Importante ONG israeliana: Israele è
un regime d’apartheid. La stampa italiana… tace.
Per la prima
volta, B’Tselem, la
più grande organizzazione israeliana per i diritti umani, conferma ciò che
studiosi palestinesi e sudafricani affermano da anni: Israele è un
regime di apartheid, tanto nei Territori palestinesi occupati come
all'interno di Israele.
Nel rapporto
di B'Tselem, “Un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo:
Questo è apartheid”, si afferma che tutta l’area sotto controllo
di Israele “è organizzato secondo un unico principio: promuovere e cementare la
supremazia di un gruppo - gli ebrei - su un altro - i palestinesi.”
Come dice la studiosa e poetessa palestinese Rafeef Ziadah, non è una novità per i palestinesi, e neanche per il
movimento globale di solidarietà.
Il rapporto
è un importante traguardo anche se ha il limite di non parlare
dei profughi palestinesi, che rappresentano la metà del popolo palestinese, cui
Israele nega il sacrosanto diritto al ritorno.
Dovrebbe servire per aprire un dibattito più approfondito e incoraggiare
misure concrete, come il boicottaggio e le sanzioni, per mettere Israele di
fronte alle proprie responsabilità. L’apartheid è un crimine contro l’umanità.
La notizia è
stata ripresa dalla stampa di tutto il mondo, come il Guardian, l’Associated
Press, la CNN, Le Monde e El País.
Dalle
testate italiane…quasi niente. Solo il manifesto ha dato la notizia.
Invitiamo a mandare una lettera ai
giornali italiani chiedendo che diano la notizia di questo importante rapporto. Se
in piena crisi statunitense la CNN ci riesce, anche in piena crisi italiana i
media possono e devono trovare spazio.
Esempio di
lettera:
Ho letto con molto interesse sulla
stampa internazionale del rapporto della più importante organizzazione
israeliana per i diritti umani, B’Tselem, che per la prima volta definisce
Israele come regime d’apartheid. Il rapporto documenta come Israele, in tutto
il territorio sotto il suo controllo, progetta lo spazio geograficamente,
demograficamente e fisicamente in modo da garantire contiguità territoriale e
pieni diritti ai suoi cittadini ebrei, mentre ai palestinesi riserva frammenti
di terra tra loro disgiunti e limitati diritti. Così B’Tselem demolisce il mito
di Israele come democrazia che attua un’occupazione militare “temporanea” da
quasi 54 anni. Sorprende, data l’attenzione mediatica internazionale, che la
vostra testata non ne abbia ancora dato spazio. Chiedo alla redazione di
rimediare e dare ai suoi lettori la possibilità di essere informati su un
argomento di grande rilevanza.
Nome
Città
Indirizzi email (a scelta): lettere@avvenire.it, lettere@corriere.it, rubrica.lettere@repubblica.it, lettere@ilfattoquotidiano.it, lettere@lastampa.it
Invitiamo
tutti ad unirsi a BDS Italia per intensificare le campagne di boicottaggio e sanzioni mirate richieste da tempo dalla
società civile palestinese
Siamo la più importante associazione israeliana per i diritti
umani, e questo lo chiamiamo apartheid - Hagai
El-Ad
La sistematica promozione della
supremazia di un gruppo di persone su un altro è profondamente immorale e deve
finire.
Non si può
vivere neppure un giorno in Israele/Palestina senza provare la sensazione che
questo luogo sia stato costantemente ideato per privilegiare un popolo e solo
esso: il popolo ebraico. Eppure metà di quanti vivono tra il fiume Giordano e
il mar Mediterraneo sono palestinesi. Il divario tra queste situazioni vissute
aleggia nell’aria, si espande, è ovunque su questa terra.
Non mi
riferisco solo a dichiarazioni ufficiali che lo precisano, e ce ne sono tante,
come l’affermazione nel 2019 del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui
“Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini”, o la legge fondamentale
dello “Stato-Nazione”, che sancisce che “lo sviluppo della colonizzazione
ebraica è un valore nazionale”. Quello a cui sto cercando di arrivare è una
sensazione più profonda di persone come desiderabili o indesiderabili e una
consapevolezza del mio Paese a cui sono stato esposto gradatamente dal giorno
in cui sono nato ad Haifa. Ora è una presa di coscienza che non può più essere
evitata.
