Il problema dell’innalzamento della temperatura media sulla superficie del nostro pianeta è raccontato sempre di più come un’emergenza. “Bisogna fare qualcosa e bisogna farlo subito”, si sente dire, “prima di raggiungere il punto di non ritorno”. Qualcuno ha visto nelle condizioni che si sono create durante il lockdown primaverile del 2020, caratterizzate da un calo forzato della produzione e del consumo di beni ed energia, la prova che un’azione drastica e coordinata a livello planetario è possibile e avrebbe grande effetto sui fattori climalteranti. Essa però ha comportato limitazioni ai movimenti delle persone e alle attività produttive e commerciali, che sono state patite come compressioni dolorose di alcune libertà fondamentali: la libertà di viaggiare, di consumare, di fare il lavoro a cui si è formati.
L’emergenza
climatica è un’emergenza sui generis fatta di ghiacciai che si sciolgono in
Groenlandia e di permafrost che cede in Siberia, cioè di catastrofi
spettacolari e remote da cui le civiltà si sentono ancora a una distanza di
sicurezza. Oppure si manifesta nella forma di disastri locali, bombe d’acqua in
Liguria, uragani in Florida, estati siccitose e inverni senza neve o con troppa
neve, che non siamo sempre disposti a ricondurre a un fenomeno globale o a
collegare alla bottiglia di Evian da mezzo litro che abbiamo appena bevuto
lungo la BreBeMi – cioè una degli undici miliardi di bottiglie usate una
tantum e poi gettate ogni anno dai consumatori italiani, acquistata
lungo una delle autostrade più inutili mai costruite. La relazione di causa ed
effetto in questi casi non è evidente. Richiede all’immaginazione un salto di
scala che non tutti riescono a fare e la ricostruzione di complesse
concatenazioni causali. “Una bottiglia, che sarà mai? Io poi la butto nella
differenziata.”
Scenari
di lockdown climatico
Difficilmente
accetteremmo un lockdown climatico. Abbiamo sopportato, più o
meno convinti, i lockdown del 2020 perché sapevamo che le
persone stavano morendo davvero di Covid-19. Lo stato di necessità all’origine
della decisione di chiudere tutto si è imposto con l’evidenza dei fatti di
cronaca e chi ha negato i fatti come invenzioni mediatiche manipolatorie, ha
avuto, in fin dei conti, pochi seguaci. Lo stato di necessità ecologico invece
si baserebbe solo su delle previsioni a loro volta basate su fatti scientifici.
I fatti scientifici, ben più dei fatti di cronaca, richiedono strumenti e
sforzi intellettuali per essere riconosciuti e le previsioni basate su di essi
richiedono un atto di fede nella scienza e nei suoi interpreti da parte di
tutte le persone, una schiacciante maggioranza, che non hanno quegli strumenti
o non vogliono fare quegli sforzi.
Proviamo a
immaginare che cosa accadrebbe se i governi europei si mettessero d’accordo per
imporre ai cittadini le misure restrittive necessarie per ridurre al minimo,
qui ed ora, le emissioni di gas serra per salvare il salvabile. Elenchiamo solo
alcune misure di sicura efficacia, a titolo di esempio: distribuzione di acqua
minerale e di qualsiasi bibita in bottiglia consentita solo entro un raggio di
50 km dalla fonte e solo con bottiglie di vetro senza etichetta e con vuoto a
rendere, da riutilizzare almeno 30 volte prima di essere riciclate; budget
kilometrico individuale annuo per i viaggi in aereo (poniamo: non più di un
volo intercontinentale A/R o di 2 continentali A/R all’anno per persona);
contingentamento della produzione e del consumo di carne e alimenti di origine
animale (non più di 300 grammi di carne per persona alla settimana); divieto di
usare l’auto privata nelle aree urbane con più di 3.000 abitanti; divieto di
produrre e importare beni giudicati superflui da una commissione di esperti
presieduta da me e abolizione contestuale dei negozi Tiger, Muji e Tutto
a 1 Euro; definizione di un budget energetico annuo per ogni industria
commisurato alla utilità dei beni prodotti (l’utilità sarebbe valutata da
un’altra commissione apposita); introduzione nel codice penale del reato
di obsolescenza programmata e contestuale sostegno economico
ai laboratori di assistenza e riparazione degli elettrodomestici e alle
sartorie; limitazioni stringenti all’uso della chimica in agricoltura e grandi
investimenti statali nelle tecniche di permacultura; riforestazione
del 10% della pianura padana e contestuale esproprio delle aree edificabili non
ancora edificate e dei terreni agricoli improduttivi; abolizione delle
merendine confezionate e in generale del junk food (concetto
definito a cura del MinCulPop, dove “Cul” sta per Culinaria)
con la sola eccezione delle patatine, molto gradite alle leadership.
