In seguito alla vittoria
di Joe Biden nelle ultime elezioni Usa, Patrick Cockburn, attraverso una testimonianza diretta da Afrin, mette nero su bianco quanto sta succedendo nel Nord
Siria occupato dalla Turchia e dai miliziani jihadisti. In un raro esempio di
accusa all’operato di Turchia e Usa in Siria, la speranza è che con il cambio
di amministrazione negli Stati Uniti ci sia anche la possibilità di un cambio
di linea nei confronti della Turchia. Traduzione Marco Sandi.
É senza dubbio il peggior crimine commesso da Donald Trump nei suoi anni di
presidenza alla Casa Bianca. Egli, nell’ottobre 2019, ordinò alle truppe Usa di
ritirarsi dalla Siria del Nord, di fatto dando il via libera all’invasione da
parte della Turchia di quel pezzo di Siria, e rendendosi co-responsabile
dell’assassinio, dello stupro e dell’espulsione di migliaia di curdi, che
abitavano quella regione.
E 18 mesi prima, Trump non aveva fatto nulla quando l’esercito turco occupò
l’enclave curda di Afrin e rimpiazzò la sua popolazione con jihadisti arabi
siriani.
É, sfortunatamente, improbabile che Trump subirà mai un processo per queste
sue decisioni, ma se mai dovesse farlo, la sua complicità nella pulizia etnica
dei curdi siriani dovrebbe essere la prima nella lista delle accuse. Quella
decisione fu di per se un atto diabolico ma fu anche un tradimento di un
alleato affidabile come le Forze Democratiche Siriane che stavano chiudendo il
cerchio contro il nemico comune Isis giusto quando venne invasa Afrin.
Il tradimento di Trump allora provocò troppo poca indignazione a livello
internazionale, ma certamente quel gesto fu causa diretta di omicidi,
rapimenti, sparizioni ed espulsioni di centinaia di migliaia di persone dalle
loro terre.
Tragedie di questa scala si offuscano rapidamente nella mente delle persone
perché non comprendono le atrocità che vanno al di fuori della propria
esperienza personale e che possono devastare la vita di così tanti individui. I
perpetratori di questa violenza estrema e i loro facilitatori, come Trump,
cercano da sempre di confondere le acque con negazioni improbabili finché le
notizie e i media non spostano l’attenzione su altro e rimangono solo le
vittime dei crimini a ricordarli.
Ho scritto molto sulla pulizia etnica subita dai curdi nel Nord-Est della
Siria ad opera dei turchi nelle due separate invasioni del 2018 e 2019, ma
senza risultati tangibili. Infatti ben presto divenne impossibile per i
reporter indipendenti visitare Afrin o le zone occupate intorno alle città di
Tal Abyad e Ras al-Ain. Ma finalmente, la settimana scorsa, sono riuscito a
contattare via internet una testimone ad Afrin la quale ci consegna una cupa,
ma allo stesso avvincente, testimonianza della sua personale esperienza di
pulizia etnica.
Il suo nome è Rohilat Hawar, ha 34 anni, è madre di 3 figli e lavorava come
insegnante di matematica nella città di Afrin prima dell’attacco turco. Provò a
fuggire nel febbraio 2018, perché “c’erano bombardamenti aerei turchi tutti i
giorni”, ma le fu rifiutato l’ingresso nei territori controllati dal governo
siriano che doveva attraversare per raggiungere le altre aree sotto il
controllo dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord.
Tornò quindi ad Afrin dove la sua casa era stata già saccheggiata e dove
ora si trovava intrappolata. Rohilat riporta che le bande degli jihadisti
sostenute dalla Turchia sparano a chiunque provi a lasciare la città: “Una mia
amica è stata uccisa insieme alla figlia di 10 anni mentre tentava la fuga”.
Allo stesso tempo, i miliziani rendono impossibile la vita ai curdi rimasti.
Essendo una dei pochi curdi rimasti nel suo vecchio quartiere dove quasi
tutte le abitazioni sono state occupate da jihadisti di lingua araba e dalle
loro famiglie, Rohilat non osa parlare curdo per strada. Ha scoperto che i
militari turchi considerano tutti i curdi dei “terroristi”, ma che i miliziani
jihadisti sono ancora più pericolosi perché pensano che i “curdi siano pagani
miscredenti che dovrebbero essere uccisi in nome di Dio”.