Benché ci sia
una parità demografica tra i due popoli che vivono qui, la vita è gestita in
modo tale per cui solo una metà gode della grande maggioranza del potere
politico, delle risorse del territorio, di diritti, libertà e protezione. È
proprio una prodezza conservare simile negazione dei diritti. Ancor di più lo è
venderla con successo come una democrazia (all’interno della “Linea Verde”, il
confine dell’armistizio del 1949), a cui viene associata un’occupazione
temporanea. Di fatto, un governo gestisce chiunque e qualunque cosa tra il
fiume e il mare che ovunque sotto il suo controllo risponde allo stesso
principio organizzativo e opera per far progredire e perpetuare la supremazia
di un gruppo di persone, gli ebrei, su un altro, i palestinesi. Questo è apartheid.
Non c’è un
solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un
palestinese e un ebreo siano uguali. Le uniche persone di prima classe sono i
cittadini ebrei come me, e noi godiamo di questo status sia all’interno dei
confini del 1967 che al di là, in Cisgiordania. Divisi dal differente status
personale assegnato loro e dalle molte varianti di inferiorità a cui Israele li
sottomette, i palestinesi che vivono sotto il dominio di Israele sono uniti dal
fatto di essere tutti discriminati.
A differenza
dell’apartheid sudafricano, l’applicazione della nostra versione, chiamatelo se
volete apartheid 2.0, evita alcuni aspetti particolarmente sgradevoli. Non
troverete cartelli “solo per bianchi” sulle panchine. Qui “proteggere il
carattere ebraico” di una comunità, o dello Stato stesso, è uno degli eufemismi
appena velati utilizzato per cercare di nascondere la verità. Però l’essenza è
la stessa. Che in Israele le definizioni non dipendano dal colore della pelle
non fa una differenza reale: è la situazione di superiorità che è al centro
della questione, e che deve essere sconfitta.
Fino
all’approvazione della legge sullo Stato-Nazione, la lezione fondamentale che
Israele sembra aver appreso riguardo a come è finito l’apartheid sudafricano è
stata evitare dichiarazioni e leggi troppo esplicite. Queste possono rischiare
di provocare giudizi morali, ed eventualmente, dio ne scampi, conseguenze
concrete. Al contrario la paziente, tranquilla e graduale accumulazione di
prassi discriminatorie tende a evitare reazioni da parte della comunità
internazionale, soprattutto se non si intendono onorare seriamente le sue norme
e attese.
È così che la
supremazia ebraica da entrambi i lati della Linea Verde è realizzata e
applicata. Abbiamo progettato la composizione demografica della popolazione,
lavorando per incrementare il numero di ebrei e limitare quello dei
palestinesi. Ovunque Israele abbia il controllo abbiamo consentito
l’immigrazione ebraica, con la cittadinanza automatica. Per i palestinesi è
vero il contrario: ovunque ci sia il controllo di Israele, non possono
acquisire lo stato civile, persino se la loro famiglia è di qui.
Abbiamo
progettato il potere in modo da attribuire, o negare, diritti politici. Ogni
cittadino ebreo ha diritto di voto (e ogni ebreo può diventare cittadino), ma
meno di un quarto dei palestinesi sotto il controllo israeliano ha la
cittadinanza e quindi vota. Il 23 marzo, quando gli israeliani andranno a
votare per la quarta volta in due anni, non sarà una “festa della democrazia”,
come spesso vengono definite le elezioni. Sarà invece un ennesimo giorno in cui
i palestinesi privati di diritti vedranno come il loro futuro sarà determinato
da altri.
Abbiamo
progettato il controllo della terra espropriando vaste estensioni di terra palestinese,
escludendoli dalla possibilità di beneficiarne o utilizzandole per costruire
città, quartieri e colonie ebraici. All’interno della Linea Verde lo abbiamo
fatto da quando è stato fondato lo Stato, nel 1948. A Gerusalemme est e in
Cisgiordania lo abbiamo fatto da quando le abbiamo occupate, fin dal 1967. Il
risultato è che le comunità palestinesi, ovunque tra il fiume e il mare, devono
affrontare una situazione di demolizioni, espulsioni, impoverimento e
sovraffollamento, mentre le stesse risorse della terra sono destinate a nuove
aree di sviluppo urbano per gli ebrei.
