La «scomparsa» degli Indiani ed il relativo sviluppo dell'antropologia sono i due aspetti indissolubilmente legati dello stesso dramma. Certo non si può negare le diverse attitudini del Conquistador, del missionario e del falso scienziato rispettivamente. Il primo si impadronisce di territori e sottomette le popolazioni con la forza delle armi, il secondo si preoccupa di convertire le anime, il terzo cerca di ritrovare altrove la sua ragione. Ma ciò che è fondamentale non sono queste differenze; ma bensì che questi tre diversi tipi di uomo si sono trovati concordi, al momento della Conquista e durante il Rinascimento, nello spingere l'Occidente, al momento della sua espansione, a portare fino in fondo l'esperienza della sua contraddizione fondamentale di cui ciascuno di essi era il portavoce.
Tutti fecero dono del loro oggetto al soggetto che essi veneravano sopra
ogni altro: il re, Dio o la ragione; ecco in che cosa essi erano fratelli.
Senza dubbio uno spirito fantasioso potrebbe pensare che tra la fine del
Medioevo e i empi moderni si sia affermato il confortante progresso dello
spirito illuministico. Ma questa concezione rassicurante è doppiamente
ingannevole. Prima di tutto perché la scienza, suprema realizzazione della
ragione, non è né più dolce né più inoffensiva dell'arte militare; e poi perché
non c'è alcun «progresso» nell'atteggiamento della civiltà occidentale nei
confronti dei «primitivi», ma piuttosto uno spostamento da un piano all'altro
della sua contraddizione fondamentale. La prima immagine di questa
contraddizione è quella tra l'umanesimo che si apriva alla scoperta del mondo e
la scoperta concepita come conquista, estensione di sé, appropriazione
negativa. Si trattava dell'idea dei «philosophes» messa in pratica dai
commercianti o si trattava invece del fatto che i «philosophes» pensavano come
i commercianti? La riduzione in schiavitù delle popolazioni o, ancor meglio, la
loro distruzione pura e semplice: ecco una soluzione che sarebbe stata chiara e
definitiva! Essa era in contraddizione cogli ordini che i conquistatori avevano
ricevuto dall'autorità monarchica prima di suscitare l'opposizione dei
missionari i cui interessi erano rivali di quelli dei coloni. Donde lo
spostamento della contraddizione tra due poteri, ciascuno in rottura colla
propria ideologia.
Questo conflitto doveva generare la trasformazione delle ideologie
rispettive: i conquistatori, gli scopritori del Nuovo Mondo si rivelarono come
l'ultima impennata di una classe feudale condannata a scomparire. L'ideologia
dei missionari, al contrario, si afferma sempre di più – ad opera di un Las
Casas per esempio – come rivendicazione umanitaria di giustizia. Il Dio
cristiano, supremo alienatore dell'uomo, si tramutava in ragione universale
«liberatrice» degli oppressi per mezzo di coloro che avevano all'inizio
affermato la sua universalità. Questi si diedero a rivendicarla come privilegio
esclusivo. E ciò preparò l'ultimo spostamento al quale assistiamo oggi, la
sostituzione dei missionari, dei propagatori della fede, da parte dei
raccoglitori d'informazioni. A quest'ultimo stadio del processo la ragione,
come prima l'idea di umanità, comincia a conoscere i suoi limiti oggettivi; ma
come prima i Conquistadores, essa non lo fa al puro scopo di scoperta,
d'alleanza, di dialogo, ma ad un fine di appropriazione, di riduzione
dell'altro e di espansione di sé a spese di quello. È ciò che si potrebbe
chiamare la «medievalizzazione dei tempi moderni» (che la ragione si camuffi da
«logica» non cambia niente).