Il governo
che imponesse queste e altre misure simili e volesse farle rispettare ad ogni
costo, provocherebbe tensioni sociali fortissime. La popolazione si dividerebbe
tra i filogovernativi europeisti che credono nella necessità indifferibile di
queste misure severe per garantire un pianeta vivibile alle generazioni future
e salvare Venezia dall’innalzamento del livello del mare e gli oppositori che
ne vedrebbero solo le terribili conseguenze sociali ed economiche immediate,
foriere di problemi ancora più gravi per le stesse generazioni future. Le
posizioni si polarizzerebbero, tanto che gli ecologisti moderati, sensibili al
problema del riscaldamento globale, ma fautori di un approccio più graduale e
rispettoso delle prerogative democratiche, finirebbero per fare fronte comune
con i negazionisti al fine di contrastare la pericolosa deriva autoritaria dei
governi ecologisti. Dall’altra parte, gli ecologisti oltranzisti ispiratori di
queste misure drastiche e illiberali si alleerebbero ai grandi capitali delle
corporation hi-tech (Google su tutte) – che solo pochi anni prima essi avrebbero
considerato come parte del problema – affidando loro il controllo sociale
capillare “a fin di bene” delle società e il monitoraggio puntuale dei consumi
e delle violazioni, nonché lo sviluppo di sistemi di produzione industriale
sostenibili e circolari. La propaganda antigovernativa inviterebbe il popolo
alla disobbedienza civile e alla lunga le opposizioni, oramai stigmatizzate
come negazionisti tout court, senza distinguere tra le loro anime
diverse, sarebbero identificate come nemico pubblico e le loro
organizzazioni dichiarate illegali.
Costretto
alla clandestinità, l’ampio ventaglio della dissidenza, dopo avere agitato le
opinioni, si compatterebbe per avere più forza d’urto. Si approprierebbe
orgogliosamente dell’etichetta di negazionisti, sostituendo però
l’oggetto originario della negazione (il cambiamento climatico) con
l’autoritarismo euro-ecologista, che sarebbe indicato come il vero nemico da
sconfiggere per dare un futuro vivibile e democratico ai nostri figli e nipoti.
Pianificherebbe attentati nei colossali parchi eolici in costruzione in Puglia
e in Maremma, finanziandosi con il contrabbando dei Kinder Pinguì di produzione
turca e del ciauscolo prodotto in Cina da transfughi maceratesi e col mercato
nero delle statuine di Thun rivendute a prezzi altissimi
perfino ad alcuni membri di spicco dell’establishment. Alla fine, nelle regioni
del Nord-Est e in Romagna, dove la maggioranza della popolazione
simpatizzerebbe per il movimento negazionista, i comandi locali della polizia
di stato e intere divisioni dell’esercito si ammutinerebbero, facendo fronte
comune coi rivoltosi e consentendo a questi ultimi di uscire allo scoperto e di
organizzarsi in istituzioni rivoluzionarie. Sull’orlo della guerra civile e
sotto la minaccia di un intervento USA al fianco dell’autoproclamatasi
Repubblica Adriatica e degli altri movimenti separatisti nati in tutt’Europa,
si avvierebbero negoziati frenetici per scongiurare il peggio.