E abbiamo
progettato, o meglio limitato, gli spostamenti dei palestinesi. La maggior
parte di loro, che non sono né cittadini né residenti, dipende da permessi e
posti di controllo israeliani per viaggiare all’interno di un’area e tra una
zona e l’altra, così come per andare all’estero. Per i due milioni della
Striscia di Gaza le restrizioni agli spostamenti sono più severe: non è
semplicemente un bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid,
venivano destinati alla popolazione nativa, ndtr.], in quanto Israele ne ha
fatto una delle prigioni all’aria aperta più grandi sulla Terra.
Haifa, la mia
città natale, dal 1948 vive una situazione di parità demografica. Dei circa
70.000 palestinesi che vi vivevano prima della Nakba [la Catastrofe,
l’espulsione dei palestinesi nel 1948, ndtr.], ne venne lasciato in seguito
meno del 10%. Da allora sono passati ormai 73 anni, e adesso Israele/Palestina
è una realtà bi-nazionale con parità demografica. Io sono nato qui. Voglio,
cerco di rimanervi. Ma voglio, pretendo di vivere in un futuro molto diverso.
Il passato è
fatto di traumi e ingiustizie. Nel presente, sono riprodotte costantemente
ancor più ingiustizie. Il futuro deve essere radicalmente diverso, il rifiuto
della supremazia, costruito sull’impegno per la giustizia e per la nostra
comune umanità. Chiamare le cose con il loro nome, apartheid, non è un momento
di disperazione, ma di chiarezza morale, un passo sul lungo cammino ispirato
dalla speranza. Vedi la realtà per quello che è, chiamala col suo nome senza
infingimenti, e contribuisci a realizzare un futuro giusto.
Hagai El-Ad è
un attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem
[associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.]
(traduzione dall’inglese di
Amedeo Rossi)
Israele è stato descritto come un “regime di apartheid” - questa non sarà
una novità per i palestinesi comuni - Rafeef Ziadah
Il position paper pubblicato da B'Tselem deve aprire il
dibattito sulla realtà della situazione in Israele / Palestina di fronte a una
campagna di silenzio orchestrata
"Un regime di apartheid" - questa è la conclusione di un nuovo position paper dell'organizzazione
israeliana per i diritti umani B'Tselem, che riassume l'impatto e l'obiettivo
delle politiche e delle leggi israeliane nei confronti dei palestinesi tra il
fiume Giordano e il mare Mediterraneo.
Il position paper nota che parlare di
apartheid israeliano “non vuole dire una copia esatta dell'ex regime
sudafricano”. Questo è vero - Israele non mostra le ovvie forme di apartheid
gretto che erano presenti in Sud Africa, come i cartelli che imponevano la
rozza segregazione negli spazi pubblici.
Ma questo è solo perché Israele ha
perfezionato un sistema di discriminazione e colonizzazione molto più sofisticato attraverso una matrice di
regolamenti e infrastrutture che governano ogni aspetto della vita palestinese.
Le pratiche non sono meno discutibili o disumanizzanti dell'apartheid gretto.
Le loro origini sono nella pulizia etnica della Palestina nel 1947-1948 che ha portato
alla fuga di più di tre quarti della popolazione palestinese. Questa non è
semplicemente una dolorosa memoria storica; rimane una realtà vissuta ancora in
corso.
Si vede oggi nella segregazione dei
palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, in centri abitati sparsi
divisi da insediamenti israeliani, posti di blocco militari e autostrade solo
per israeliani. Quei palestinesi che sono rimasti sulla loro terra e sono
diventati cittadini israeliani sono costretti a vivere come persone di seconda
classe in uno stato costruito sulla distruzione della loro identità nazionale.
Ai profughi palestinesi viene negato il diritto al ritorno, mentre la
cittadinanza e l'insediamento vengono accelerati per chiunque sia di origine
ebraica.
