La sinistra che trattiene. Parte prima: il capitalismo come religione
Al
prossimo capodanno, avvolto nel coprifuoco notturno, s’aprirà il genetliaco
secolare, almeno secondo la datazione accettata, del frammento Kapitalismus als Religion di Walter Benjamin.
Possiamo certamente confermare oggi, come si legge nel breve testo, che il
capitalismo risponde alle «stesse ansie, pene e inquietudini a cui in passato
davano risposta le cosiddette religioni». Nondimeno, adesso, quel passato di
appartenenza religiosa, almeno per la maggioranza dei cittadini della parte di
mondo che abitiamo, è ormai remoto e avvolto nella nebbia dell’indifferenza e,
salvo per curiosità personale, dell’oblio. Dunque, qui e ora, la dimensione
religiosa del capitalismo si regge da sola, emancipata dalle sue assonanze con
le esperienze religiose storiche. In ciò si manifesta l’attualità mordente di
Benjamin, che tratta del capitalismo come «fenomeno essenzialmente religioso»
in senso pieno, e «non solo, come intende Weber, come […] formazione
condizionata dalla religione», e il riferimento è qui ovviamente al Max autore
de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Oggi
forse ancor più di allora, proprio perché sgravato da ingombranti persistenze
(quelle appunto delle religioni in senso storico), il capitalismo è religione
altamente sincretica, opportunista, senza teologia e senza dogmi, se non quella
e quelli relativi al proprio essere eterno ed eternamente adattabile al mutare
delle condizioni. È religione del debito, senza dubbio, di sobrietà e colpa (Schuld, dunque colpadebito) da
scontarsi col lavoro, con la formazione (permanente), la resilienza e l’imprenditoria
del sé, ma è anche religione di estasi e pacchianeria rilucente e ingiunzione
al godimento. Porvisi dinanzi contemplandola non nella sua contraddittoria
totalità, ma enfatizzando troppo l‘uno rispetto l‘altro aspetto, fa rischiare
un approccio parziale, approccio di cui trovo più che traccia in un articolo
pubblicato su Jacobin giorni fa, La religione del debito di
Stimilli et al. (da qui: LRDD). Della religione capitalistica si dipinge infatti
in quelle righe un ritratto assai calvinista; dove, solo per citare un esempio,
della contabilità a cui è sottoposto il soggetto
costretto all‘amministrazione ragioneristica del sé si riconosce l‘aspetto
gravoso di partita doppia di colpe e virtù, come è certamente corretto, ma si
lascia in ombra quello gioioso della gamification integrale dell‘esistenza, mediata dal sex appeal dell’inorganico
digitale.
1.
Un (provvisorio) obbligo di sobrietà
Nella
contingenza, non c’è dubbio, il discorso del potere nello stato capitalista
ruota attorno all’obbligo di sobrietà, di non socializzare, di andarci piano
persino con i consumi per non «assembrarsi». Questo discorso è interclassista,
e colpisce tanto i consumi di lusso o quasi-lusso (per esempio le settimane
bianche) quanto quelli popolari. Ma ci troviamo qui in una piega della storia,
in cui l’istanza di proteggere i cittadini (dal virus) prevale su ogni altra
considerazione, anche come esito non più revocabile di un impegno
pluridecennale con cui lo stato ha promesso di proteggere i cittadini da qualsiasi minaccia;
pur trattandosi in gran misura, diversamente dall’attuale, di minacce
inventate. Ciò avveniva non solo «negli ultimi anni con le nuove istanze
sovraniste» come si legge piuttosto inesplicabilmente in LRDD, ma ben prima e
dall’altro lato dell’emiciclo: il securitarismo di stampo anglosassone ha avuto
nei governi di sinistra ed europeisti il suo cuneo più dirompente, proprio
perché andava a intossicare strati sociali fin lì non avvezzi all’essere
governati attraverso la paura del crimine. Ma in ogni caso: quando lo stato
promette di proteggerti a ogni costo vincola la propria tenuta a questa
promessa: la sicurezza biopolitica non è un contratto unilaterale, fatto di
sola repressione, come sarebbe assai desiderabile e comodo a chi vi si oppone.
