“Immaginate di avere una madre, una sorella, un figlio, un neonato su una strada del genere, percorrere chilometri e chilometri, per poi essere respinti da una polizia di frontiera che, senza alcuna pietà, si arroga il diritto di togliere tutto ai migranti, anche di spogliarli, denudarli, privandoli delle scarpe e costringendoli a tornare verso l’opposto valico, quello che hanno attraversato prima”.
Nawal Soufi, mediatrice culturale e attivista per
i diritti umani italo-marocchina, da giorni sta seguendo con i migranti la
rotta balcanica. Dopo aver prestato
loro soccorso nei campi profughi greci, ha deciso di farsi corpo che affianca
altri corpi, per capire da dentro cosa significhi tentare la via della
salvezza, The Game, e subire le vessazioni di un Occidente sempre più al
tramonto.
Il suo, di corpo, è esile, eppure fortissimo, messo
alla prova duramente, perché non si può condividere a pieno una condizione se
non sulla propria pelle. Il rischio è
grande, ma vale la pena correrlo, se questo gesto può servire a mantenere desta
l’attenzione e preservare quella scintilla di umanità che alberga in ognuno di
noi. Nawal fa pensare alla
filosofa Simone Weil, la quale assunse su di sé la condizione operaia nel modo
più onesto di farlo, diventando a sua volta operaia. I suoi scritti sono quindi
lucidissimi, puliti, affidabili, e il rispetto che si prova nel leggerli è
enorme. Da dentro, al fianco di chi soffre, le cose acquistano tutto un altro
senso. Quelle parole, pronunciate da Nawal mentre camminava lungo una rotaia,
sono inappellabili: tutti siamo messi al muro, chi non ha fatto nulla, chi non
ha fatto abbastanza. Il paesaggio circostante è innevato, eppure sembra un
inferno, perde tutta la sua oggettiva bellezza. Lei comunica attraverso i
social ed è disponibile a parlarti, se la contatti. Ogni tanto scrive che non
potrà collegarsi per qualche giorno, e allora capisci che le cose non si
mettono bene. Poi ricompare, più attiva di prima, e ti chiede di aiutare
i migranti facendo loro una
ricarica telefonica, inviando un contributo, oppure ti fa sapere che hanno
bisogno di indumenti, cibo, scarpe. Dovendo attraversare luoghi inospitali e
montuosi, soprattutto in inverno, cerca piccoli consigli per ridurre al minimo
i danni collaterali. A questo punto, la sua “famiglia” virtuale, come ama
definirla, interviene consigliando la tipologia di scarponi, di portare con sé coltellino
o forbici per tagliare rametti e spine, facendo attenzione a memorizzare il
posto, nell’eventualità di dover tornare indietro, di avere con sé acqua in
borraccia, cibo energetico, accendino, una torcia e buste vuote, quelle nere
della spazzatura possono servire ai migranti per ripararsi dalla pioggia e dal
vento.
L’anima gela
Nawal nel cammino non è sola, ci sono i suoi compagni
e i migranti, profughi di guerra, che avrebbero diritto alla protezione
internazionale, “ma non li vuole nessuno”, sottolinea. Quando fa sosta,
risponde ai messaggi e documenta ogni cosa con foto e video. Piegata su se
stessa sulla rotaia, a volte, la sera, finalmente si lascia andare: “Tutti i
binari portano verso Auschwitz. Quando arriva la notte, l’anima gela. Le
labbra smettono di pronunciare parole, vibrano… A quest’ora tutto tace. Non
senti più il bisogno di urlare il tuo dolore al mondo, perché per il momento
tutti dormono, e tu devi tentare di trovare la posizione migliore per
riscaldarti, mentre la tua anima continua a gelare”.
Delinquenti di frontiera, trafficanti di
merce umana, i cani, la polizia, e poi la fame, la sete, il gelo, la
stanchezza, queste sono per i profughi le prime avvisaglie di un’Europa che li
respinge. “La chiusura delle frontiere non favorisce la legalità. Servono
corridoi umanitari che accompagnino milioni di essere umani fuori dalle guerre
che abbiamo generato”, afferma Nawal. E intanto cammina, “100 passi contro
tutte le mafie”, dice, verso la libertà. La pandemia ha peggiorato le cose,
adesso l’esclusione sembra quasi d’obbligo e l’isolamento un imperativo.
Qualcuno di loro manifesta i sintomi del covid, ma scongiurare il contagio è
difficile. Ed è difficile anche distinguere questo virus da una normale
influenza: impossibile non ammalarsi, quando si rimane tutto il giorno
all’aperto, sotto la pioggia o la neve, con diversi gradi sotto zero, e si
trascorre la notte in ricoveri di fortuna o sotto una sottospecie di tenda. In
questa condizione, simile a quella in cui vivono i profughi di
ogni latitudine, si riesce comunque a trovare momenti di convivialità, quando,
ad esempio, ci si prepara a consumare un pasto frugale, una scatoletta di carne
o tonno, delle aringhe affumicate, su una busta di plastica nera per tovaglia,
attorno a un fuoco, insieme, a condividere, uno stretto all’altro, quegli
istanti. Nawal Soufista prestando il suo corpo in questa missione, lo porta
allo stremo, sapendo che la pietà da sola non è sufficiente. “La capacità di
prestare attenzione a uno sventurato è cosa rarissima, difficilissima; è quasi
un miracolo, è un miracolo”, scriveva nel secolo scorso Simone Weil. Oggi,
oltre al miracolo compiuto dai singoli, occorrono azioni compiute dalle
istituzioni ai diversi livelli, basterebbe anche solo applicare i regolamenti e
le convenzioni. Il cammino che fa Nawal, quindi, la sua denuncia, sono il
nostro cammino e la nostra denuncia. Bisogna decidersi, insomma, tutti insieme,
da che parte stare.
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