Non so come
andrebbe a finire, ma è evidente che la dichiarata emergenza climatica si
sarebbe ormai tradotta in un’emergenza politica e sociale ben più tangibile,
che esporrebbe le popolazioni a rischi di breve termine comparabili per gravità
con quelli di lungo termine che si sarebbero voluti evitare. Le dinamiche
innescate dalle decisioni eccezionali dei governi ecologisti
avrebbero accorciato drasticamente la prospettiva planetaria del problema e
ridotto la sua dimensione a una questione di ordine pubblico locale.
In
riferimento a scenari di questo tipo, viene spesso tirata in ballo la teoria
politica di Carl Schmitt, perché offre gli strumenti per capirli. Benché
formulate come categorie politiche astratte, le categorie di stato di
eccezione, sovranità e nemico ci aiutano
a rappresentare quello che accade a una comunità quando l’autorità sovrana
prende atto di un’emergenza grave e per farvi fronte chiede che alla sua
decisione autonoma sia attribuita forza di legge. In queste
situazioni eccezionali, la comunità tende a identificare sé stessa in relazione
alla disponibilità dei suoi membri ad accettare – o a subire passivamente – la
decisione. Senza la legittimazione di una comunità che si compatta per
convinzione o per paura attorno al suo organo sovrano di governo, la decisione non
potrebbe imporsi. Chi non accetta la decisione si pone al di fuori
della comunità.
Questo
compattamento e la corrispondente esclusione avvengono, nei termini di Schmitt,
secondo una polarizzazione del tipo amico/nemico. O con me o
contro di me. La nozione di nemico si riferisce non tanto a un opponente in un
conflitto dichiarato, ma all’altro da sé rispetto al quale la
comunità definisce i confini della propria sovranità e che in
determinate circostanze potrebbe diventare l’estremo avversario politico.
Al primo manifestarsi di una crisi grave, la comunità in genere riferisce la
nozione di nemico, in senso metaforico e nel quadro di una retorica guerresca,
alla causa dell’emergenza (nemico è il virus, il terrorismo, il fiume in piena)
per creare un fronte solidale nella lotta per la sopravvivenza.
Ma col
passare del tempo e il perdurare dello stato di eccezione, la stessa nozione
finirà per essere attribuita in senso schmittiano a chi si oppone alla
decisione sovrana. Dopo le bandiere alle finestre, i cori di bellaciao,
i je suis Charlie!, i siamo in guerra!, gli angeli
del fango e le altre forme espressive dell’unità e solidarietà
nazionali, le opinioni sono destinate a polarizzarsi, le contrapposizioni
politiche a radicalizzarsi e il fronte comune contro il problema a disgregarsi.
È evidente che, se il problema in questione è l’aumento della temperatura media
del pianeta, queste condizioni sono particolarmente sfavorevoli
all’elaborazione di una soluzione efficace, perché questa richiede una
comunione d’intenti universale e duratura. Bisogna essere d’accordo tutti,
dentro e fuori i confini degli stati nazionali, e bisogna esserlo per un tempo
indefinito.
Quella
climatica sembra un tipo di emergenza che non può essere affrontata con misure
emergenziali: la transizione verso forme sostenibili di civiltà non avverrà
attraverso l’imposizione autoritaria alle popolazioni di drastiche e dolorose
limitazioni alla produzione e al consumo di beni e di energia.