Essa ti sottrae davvero all’anomia, o almeno lo fa il più delle
volte e per il più dei cittadini riconosciuti come tali. Non fosse così, non se
ne spiegherebbe la presa. Non fosse così, la sinistra non avrebbe il problema a
mio parere totalmente irresolubile (cioè che sarà ri-solto solo con la sua
completa dis-soluzione in qualcosa di diverso) di scegliere
se schierarsi con la possibilità di trasformare radicalmente il mondo, con il
rischio di mettere a repentaglio la sicurezza, oppure di tentare di piegare le
istituzioni a pratiche più inclusive e meno repressive («trasformare […] le
forme istituite del potere» in LRDD), sapendo però in questo secondo caso, anche senza
doverselo ammettere, che il fondo dei rapporti di potere (il capitalismo) sarà
necessariamente mantenuto – pena il ricadere nell’altra ipotesi, quella
dell’anomia e della perdita di sicurezza.
Ma
per tornare al presente: siamo in un momento in cui la sovrastruttura si piega
e in maniera totalmente non meccanicistica rimodella temporaneamente e
parzialmente i rapporti economici; ma si delineano già nell’atto stesso i modi
e le forme con cui la struttura riprende il controllo, e i soggetti che lo
esercitano. Viene ovviamente fatta salva la tenuta dello stato senza il quale
il capitalismo contemporaneo non sarebbe possibile alla magnitudine attuale, e
dunque viene fatto salvo l’imperativo statuale di «salvare i cittadini».
Naturalmente, poiché quella di salvare i cittadini da qualsiasi minaccia può essere
solo una promessa, nella pratica lo stato è costretto a scegliere la minaccia
più terrificante per aggredirla, e finisce così per trascurare le altre: oggi,
con intensità davvero inedita, ci promette salvezza da quella virale nella
declinazione coronavirale, e non considera affatto come minacce
degne di almeno pari attenzione, per esempio, le solite morti dovute ai
tumori (e il cancro è malattia dello sviluppo capitalistico par excellence);
domani forse ritorneremo alle rassicuranti minacce immaginarie (l’invasione dei
migranti), e così via. La sicurezza biopolitica, una volta dichiarata, non è
revocabile, anche se può essere plasmata nell’uno o nell’altro senso.
2.
Il virus come antitesi del capitalismo?
La
dialettica vivace tra struttura e sovrastruttura, nel senso qui,
rispettivamente, di imperativi economici e scelte di governo, ha spinto molti
a non mettere a fuoco il profilo del nemico, scambiando Confindustria tout court con
il capitalismo: il governo vorrebbe fermare tutto, si ritiene, ma Confindustria lo contrasta.
Si manca così di riconoscere che Confindustria, con l’ovvio cinismo del
padronato, vuole in gran parte tornare al suo business as usual; mentre la lotta
intercapitalistica globale in corso ha ben altra portata, e i suoi probabili
vincitori non desiderano alcun as usual, perché sono certi che il futuro appartiene
loro, come noi lo fummo un tempo ormai remoto. Quando, parafrasando Buenaventura
Durruti, le macerie non ci facevano paura, perché portavamo un mondo nuovo nei nostri cuori.
La parte vincente dello scontro intercapitalistico globale (i nomi già li conosciamo), assume la tenuta dello stato come asset indispensabile agli affari, e mai si sognerebbe di mettere in discussione lockdown e provvedimenti restrittivi (come ha fatto invece Confindustria), tanto essi non riguarderanno mai né il flusso di dati che ne garantisce i profitti (anzi, al contrario: la digitalizzazione integrale è potenziata dalle misure restrittive alla socialità) né i facchini che movimentano le merci, che saranno comunque assai più rapidamente di quanto vogliamo immaginare sostituiti vieppiù da macchine, lasciando per sovrammercato cadere ogni illusione sulla consistenza del nuovo soggetto storico di classe operaia.
Errore comune, in questi tempi pandemici, è stato abdicare alla consapevolezza
della portata dello scontro intercapitalistico in corso, e insistere sul fatto
che il virus avrebbe messo a nudo le contraddizioni del capitalismo, non
riconoscendo invece la pandemia come un fenomeno a cui la parte vincente del
capitalismo sta dimostrando di far fronte sul piano del profitto. Si direbbe
quasi che, in mancanza di un soggetto storico rilevante opposto al dominio
capitalistico globale, si sia fantasmato il virus come antitesi del
capitalismo, cosa che a un qualsiasi tipo di analisi materialistica non
reggerebbe neppure come ipotesi preliminare.
3.
