non basa alcuna statistica
sull’etnia. Sappiamo però che nel 2016, 1.784.497 residenti erano nati all’estero, 535.805
erano nati in Svezia da due genitori nati all’estero, 739.813 avevano un
genitore nato all’estero e 6.935.038 non avevano genitori nati all’estero. Se
in maniera grezza considerassimo il background diverso come la possibilità che
qualcuno sia nato all’estero o abbia almeno un genitore nato all’estero,
potremmo dire che il 25% degli svedesi ha un background diverso. Uno svedese su
quattro.
Il
sito sweden.se, il portale governativo che
racconta il Paese ai turisti, descrive in maniera entusiastica questa varietà
culturale: “L’immigrazione ha portato con sé nuovi costumi e tradizioni
che nel tempo si sono intrecciati nel tessuto di quella che chiamiamo società
svedese. Allo stesso modo, i ‘nuovi svedesi’ riprendono le vecchie
tradizioni svedesi, e spesso sono i bambini a introdurle nella famiglia. Gli
asili nido e le scuole esercitano una notevole influenza nella sfera sociale.
Il risultato – nella migliore delle ipotesi – è un fertile incrocio culturale”.
Al di là dei
toni, questo approccio è generalmente condiviso dalla maggioranza della
popolazione.
Per aiutare
i nuovi arrivati a integrarsi nella società, la Svezia
offre programmi di integrazione finanziati con fondi pubblici. I
migranti prendono lezioni di lingua svedese e imparano a conoscere la cultura.
A Ronneby, una piccola città industriale nel sud della Svezia, c’è persino un
programma di fitness gratuito dedicato ai nuovi arrivati.
Tra i frutti
di una comunità interculturale dovrebbe esserci anche il sorgere di una classe
di professionisti dell’informazione figli di questa eterogeneità. Così dovrebbe
essere, così non è esattamente in Svezia.
“Conosci qualcuno che vende armi?”
Sull’onda
del Black Lives Matter statunitense, a settembre quattro
giornaliste del servizio radiofonico pubblico svedese – Palmira Koukkari
Mbenga, Maya Abdullah, Mona Ismail Jama e Freshta Dost – hanno scritto una lettera pubblica, lunga dodici pagine, nella quale affermano che la
radio svedese non riflette la realtà del Paese. L’appello è stato quindi
sottoscritto da 39 giornalisti (21 anonimi) dello stesso servizio e in seguito
portato avanti da più realtà dell’informazione pubblica e privata, in un
dibattito che non è ancora finito e che sta appassionando sempre di più
l’opinione pubblica.
“È chiaro
che il servizio pubblico svedese abbia investito nella diversità per diversi
decenni”, ha scritto su Expressen la giornalista Alexandra
Pascalidou, per anni voce e volto della radio e della tv pubblica. “Perché alla
fine qualcosa è andata storta? Perché le persone sono così arrabbiate?”
Pascalidou ha intervistato numerosi giornalisti del passato e del presente con
background straniero cercando di capire cosa fosse andato storto. Tra questi, è
illuminante la risposta di Arash Mokhtari, 38 anni ed ex reporter e conduttore
della SVT: “Il servizio pubblico dice di essere interessato alla diversità
perché è come una spilla che vogliono indossare e per cui ricevono complimenti,
una gomma da masticare che masticano e sputano quando il gusto esotico si è
placato. Pensano che sia fantastico avere nel team qualcuno su una sedia a
rotelle o nato in un altro paese, ma quando si tratta di attività legate alle
notizie, diventa un po’ scomodo. Più prestigioso è il lavoro, minore è la
diversità”.
Nell’appello si legge, tra le altre cose, che nella lettura delle notizie le minoranze vengono ritratte quasi sempre solo come vittime o come parte dei problemi sociali; che le redazioni sono quasi solo bianche, che i capi sono bianchi e che a loro volta assumono quasi solo personale bianco, anche se a volte meno qualificato.