Eccesso
sostenibile
Non avverrà
nemmeno attraverso i liberi accordi tra gli stati per la riduzione delle
emissioni di gas serra, come quelli sanciti dal trattato di Parigi. Questi
accordi, benché utili, non possono provocare i cambiamenti radicali che la
transizione esige. Oltre a non essere in alcun modo vincolanti per i firmatari,
dato che nessuno stato nazionale sarebbe disposto a rinunciare alla propria
sovranità su questa materia (per trasferirla a chi, poi?), essi restano
ancorati ai modelli dominanti di organizzazione economica e sociale che forse sono
la vera origine del problema. La loro ambizione è di realizzare l’ideale
dello sviluppo sostenibile, cioè di eliminare gli effetti
climalteranti provocati dalle attuali pratiche di approvvigionamento e consumo
energetico, garantendo però per il futuro gli stessi livelli di produzione e di
consumo di beni e servizi a cui siamo abituati e stimolandone semmai un aumento
ai fini della crescita economica. Prefigurano improbabili scenari di eccesso
sostenibile, basati su un principio di sostituzione di tecnologia: dai
combustibili fossili all’eolico, dai motori a combustione interna ai motori
elettrici, ecc. Guardate le fotografie qui sotto e con uno sforzo di fantasia
immaginate che tutte le automobili siano elettriche, che tutte le luci e i
condizionatori siano alimentati da enormi parchi eolici off-shore e che tutti i
beni di consumo contesi nel Black Friday siano
realizzati con, poniamo, il 70% di materiali riciclati: avrete davanti agli
occhi una rappresentazione icastica dello sviluppo sostenibile.
Ho già
provato ad argomentare su queste pagine il mio scetticismo circa la possibilità che simili scenari, ammesso
che siano auspicabili, si avverino. Le fonti energetiche a emissioni zero non
potranno mai coprire l’odierna domanda di energia e ancor meno la domanda
futura, di cui si prevede un aumento costante. La verità è che si dovrà
consumare molto meno e adattarsi a forme di benessere meno energivore. Non ci
sarà transizione fino a che non si sarà affermata nelle società una nuova
sensibilità ecologica, fondata sul pieno riconoscimento della limitatezza delle
risorse e sulla nozione della civiltà umana come parte di un ecosistema
delicato di cui essa deve assumersi la responsabilità. Non ci sarà transizione
finché non si sarà diffusa tra i cittadini un’acuta insofferenza per lo spreco
e l’eccesso, sia nelle forme omologanti del consumismo di massa, sia in quelle
sperequate del lusso, in quanto spropositato impiego di risorse a beneficio di
pochi. Oltre a investire sulle energie pulite, è indispensabile promuovere
nelle società una cultura del limite. Questa è la vera urgenza. La
sfida climatica è culturale molto più che tecnologica. Non ci aspettiamo che
siano i governi a guidare la transizione in questi termini. Possiamo solo
sperare nella cosiddetta cittadinanza attiva, fatta di associazionismo, di
attivismo individuale, di progetti di innovazione sociale ed economica e di
esempi imitabili di felicità alternative. Dobbiamo darci da fare.
Escremento
Ursula Le
Guin, nel suo romanzo Dispossessed: an Ambiguous Utopia racconta
di un pianeta, Anarres, abitato dai discendenti di una setta di anarchici
originari di un altro pianeta, il vicino Urras. Costretti all’esilio dalle società
autocratiche, patriarcali e capitalistiche che dominano Urras, i primi coloni
si erano dovuti adattare all’ambiente inospitale di Anarres, arido, povero di
risorse naturali e inasprito da condizioni climatiche estreme. Lì, però, erano
riusciti a realizzare il loro ideale anarchico, creando una società
egualitaria, senza gerarchie e senza polizie, basata su un principio di
solidarietà organizzata, in cui nessuno possiede nulla, nemmeno gli abiti che
indossa, ma tutti dispongono liberamente del necessario; in cui tutti, senza
esclusioni dovute a privilegi di rango o per merito, dividono il loro tempo tra
le incombenze umili al servizio della comunità (come la raccolta dei rifiuti, o
l’estrazione dei minerali), la realizzazione dei propri talenti e le occasioni
di piacere a basso impatto ambientale che il mondo offre loro: l’amore, il
sesso, l’arte, la convivialità, il teatro, il gioco, la conoscenza. La scarsità
di risorse e la fragilità dell’ecosistema di cui fanno parte, costringono gli
abitanti di Anarres a convivere, anche nei periodi di abbondanza, con la
coscienza vigile di una catastrofe possibile.
Vivono
quindi in uno stato di necessità permanente, che anziché
spingerli verso un governo verticista, autoritario e paternalista, rafforza in
ciascuno il senso di responsabilità nei confronti della comunità e la
motivazione a fare la propria parte per proteggere la vita sul pianeta e
garantire a tutti le stesse opportunità di benessere.