Vita interiore e lockdown
Ma
torniamo all’ascesi. La portata interclassista delle restrizioni attuali
potrebbe anche condurre a un’errata valutazione delle tendenze in atto,
facendole scambiare per il segno di un capitalismo ascetico e calvinista, fatto
di rinunce. Sull’illusione ottica della fine del consumismo dice cose chiare un
articolo, uscito sempre su Jacobin, di Loris Caruso e Francesco
Campolongo (che pure sul finale inciampa nell’idealismo di ritenere che
l’ipotetica proprietà statale dei big data possa emendarne la natura intrinsecamente
alienante). Per mostrare come le restrizioni attuali non abbiano in alcun modo
a che fare con il presunto mutare della temperatura etica del capitalismo
possiamo cominciare dal riconoscerne la genealogia: zone rosse, Daspo,
coprifuoco (giovanili, come sono di fatto anche quelli in pandemia),
provvedimenti contro la movida… sono iniziati ben prima del virus, e possiamo
tracciarne le origini anche agli anni novanta, negli Stati Uniti; da noi poco
più tardi. Lo stesso dicasi per il contrasto degli «assembramenti», dipinti
come criminogeni fin dai primi ottanta. «Teenagers gather in front of the corner store. The merchant asks
them to move; they refuse», scrivevano Kelling e Wilson nel 1982, per poi
proseguire con la favoletta dark del quartiere che precipita nel caos; e si
era nel pieno dell’edonismo reaganiano. Pur a partire da una premessa
securitaria tali restrizioni erano volte alla messa a profitto di parti di
città in senso immobiliare, e quindi facevano parte di una fase nuova di accumulazione originaria che
grava(va) sulla città e sulle forme del vivere urbano. Non mi convince quindi
l’idea che il lockdown, apice di restrizioni articolate sul modello di quelle
di cui si è appena detto, epicentro di una temperie in cui v’era persino
l’invito alla delazione e l’indicazione di capri espiatori, in diretta
Facebook, da parte di rappresentanti istituzionali, possa costituire
«un’occasione per interrogarsi su come coltivare la propria vita interiore» nel
senso di un «ascetismo politico» (inteso qui in LRDD positivamente: ci tornerò
più avanti). Non parlo qui in alcun modo della necessità di lockdown e
restrizioni, e cioè, detta in modo esplicito, del fatto che fossero opportune e
giuste o meno, valutazione che ci ha travagliato tutti ma che in questa fase
non mi interessa punto; e neppure disconosco che il lockdown, nel suo portare
le restrizioni a un limite estremo, possa aver prodotto effetti paradossali e
forse per qualcuno illuminanti. Dico però che posta sotto le lenti del
materialismo quella vita interiore si rivelerebbe, temo, come resa
possibile soprattutto da stabilità abitativa, abbonamenti in streaming, consegne
a domicilio, redditi correttamente e puntualmente accreditati; buon
riscaldamento domestico e in generale comfort. Sia detto, tutto ciò, materialisticamente e
mai moralisticamente – ché anche il sottoscritto, pur in una varietà un po’
rudemente appenninica, ne ha goduto, e di questo e di quello. Ma del
materialismo abbiamo bisogno, per non perdere la bussola, e più che mai quando
contempliamo il cielo e il numinoso.
4.
Disciplinamento ed effetti ascetici
Anche
in riferimento alla cura della propria salute, alla ginnastica, il cibo sano e
la performatività individuale… e insomma a tutti i topoi dell’ascetismo imposto
alle classi popolari nel regime capitalista attuale, mi sento di dire che sono
le retoriche del disciplinamento a essere venate di calvinismo, non le loro
premesse ideologiche e teologiche. Il ricco non è mai tenuto all’ascesi, alla
moderazione, al decoro. Come scrive Tamar Pitch: «nel senso comune prevalente
il sostantivo “decoro” e l’aggettivo “decoroso” non si applicano a tutte le
posizioni sociali […:] i ricchi e i potenti non hanno bisogno di imporsi limiti
e non devono essere “decorosi”». A monte di quell’ideologia (qui teologia),
poi, non trovo il calvinista «profitto per il profitto», ma di nuovo l’accumulazione originaria ricercata,
questa volta, nella privatizzazione del welfare. Essa, al solito, avviene non
una volta per tutte, ma ripetutamente: il servizio sanitario pubblico viene
sbranato di un boccone, per così dire, ogni volta che un sindacato confederale
sottoscrive un contratto che prevede il «welfare aziendale».