Freshta
Dost, che lavora al terzo canale P3 Nyheter da Göteborg, racconta di sentirsi
spesso esotizzata, esclusa e invisibile. “Quando ero stata appena
assunta, un collega di Stoccolma a me sconosciuto mi ha chiamato e mi ha
chiesto se avessi potuto leggere un discorso in cui dovevo fare la voce di un
mendicante bulgaro. Era importante che l’accento fosse marcato. Per me è stata
una domanda molto strana, non so come si doppia una persona bulgara”, ha spiegato
in un’intervista. Non solo: a Freshta è stato anche chiesto di interpretare
un simpatizzante dell’ISIS mentre ad altri colleghi uomini hanno
chiesto di doppiare criminali. Secondo Freshta Dost non sono scelte casuali, ma
testimoniano uno schema ben preciso e una cultura prevaricante dentro la radio.
“Per quale motivo siamo stati assunti, per doppiare mendicanti e criminali nei
servizi degli altri colleghi?”
A Mona
Ismail Jama hanno chiesto se conoscesse qualcuno che vende armi: “Ci si
aspetta che in quanto somala io conosca il mercato nero delle armi”. E
ancora, spiega Palmira Koukkari Mbenga che “durante un incontro con colleghi
che non vedevo da molto tempo, il mio nuovo taglio di capelli ha suscitato
molto scalpore. All’improvviso, sento una mano dietro la mia testa
accarezzarmi, più o meno allo stesso modo in cui immagino che si accarezzi
una pecora. Non era la prima volta che mi si toccavano i capelli al lavoro,
senza che prima mi si chiedesse il permesso”.
In Svezia,
il dibattito legato a Black Lives Matter è molto sentito. A giugno è arrivato
l’appello A Call for Change, in cui oltre un centinaio di
afro-svedesi impegnati nei settori di comunicazione, media, musica e moda
avevano chiesto ai leader del settore di impegnarsi maggiormente nel contrastare
il razzismo e la discriminazione. Tra i firmatari c’erano gli artisti Jason
Timbuktu Diakité e Sabina Ddumba, nonché l’autore e scrittore Amat Levin.
L’appello delle giornaliste della Radio svedese è ancora più preciso e fornisce
obiettivi concreti e quantificabili.
L’appello e le richieste
Nell’appello
ci sono richieste specifiche: entro il 2025 almeno il 25% dei 2.200
dipendenti dovrà avere un background straniero e di questi un 15% dovrà essere
non europeo. Ciò dovrebbe valere anche per le posizioni manageriali. Il
punto, spiegano le autrici, è che questo razzismo colpisce non solo i
dipendenti, ma anche gli ascoltatori, secondo lei. Non coprendo in maniera
puntuale e precisa le notizie di esteri e di interni legati alle minoranze
si fa un cattivo servizio pubblico, soprattutto a quel 25% della
popolazione.
Notizie che,
secondo Maya Abdullah, vengono prese meno in considerazione se la proposta
viene da un giornalista di altro background: “C’è resistenza quotidiana
quando proponiamo notizie. Dobbiamo farci sentire il triplo rispetto ad
altri colleghi affinché un argomento venga incluso nel telegiornale”.
Frontiere
News ha chiesto a Freshta Dost quali fossero state le conseguenze dell’appello
(che nel frattempo è stato sottoscritto anche da giornalisti della televisione)
all’interno delle redazioni. “Da fuori veniamo viste come eroine”, ci ha
spiegato Dost, “ma dentro stiamo avendo tanti problemi. Girano cattive
informazioni su di noi, la destra sta interpretando in chiave politica
il nostro appello e dice che siamo politicizzati”.
Freshta Dost
ci tiene a precisare che sono stati costretti a lanciare questo appello. “Non
avevamo scelta, in Svezia il razzismo viene accettato sempre più, a
tutti gli strati. Persino nelle aziende pubbliche come la Radio svedese”.
Spiega che si tratta di un “adeguamento”: “Questo clima pesante si avverte
ovunque. Il servizio pubblico svedese non fa altro che adeguarsi a quello che
succede nella società”.
Intervistata
dal quotidiano Aftonbladet, la CEO della Radio svedese Cilla
Benkö ha negato le accuse. Intanto sempre più media svedesi ammettono di avere un problema di rappresentanza
all’interno delle redazioni e anche nel mondo del cinema l’appello sta
facendo breccia. L’opinione pubblica osserva e si fa un’idea.
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