Nella sua forma più compiuta, l'antropologia tende ad accordare alla
ragione o alla logica il ruolo che prima i missionari accordavano a Dio;
l'antropologo e il missionario si sono opposti entrambi molto blandamente
all'avanzata a rullo compressore della civiltà che del resto non tarderà a
spazzarli via una volta che essi avranno assolto il servizio che essa si
attende da loro. Singolare voltafaccia infatti; nel XVI secolo si trattava, per
i missionari, di colmare l'abisso tra Dio e le sue creature infedeli, di
ricondurre i selvaggi sulla strada del Signore, di ricondurre queste pecorelle
smarrite sotto la grazia divina. L'espulsione dei Gesuiti fu una risposta
significativa della «civiltà» che in tal modo pose un limite ai suoi stessi
ideali. Nel XX secolo, mentre la scienza resta bastarda, balbuziente e
conquistatrice come all'alba del XVI secolo, l'idea di umanità ha rimpiazzato
quella di Dio nell'impresa della conquista; si tratta ora di mettere i
«primitivi» in sintonia con la ragione (la logica) occidentale. Ma la pratica
effettiva che minaccia la sopravvivenza dei «primitivi» non soltanto si
preoccupa poco di questa logica, ma addirittura non vuole vedersi intralciata
dagli scienziati. Come i coloni al tempo della Conquista non chiedevano che un
servizio ai missionari, così al giorno d'oggi i politici non chiedono agli
etnologi che un parere tecnico per facilitare l'assimilazione delle popolazioni
cosiddette «marginali» (e perché non dire «delinquenti», tanto che differenza
fa?). Di fronte a questa politica, invece di rivendicare un potere fondato
semplicemente sulla ragione poiché essa ha fallito nel suo tentativo di trovare
la ragione, l'etnologia, sottomessa ad ogni genere di potere e imponendo a
coloro che la praticano la stessa sottomissione gerarchica, si contenta di fare
dei primitivi un oggetto «culto» di rappresentazione e mendica presso i
ministeri la sopravvivenza del suo oggetto di studio in nome della scienza
«universale».
La curiosità per il selvaggio, curiosità resa astratta dalla lontananza
geografica, dallo sguardo dell'esploratore e dalla sua relazione scritta, è
sempre andata di pari passo col disprezzo per questo stesso selvaggio, il
disprezzo ostentato dagli esploratori nei contatti con gli Indiani. Figurarsi
che cosa succederebbe se gli Indiani vivessero tra di noi! Se per esempio si
chiamassero Catari, hippies o maoisti!,
L'idealizzazione sempre attuale del «bon sauvage» è riconducibile allo
stesso negativismo che si esprime nel razzismo. Si pensi alla mitologia del
«buon negro» tra gli schiavisti del sud degli Stati Uniti. Gli uomini sono
sempre troppo civilizzati per coloro che vorrebbero ricondurli alla loro
condizione naturale; quel «troppo» di civiltà è ciò che questi signori chiamano
la loro «selvatichezza». E questa giustifica sempre la riduzione di essi al
comune denominatore della nostra civiltà. Dietro la discussione sul problema
della loro «differenza» o della loro «identità» in rapporto a noi stessi, si
nasconde solo questo disegno: far sì che essi ci servano a qualche cosa.
Quel discorso universalmente conosciuto col termine di antropologia
(sociale, culturale) o di etnologia non si distingue essenzialmente
dall'ideologia che serve da giustificazione agli «assimilatori». È noto che gli
etnologi nordamericani non hanno fatto niente per arrestare il massacro degli
Indiani dell'America del Nord; per essi ciò non fu che uno spettacolo capace di
suscitare al massimo la loro vocazione etnologica. Mentre altri riempivano le
loro casse di oro, essi riempivano di note i loro calepini, gli uni e gli altri
per il più gran bene dell'umanità di cui il loro paese era il modello. Sembra
che l'etnologia sia nata con questa tara congenita: la sua urgenza,
poiché essa arriva sempre «troppo tardi», congiunta allo scrupolo di
obbiettività che la anima, servono a scusare la sua irresponsabilità politica.
Sballottata tra la raccolta sempre affrettata di nuovi frammenti e la
elaborazione di teorie che richiedono mezzi materiali e umani sempre più
grandi, la prospettiva di una riflessione del suo metodo verso il suo effettivo
punto di partenza appare di giorno in giorno sempre più improbabile. Essa spera
indubbiamente di accorgersene «troppo tardi», quando la sua «materia» sarà
effettivamente scomparsa. Ma questa materia permane, essa cambia lentamente anche
se oggi si accorgono di ciò solo quelli che hanno poca fretta di «arrivare» e
sanno invece pensare con calma.