Quando il
protagonista Anarresiano del racconto, un fisico teorico di fama
interplanetaria viene invitato su Urras dalle istituzioni accademiche più
prestigiose della nazione egemone per completare lì le sue ricerche, è
sconcertato dall’opulenza dell’ambiente che lo accoglie. Le vetrine
scintillanti nei quartieri alti della capitale, la conturbante raffinatezza del
mobilio e degli abiti femminili, la varietà e sovrabbondanza dei cibi, l’uso
privato di vasti spazi, come palazzi interi per singoli nuclei famigliari e
come la stessa suite riservata a lui solo, sono un deplorevole eccesso,
il risultato dispendioso e superfluo di un uso smodato delle risorse, non meno
sbagliato per il fatto che Urras, contrariamente ad Anarres, ne abbondi.
Per definire
l’eccesso, la lingua di Anarres ha una parola forte, che enfatizza il
giudizio di valore che il concetto già di per sé contiene: escremento.
“L’eccesso è escremento” dicono ad Anarres, “L’escremento ritenuto entro
il corpo è veleno.”
Quel che
sopravanza il bisogno, ovvero ciò che è voluttuario, cioè concepito
solo per essere desiderato, è assimilato allo scarto ripugnante,
che il corpo deve espellere per sopravvivere. Due termini che tenderemmo a
considerare opposti, vengono invece sovrapposti in base a una qualità che essi
hanno in comune: l’essere superflui. Escremento, in questa
accezione anarresiana, aiuta a dire quello che stiamo imparando sull’emergenza
climatica terrestre. Il mondo è avvelenato dalla superfluità di gran parte di
ciò che desideriamo e produciamo e da un’economia basata sull’obsolescenza,
cioè sulla rapida diminuzione del valore di quello che desideriamo e sulla
conseguente transitorietà del nostro appagamento; un’economia che produce
scarto (escremento) in modo del tutto simile a un apparato digerente. I beni
con cui nutriamo le nostre esistenze di consumatori, una volta svuotati del
loro valore perché tecnologicamente o esteticamente obsoleti, o solo perché
hanno smesso di funzionare, diventano scarto e sono sostituiti da altri più
evoluti o più alla moda, che saranno a loro volta digeriti ed espulsi da un
metabolismo veloce e incessante. La lampadina fluorescente che abbiamo
acquistato a caro prezzo 10 anni fa perché ci prometteva di durare 10 anni e di
consumare 10 volte meno di una a incandescenza, è stata rimpiazzata dopo un
solo anno, benché ancora funzionante, da un’altra fluorescente compatta che si
accendeva più rapidamente, e questa a sua volta da un’altra che emetteva una
luce più bella e calda, e poi da un’altra ancora con un bulbo di forma più
gradevole e finalmente da una lampadina a LED, che probabilmente fra un po’
sostituiremo con una sempre a LED ma smart, da integrare al nostro sistema
domotico.
Così adesso
nella scatola delle cose elettriche abbiamo quattro lampadine ancora buone ma
inutilizzate – “escremento ritenuto”, secondo la lezione di Anarres, e poi
rifiuto speciale da smaltire come RAEE, secondo le direttive dell’Unione
Europea - la cui produzione e distribuzione ha richiesto una quantità di
energia che non sarà mai compensata dall’uso. L’innovazione incrementale, che
ci fa vivere in uno stato di costante inadeguatezza e quindi nella costante
condizione di desiderare qualcosa di meglio, è soprattutto escrementale, perché
produce valore transitorio e scarto durevole. Intanto però l’economia gira e da
qualche parte un PIL cresce. Che ci piaccia o no, dall’economia escrementale
adesso dipendono la vita e il benessere materiale di miliardi di persone e
sapere che essa ci sta portando verso la catastrofe ci mette in una situazione
difficile e ambigua che con una sintesi estrema, a un tempo anarresiana e terra
terra, definirei così: siamo immersi negli escrementi fino al collo.
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