Anche
qui dunque non riesco a intravedere il segno di alcuna ascesi, se non appunto
nella retorica del disciplinamento. Peraltro quello stesso disciplinamento non
sembra in ultima istanza indirizzato a produrre stigma nei confronti di chi
non è illuminato dalla grazia del successo: esso produce innanzitutto un nuovo
spazio di accumulazione originaria nel cosiddetto terzo settore, luogo di
travaso privilegiato di denaro pubblico in profitti privati, di occupazione
precaria e ricattabile, nonché di composizione preventiva dei conflitti sociali
nel segno della massima cancellazione dell’autodeterminazione del soggetto assistito. Ciò in
modo puntuale; per quanto invece riguarda i soldi gettati dall’elicottero
statuale a fini di consenso verso il capitalismo, basti citare come negazione
estrema di ogni tensione all’ascesi l’attuale iniziativa paganissima e
dementemente gaudente della lotteria degli scontrini.
5.
Verso una sinistra radicale del trattenimento?
In
generale fatico a vedere dove, se non appunto nelle conseguenze disciplinari,
il capitalismo contemporaneo sia «caratterizzato dalla rinuncia e dal rigore» e
perché l’ascesi sarebbe «fondamentalmente la pratica che può essere
“elettivamente” integrata nei modi di produzione capitalistici» (LRDD), modi di
produzione che sono invece al tempo presente caratterizzati da una dissipazione
sconvolgente e catastrofica di energia e materia. Ma anche ciò in ipotesi
accettato, mi pare poco convincente come a tale supposta ascesi del capitalismo
venga opposta in LRDD una positiva «forma di ascetismo politico –
se così si può dire – che consiste nella capacità di indicare nuovi stili di
vita, nuove condotte, nuovi costumi, nuove regole del gioco sociale». L’uso del
termine ascesi in questo senso, oltretutto infelicemente
associato a «nuovi stili di vita», anche se invece più avanti viene
riallacciato in senso intersezionale «alla generazione, al genere, al blackness, a tutti
quegli ambiti legati alla riproduzione e alla cura», mi riporta alla classica
riduzione ad atto virtuoso del contrasto alla devastazione
capitalistica, pratica questa dell’atto virtuoso che sì viene facilmente
«integrata», metabolizzata e messa a reddito nei correnti «modi di produzione
capitalistici». Puntare sull’ascetico oppositivo nel centro del regime della
(presunta) ascesi capitalistica fondata sul debito non rischia forse, come mi
avverte l’amico Pierpaolo Ascari in una feconda comunicazione sui questi temi,
di farci trascurare tutti quei soggetti che cercano opportunamente di
rivendicare e far valere il proprio credito nei confronti del capitalismo? E che
magari lo fanno, aggiungo io, in modi e con parole in cui noi fatichiamo a
riconoscerci?
Tale
riduzione mi rimanda poi all’ulteriore rischio – che forse per taluni è però
possibilità auspicabile – dell’edificazione di una sinistra radicale di trattenimento volta
a conquistare spazi transitoriamente trascurati dal capitalismo (e magari a
valorizzarli, preterintenzionalmente, in vista del suo ritorno), piuttosto che
a darsi un piano aggressivo verso il capitalismo stesso. Ma di questo dirò
nella seconda parte del presente lavoro.
La sinistra che trattiene. Parte seconda: fine del capitalismo e fine del mondo
Nell’ascoltare
gli stralci di conversazione che compongono il documentario Oeconomia di Carmen Losmann (2020) si coglierà il
ricorrere del sostantivo Schöpfung, e cioè creazione. Si tratta, qui, della
creazione ex nihilo del denaro su conti bancari, effettuata
mille e mille volte al giorno negli istituti di credito del globo. Essa è a un
tempo atto divino, nel suo costituire realtà sonante a partire dal nulla; e
atto liturgico, cultuale, celebrato «senza tregua» nel senso indicato da
Benjamin nel frammento con cui abbiamo aperto già la prima
parte di questa riflessione. Il suo ripetersi, nelle cattedrali dell’alta
finanza firmate da archistar, si riflette e anzi si radica nel riproporsi
costante, in ogni recesso della società e del pianeta, delle dinamiche
estrattive di accumulazione originaria (come peraltro il film esemplifica assai
efficacemente). Queste dinamiche sono a loro volta rese possibili, all’inedita
e devastante dimensione attuale, dalla tecnologia sviluppata dal capitalismo
stesso. E a questa, appunto, veniamo.