L'arricchimento del nostro sapere procede dalle stesse motivazioni e segue
lo stesso metodo del nostro arricchimento materiale; esso presuppone la
negazione dell'altro e la nostra espansione nel suo territorio materiale come
in quello mentale, esso presuppone cioè la sostituzione delle leggi civili e
mentali dell'altro per mezzo delle nostre. Raccogliere informazioni è un'azione
relativamente innocente; è il piano che anima questa azione che solleva dei
problemi. Vorrei che mi si citassero i nomi degli etnologi che hanno messo le
loro informazioni al servizio delle popolazioni studiate allo scopo di
tamponare la falla aperta dalla civiltà bianca e assicurare la trasmissione di
un sapere perduto per una generazione intera (mi si gela il sangue se penso ai
sorrisi ironici di certi miei «colleghi» a questa idea) oppure allo scopo, più
comprensibile per la nostra mentalità meschina, di appoggiare delle
rivendicazioni territoriali o di far valere dei diritti sistematicamente
violati.
Bisogna credere che un simile ruolo non può avere alcun senso per una
professione che non si concepisce al di fuori del privilegio che le conferisce
il pericolo di fronte al quale le civiltà «primitive» si trovano. La sua
«urgenza» determina il suo «prezzo»: ma forse che essa crede di svalutarsi se
essa fa in modo da ridurla?
L'urgenza di raccogliere i frammenti delle civiltà che quella bianca
distruggeva, questa urgenza di cui gli etnologi si sono fatti interpreti a loro
esclusivo vantaggio, non era affatto evidente. Non voglio dire, nonostante lo
pensi (la denuncia di una etnologia asservita fa parte della resistenza dal di
dentro), che sarebbe stato altrettanto urgente organizzare la resistenza
anti-bianca. Voglio solo dire che, dopo tutto, numerose società si sono
distrutte tra loro nel corso della «storia» senza sentire il bisogno di
archiviare i resti dei loro nemici. L'archiviazione intrapresa dagli etnologi,
conservatrice sul piano dei «fatti» (*), «progressista» per il progetto di
sviluppo delle conoscenze in cui s'inscrive, è coerente ad una certa idea che
la civiltà occidentale ha di sé come luogo del sapere assoluto che suppone
inevitabilmente la negazione dell'oggetto se non nella sua «fisicità» almeno
nella sua «storicità». È per questa ragione che gli Indiani erano destinati fin
dal loro primo incontro coi bianchi, a fare l'esperienza di una nuova modalità
di essere: nel caso peggiore essi erano degli esseri «destinati alla morte» dal
progresso; mentre nel caso migliore – ma non si tratta che di una differenza
minima – essi erano degli esseri «per la scienza». Contrariamente a ciò che di
solito si sostiene, la strategia del sapere è infinitamente più cinica e più
distruttrice di qualsiasi strategia militare. Essa è il risultato di una
coscienza impoverita. Se la coscienza occidentale si poneva dei problemi
politici ambigui al momento della conquista, è perché essa si poneva ancora
problemi morali che sono invece estranei alla strategia del sapere. Bisognerà
attendere che l'etnologia abbia raggiunto la sua piena maturità «scientifica»
perché si possa ritrovare nella manipolazione dei materiali «primitivi» una
violenza mascherata che supera, per le sue conseguenze, quella dei
Conquistadores.
(*) Ma quali fatti? Il
problema resta immutato; né le monografie, né le grandi teorie ci dicono in che
cosa consistano i «fatti». Se lo si sapesse non ci sarebbero più né monografie
né grandi teorie, perché non sarebbe più necessario rimediare alla noia delle
prime per mezzo delle acrobazie a cui ci hanno abituato le seconde. E così
l'etnologia sarebbe ben altrimenti affascinante.
[L'ethnocide à travèrs les Amériques,
a cura di R. Jaulin, 1972]
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