Mantenere questo controllo sui palestinesi e
privilegiare la popolazione ebraica non avviene arbitrariamente; è sancito
dalla legge e dalla pratica. Questo può essere visto chiaramente dal modo in
cui l'economia palestinese è mantenuta in uno stato di collasso controllato.
Decenni di politiche di de-sviluppo hanno distrutto la base produttiva della
Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza; attacchi militari distruggono
le infrastrutture; le politiche militari consolidano la frammentazione geografica
ed economica.
Una serie di barriere divide la Cisgiordania
in isole sconnesse controllate da circa 600 posti di blocco militari, cancelli
e altri ostacoli e strade costruite per i coloni israeliani. L'economia
palestinese è vincolata a quella israeliana tramite un'unione doganale che non
lascia spazio a politiche indipendenti - quella che i palestinesi hanno
descritto come un'economia prigioniera.
Inoltre, le autorità israeliane raccolgono le
entrate fiscali commerciali per conto dell'Autorità Palestinese (AP), che
dovrebbero essere trasferite, ma vengono trattenute regolarmente come mezzo per
esercitare pressioni. Quasi tutte le importazioni ed esportazioni palestinesi
transitano attraverso porti e valichi di Israele, in cui ritardi e misure di
sicurezza possono aumentare i costi.
Insieme alla perdita di terra e risorse
naturali a causa dell'espansione degli insediamenti in Cisgiordania, l'economia
della Striscia di Gaza è in uno stato catastrofico. Dopo 13 anni di assedio, oltre l'80% della popolazione è ora dipendente
dagli aiuti e i tassi di disoccupazione, soprattutto tra i giovani con
istruzione universitaria, sono alle stelle.
Le restrizioni israeliane, su quali articoli e
tecnologie possono entrare liberamente in Cisgiordania e nella Striscia di
Gaza, influenzano tutte le aree della vita palestinese, compreso il settore
sanitario. Molti esperti hanno analizzato l'impatto dannoso delle politiche
israeliane sulla capacità dei palestinesi di combattere la pandemia Covid-19,
comprese le disuguaglianze mostrate dal programma di vaccinazione israeliano.
La conclusione del position paper di B'Tselem
non è una novità per i palestinesi. È qualcosa che gli studiosi e gli attivisti
palestinesi e sudafricani dicono da decenni. L'importanza della pubblicazione
sta, tuttavia, nell'aprire il dibattito sulla realtà della situazione in
Israele / Palestina di fronte a una campagna di silenzio orchestrata, che tenta
di impedire il dibattito prima ancora che inizi. In questo senso, è rilevante
che un'organizzazione israeliana per i diritti umani abbia affermato ciò che i
palestinesi sostengono da anni.
Tuttavia, al di là del chiamare per nome il
problema, la questione più urgente è come rimediare a questa ingiustizia. Due
decenni dopo gli Accordi di Oslo e l'adesione a parole all'idea di una
soluzione a due Stati, la situazione per i palestinesi appare desolante.
Chiaramente, il piano Trump non aveva alcun riguardo per i palestinesi e mirava
a usare la pressione economica per forzare l'acquiescenza a un'autonomia
troncata. L'Unione Europea ha solo contribuito a mantenere lo status quo con il
suo silenzio o le sue critiche ambigue contro le violazioni dei diritti umani
da parte di Israele, mentre persegue generosi partenariati economici e di
"sicurezza".
Così, ispirata dal movimento sudafricano
contro l'apartheid e da decenni di attivismo di base palestinese, la società
civile palestinese ha chiesto la solidarietà internazionale sotto forma di
boicottaggi, disinvestimenti, sanzioni (BDS). La campagna BDS consente
a gruppi studenteschi, sindacati, organizzazioni culturali e religiose e
comunità locali di dimostrare un rifiuto popolare a partecipare e sostenere le
strutture di discriminazione e oppressione razziale. Il BDS sostiene il
semplice principio che i palestinesi hanno diritto agli stessi diritti del
resto dell'umanità.
Un regime di apartheid deve essere messo di
fronte alle sue responsabilità e noi palestinesi non possiamo permetterci
un'ulteriore impunità israeliana.
Rafeef Ziadah - La dott.ssa Rafeef Ziadah è
docente di politica comparata del Medio Oriente presso il SOAS
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