Te(cn)ologia
del capitalismo
Il
capitalismo, per quando già detto, è religione polimorfa: ascesi quanto basta,
ma anche godimento, e più di tutto promessa. Questa promessa si manifesta
eminentemente, e forse, a pensarci bene, esclusivamente, sotto le specie della
sua tecnologia. La città nuova che il capitalismo promette è la città
globale delle tecnologie interconnesse: AI, IoT, modificazione genetica, la
colonizzazione di Marte… Persino la longevità, quei 120 anni da raggiungere che
sarebbero dietro l’angolo. Il capitalismo ci porta l’immortalità
nell’immanente, e lo fa tramite le sue tecnologie. Esse sono la sua buona novella. E la
sinistra, quella radicale (ché l’altra non ha senso includerla nelle nostre
riflessioni: essa è solo triviale tecnica di governo), nella sua gran parte tace
ostinatamente sulle tecnologie, e se ne fa dominare anche più di quanto sia
socialmente e umanamente necessario, e questo proprio quando tracciare il
limite di quel necessario dovrebbe essere il tema politico e
culturale più urgente di ogni altro.
Dopo averla citata anch’io, come tanti altri, fino all’eccesso, ho meditato una rilettura eterodossa della formula resa celebre da Mark Fisher («it is easier to imagine an end to the world than an end to capitalism»), pur rendendomi conto che ad alcuni, forse a ragione, tale rilettura parrà blasfema. Ma, ecco il punto, se ci è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo potrebbe non essere per errore prospettico o depressione collettiva, ma perché il capitalismo ha predisposto la fine del mondo come sola exit strategy alla propria ipotetica fine. E ciò, al solito, senza intenzione ma semplicemente e oggettivamente innestando la nostra sopravvivenza su una struttura tecnologica che solo il liquido amniotico del capitalismo, e il suo regime di inauditi consumi, può sostenere. Questa fine del capitalismondo non è detto che si avveri storicamente, perché per fortuna il futuro non ha copione scritto in anticipo, ma si è già avverata nel nostro sguardo prospettico e nel nostro immaginario, anche se fatichiamo ad accorgercene: è la passione quasi morbosa della nostra cultura per le distopie a tradirlo, anche prima che emerga alla coscienza. Guardiamo alle distopie perché esse ci illustrino quella fine del mondo di cui nelle tecnologie che ci circondano cogliamo oscuramente l’annuncio.
Trattenimento
e parusia
La
figura del katechon,
ben nota alla teologia politica, s’annuncia nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi,
attribuita a Paolo. Katechon è ciò o colui che trattiene l’Anticristo; dunque
trattiene lo scatenarsi dell’anomia. Ma con ciò stesso impedisce, il katechon,
che abbia luogo lo scontro finale tra il bene e il male, e ne emerga, nella
promessa cristiana cui Paolo aderisce, la seconda venuta e il regno di dio.
Affinché questo si instauri il katechon va, letteralmente, «tolto di mezzo».
L’attesa di un tale regno, piaccia o no, è (stata) incistata nella prospettiva
escatologica delle lotte umanissime e terrene in cui ci riconosciamo – quelle
di socialisti, comunisti e anarchici. Senza tale promessa nessuno avrebbe messo
in gioco la propria vita. Poi possiamo calarla e declinarla, la promessa, nella
classe operaia, tra i subalterni, i colonizzati eccetera. Ma è la promessa a
muovere gli animi, e, oserei dire, solo la promessa: non certo «programmi e
azioni concrete» (vedi oltre) e neppure la sofferenza del presente. «Se stanno
così male, perché non si ribellano?», domandano alcuni, riferendosi ai più
sventurati ed espropriati del pianeta. Semplice: perché non è l’oppressione a
muoverci verso l’altrove, ma è la fede in quell’altrove a darci la forza di
strappare via la nostra carne dai ricatti dell’oppressione, a farci superare la paura delle macerie.