Rohilat non ha avuto altre alternative che indossare un hijab, indumento
che solitamente le donne curde non portano, per evitare le continue vessazioni
dei suoi vicini jihadisti arrivati da altre parti della Siria. Ha presentato
anche un ricorso alle autorità turche ma la risposta è stata, come è possibile
immaginare, di rispettare le norme sociali del quartiere e quindi di indossare
sempre l’hijab. “I miei figli all’inizio mi prendevano in giro, ma ora si sono
abituati.”
I pochi curdi che continuano a sopravvivere ad Afrin sono senza difese e
continuamente vessati dai miliziani. Di episodi in cui le donne curde vengono
molestate dai jihadisti armati se ne possono raccontare a centinaia.
Nelle due zone curde occupate nel nord della Siria la punta dell’iceberg
dell’occupazione è rappresentata da miliziani arabi, i quali sonore la maggior
parte jihadisti provenienti da altre parti della Siria. I curdi di Afrin erano
per la maggior parte contadini, coltivavano frutta e verdura ma, più di tutto,
coltivavano olive. Dalla testimonianza di Rohilat si evince che gli occupanti
tagliano sistematicamente gli ulivi per farne legna da ardere, distruggendo
così l’economia locale. Il risultato di questa pratica è che la maggior parte
dei beni deve essere importato e quindi venduto ad un prezzo maggiore.
Lasciando il controllo del territorio a maggioranza curda ai miliziani
jihadisti, il governo turco si assicura così la pulizia etnica della zona senza
però risultarne direttamente l’esecutore e, allo stesso tempo, il mandante.
Fino a poco tempo fa, i miliziani venivano pagati circo 100 dollari al mese
dalla Turchia per le loro attività, ma spesso essi integrano la loro paga con
furti e saccheggi nelle proprietà curde mentre l’esercito turco che dovrebbe
controllare il territorio spesso chiude un occhio.
Da agosto la paga dei miliziani è stata ridotta e le pattuglie di militari
turchi sono più attive nel controllo sui saccheggi e sui furti. Lo scopo di
tale livello di controllo dopo anni di occhi chiusi è quello di persuadere i
miliziani ad arruolarsi volontariamente per combattere come proxy in Libia
oppure contro gli armeni in Nagorno-Karabakh. E molti di essi sono stati uccisi
nei combattimenti. Rohilat ha visto con i suoi occhi numerosissime tende
tradizionali allestite per il lutto degli uomini caduti sui vari fronti,
nonostante i corpi non rientrino per il funerale.
A parte l’insicurezza cronica, Rohilat deve far fronte alla rapida
diffusione del coronavirus ad Afrin. Essa stessa ha contratto il virus,
essendo risultata positiva dopo un controllo in una struttura medica turca ma,
a causa dell’insicurezza, lei e molte altre persone si rifiutano di farsi
curare negli ospedali militari turchi dai quali pochissime persone ritornano
vive. Essi rimangono quindi in casa e si curano con paracetamolo e mangiando
lenticchie e zuppe di cipolla. Lei stessa non può permettersi l’acquisto di
mascherine e altro cibo al di fuori del pane, con i pochi soldi che i figli
riescono a racimolare al mercato oppure attraverso piccole somme di denaro
inviatele dai parenti in Turchia ogni tot di mesi.
Un cupo futuro pende sulla vita di Rohilat, la quale si considera una
sopravvissuta mentre altri curdi sono dovuti scappare, oppure vivono in campi
profughi, altri invece sono stati uccisi, alcuni tenuti come ostaggi per il
riscatto o alcuni sono semplicemente scomparsi.E la campagna del governo contro
i curdi siriani sembra proprio non trovare fine, al contrario il Presidente
turco Erdogan continua a minacciare di lanciare una nuova operazione militare
che potrebbe terminare con le definitiva pulizia etnica della popolazione
curda.
Forse l’unica buona notizia per queste popolazioni può essere la vittoria
nelle elezioni Usa di Joe Biden che, in linea teorica, riduce sensibilmente le
possibilità di un lasciapassare americano per una nuova operazione turca nel
Nord Siria. Quando Trump e la sua velenosa squadra avranno lasciato il potere,
sarà doveroso ricordare e non perdonare i responsabili di quelle politiche che
in Siria hanno inflitto un’inestimabile miseria su un numero altissimo di
persone che prima vivevano delle vite serene.
*Patrick Cockburn è un opinionista del quotidiano inglese The Independent.
Esperto di Siria, Iraq e Medio Oriente ha per anni scritto reportage sulla
situazione siriana, avendo coperto anche l’ascesa di Isis nel 2014. Insieme al
compianto Robert Fisk formavano una coppia di penne di eccellenza nell’analisi
politica e sociale delle difficili dinamiche medio-orientali.
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