Ora:
in tutte le concrezioni storiche convivono probabilmente elementi di matrice
catecontica con elementi di rottura; e questo è forse ineluttabile nel
dinamismo della vicenda umana. Ma la sinistra radicale di oggi è quasi
interamente identificata con il trattenimento; e la chiesa cattolica lo è
altrettanto. Francesco è il non plus ultra del trattenimento, proprio perché
immette elementi di buonsenso di sinistra in un sistema che non vede
l’ora di accoglierli e che lo farà, ma solo retoricamente. I clienti della
maggiore catena italiana di supermercati, a cui è stato consegnato alla cassa l’house organ del mese
di novembre, hanno ricevuto la notizia che l’enciclica recente
chiama «in causa la responsabilità di tutti per correggere eccessi e storture
della società in cui viviamo»; e durante la lettura hanno appreso che
«Francesco osa là dove non osa più nessuno e critica il capitalismo finanziario
e il modo in cui i beni comuni della Terra […] sono stati e sono ancora usati».
Non credo sia necessario, in questa sede, evidenziare che l’indicare il
feticcio del «capitalismo finanziario» sia solo un modo per distogliere lo
sguardo dal capitalismo come sistema (peraltro impensabile senza finanza); e
come lo slogan dei «beni comuni» sia lieve come un palloncino gonfio d’elio.
Non interpreto qui, sia chiaro, Bergoglio attraverso la Coop, ma cerco di evidenziare
come il suo buonsenso di sinistra sia impotente di fronte alla
capacità mimetica, propagandistica e persuasiva del capitalismo.
La
supplenza papale
Cosa
manca a quel buonsenso per dargli forza? Manca, come è ovvio,
l’essenziale, ovvero una teoria che contempli l’abbattimento del capitalismo. Scrive Augusto
Illuminati a proposito del riformismo del Papa, nel conferirgli honoris causa il
titolo di «zecca come noi»:
«accontentiamoci e non
pretendiamo di misurarci con grandi sistemi teorici – cosa del resto cui
abbiamo rinunciato anche nella valutazione delle forze politiche di sinistra,
di cui andiamo a vedere i programmi e le azioni concrete, senza indagare troppo
sulle abborracciate teorie che ne sarebbero cornice e presupposto».
Il
culto di «programmi e […] azioni concrete» mi pare, in realtà, più che altro il
frutto dell’aziendalismo soluzionista che dai Novanta ha permeato la politica
dei partiti (che non rappresentano più nessuno, ma si impegnano a convincere
alcuni cittadini di ceto medio di avere un programma di sinistra, quando persino non solo,
sardinescamente, contro le destre). Ma qui il problema è un altro: la
rinuncia a un sistema teorico non è forse, essa stessa, il più insidioso dei
sistemi teorici? Non è forse il ribaltarsi in ideologia secolare debole di
quella che è la forza teologica del capitalismo, ovvero il non
avere dogmi se non quello, chiarissimo e irrinunciabile, della propria
onnipervasività e del proprio conservarsi? La teoria della rinuncia alla teoria non
potrà mai nulla contro la prevaricazione sistemica del capitalismo, perché
questa procede di ricatto in ricatto forte del suo unico dogma, e in ogni
singola occasione troverà perfettamente il modo per dimostrare che questa volta è
indispensabile fare così, ovvero dispiegare il profitto, poi la prossima facciamo
come dice il Papa, promesso giurin giurello. A meno di non pensare
fallacemente, come già ipotizzato in precedenza, che in mancanza d’altro, in
mancanza cioè di una vera antitesi sociale, si possa immaginare il virus come
antitesi del capitalismo, e siccome il capitalismo s’è fermato per il virus, almeno un po’,
e quindi ha fatto come dice il Papa e dunque c’è la prova
che si può fare, lo costringeremo a fermarsi ancora. Peccato solo che la
sagoma di un tale capitalismo, quello che si sarebbe fermato per il virus, è
ritagliata sul cartamodello dei sogni, e lascia fuori quasi tutto, ovvero il
capitalismo vincente delle piattaforme e della logistica e della sorveglianza
che col virus convive e prospera, e non teme in alcun modo un prossima
pandemia.
Il
Papa fa il suo lavoro, e lo fa bene, anche se vale la pena di ricordare, non
foss’altro per diletto storico, ciò che scrisse Gramsci del tempo di Pio XI, e cioè che
quando la «lotta contro il modernismo aveva squilibrato troppo a destra il
cattolicismo, occorre[va] nuovamente “incentrarlo” nei gesuiti, cioè dargli una
forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinali, una grande libertà di
manovra ecc.», e dunque v’è tradizione, come sempre da quelle parti, in tutte
le apparenti novità di oggi; nondimeno, ciò detto e verificato, il cardinale
Krajewski che riattacca la luce a Spin Time emoziona anche me, perché la
solidarietà, che Oltretevere chiamano carità, è scintilla del regno a venire;
ma il lavoro della sinistra radicale dovrebbe essere altro, ovvero organizzare
la distruzione dei palazzi del capitale, per fare spazio al regno
nell’accezione nostra, immanente, comunista e libertaria. O almeno, al minimo
sindacale, il lavoro della sinistra radicale dovrebbe essere il darsi una
teoria in grado di ipotizzarla, tale distruzione, senza esserne atterriti. La
supplenza della chiesa alla sinistra radicale è una sciagura, ma ci si può pur
convivere; più grave se dalla sinistra radicale si guarda a quella sciagura con
compiacimento.
La
redenzione automatizzata
Se
tutto dunque è volto al trattenimento, donde verrà la trasformazione? Se tutto
è volto al trattenimento che ne è di quella «debole forza messianica» conferita
in dote a ogni generazione dalle precedenti, e che la nostra sembra interamente
dilapidare? Benjamin apre le sue Tesi di filosofia della storia con
un’immagine buffa, quasi da baraccone: quella dell’automa in veste da turco,
con una pipa in bocca, «costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di
un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria». A
vincere, per mezzo del fantoccio, è il materialismo storico; ma a muoverne le
mani sulla scacchiera, da una postazione nascosta e per mezzo di fili, c’è la
teologia, che «com’è noto, è piccola e brutta, e […] non deve farsi scorgere da
nessuno». Tra le «cose rozze e materiali», dunque, che animano la lotta di
classe, e «quelle più fini e spirituali», compresa la promessa di un’«umanità
redenta», corre dunque un nesso, un filo nascosto, non solo ineludibile, ma
fecondo.
Esiste però una possibilità ulteriore rispetto al trattenimento, ed è quella che la sinistra radicale aderisca alla prospettiva di una redenzione che provenga dalle macchine. Essa appare diretta ed esplicita nell’accelerazionismo, che si ripromette, con toni talvolta anche naïf, di «togliere di mezzo» ogni resistenza catecontica all’avvento di una piena automazione; ma in modo obliquo quella prospettiva plasma anche altre posizioni della sinistra più o meno radicale, posizioni che poi nella prassi quotidiana sono moderate e di trattenimento. Si tratta, in entrambi i casi, di costruzioni astratte – qui la loro debolezza – edificate a partire da dati di fatto reali, e in questo invece la loro forza e appeal. Si potrà così, per esempio, sostenere che il capitalismo produca una fittizia scarsità di beni per renderli appetibili, il che è vero, ma finendo poi per dimenticare il reale della scarsità delle risorse (la limitatezza del pianeta); oppure si argomenterà che è la cooperazione sociale a generare gli avanzamenti tecnologici, di nuovo una verità, ma trascurando il fatto che i più sofisticati strumenti sono concepiti solo nel e per il regime capitalista, di cui recano l’impronta digitale e l’ergonomia; si contemplerà giustamente, ancora, la necessità dell’ozio e del godimento in una società futura emancipata dal profitto, ma lo si farà permanendo compiaciuti in un immaginario consumistico, come nel puerile Falc (Fully Automated Luxury Communism). Nulla impedisce a tali traiettorie teoriche di manifestarsi, nel qui e ora, come pieno trattenimento: il lavoro sporco e dialettico della salvezza è infatti affidato alle macchine.
In
questo panorama non c’è una forza che diriga le mosse dell’automa in veste da
turco in direzione di un’«umanità redenta». E questo non solo per la nostra
sconfitta storica, ma perché per una parte sostanziosa del pensiero della
sinistra (radicale, ma anche liberal) la dimensione umana di quella redenzione,
diciamo la bambina, viene gettata via con l’acqua sporca degli
abusi in cui era coinvolto, come complice, il concetto di natura umana. Non
più condotto da quell’aspirazione, l’automa in veste da turco si muta nel Turco Meccanico di Amazon; le sue mosse sono orientate
dal profitto e alimentate da schiere di lavoratori polverizzati, ognuno dinanzi
al suo schermo solitario, il cui lavoro vivo ha la prospettiva del kamikaze: quello di
diventare ben presto lavoro morto e mutarsi (diventando eterno?) in
algoritmo macchinico. Eppure anche qui, nonostante tutto, il materialismo
storico fa il suo lavoro. Ma quella che traspare in controluce è un’escatologia
triste e inorganica.
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