La chiusura dell’account di Donald Trump su Twitter è
stata presentata come una misura estrema per mettere in condizioni di non
nuocere un uomo potente che istigava all’odio da una vetrina con 80 milioni di
“seguaci”, ma dietro la facciata di un provvedimento etico si nascondono le
stesse politiche aziendali che hanno permesso a quella persona di seminare odio
per anni senza conseguenze di rilievo mentre la piattaforma monetizzava
quell’odio, le interazioni che ne sono derivate e perfino le reazioni di chi
credeva di ostacolare il discorso d’odio mentre in realtà stava facendo gli interessi
di una piattaforma che monetizza l’indignazione antifascista quanto la
propaganda suprematista.
Lo scenario culturale in cui siamo chiamati a
misurarci con lo strapotere di piattaforme che raccolgono miliardi di utenti, e
hanno bilanci annuali comparabili con la manovra finanziaria di uno Stato
europeo di media grandezza, è reso ancora più devastato dalla profonda
ignoranza tecnopolitica di una sedicente sinistra che ha sempre demonizzato le
tecnologie, descrivendo il “calcolatore elettronico” come uno strumento del
capitale, il “tubo catodico” come la greppia del popolo bue e ora usa i social
network come tazebao cinese dove mettere in vetrina la propria propaganda e
costruire consenso, senza cercare interazioni, creare comunità o costruire relazioni
che sono alla base di qualunque iniziativa politica.
Il problema rappresentato dalle piattaforme aziendali
a cui abbiamo concesso di accumulare la più grande concentrazione di potere
tecnocratico, economico, finanziario, culturale, simbolico, mediatico e
politico è un problema ancora irrisolto per la scarsa consapevolezza
dell’entità e dei danni causati da questo potere, ma già affrontato sul
versante informatico con la produzione di tecnologie libere, funzionalmente
equivalenti a quelle messe in campo dai grandi colossi dei social (come si può
sperimentare su sociale.network, mastodon.uno o mastodon.bida.im)
ma depurate dagli strumenti di controllo che nel “retrobottega” di Facebook,
Twitter e Instagram filtrano i contenuti mostrati agli utenti per ottimizzare
le interazioni, vendere a caro prezzo annunci pubblicitari, fornire al miglior
offerente profilazioni massicce di milioni di individui, come quelle che hanno
consentito di spostare quel due per cento di consensi dell’elettorato
britannico sufficiente per portare a termine quella colossale operazione di
manipolazione tecnologica della democrazia passata alla storia col nome di
Brexit, finanziata con massicci investimenti pubblicitari raccolti dagli stessi
social che ora si presentano come argine tecnocratico al nazionalismo.
Sul fronte della messaggeria individuale, la comodità
di Whatsapp ha spinto molti a minimizzare il problema introdotto cambiando le
regole di utilizzo del servizio, con nuove condizioni d’uso che consentiranno
la raccolta delle nostre attività, non delle nostre conversazioni criptate, ma
delle nostre interazioni al di fuori di queste conversazioni, per indovinare i
nostri orientamenti di elettori e consumatori in base alla gente che
frequentiamo, ai luoghi in cui ci muoviamo, ai numeri che chiamiamo in voce o
in video, e ad altre informazioni “di contorno”, che però diventano il piatto
forte quando questi dati sono incrociati con la nostra attività su Facebook e
Instagram. Per l’ignoranza di chi non vede un pericolo o la pigrizia di chi non
vuole rinunciare a una comodità, in Italia si sono affrettati in tanti a dire
che le nuove condizioni d’uso di WhatsApp non sono un problema perché non
riguardano chi è protetto dalla GDPR, la normativa europea a tutela della
privacy. Ma il fatto che non ci siano pericoli diretti per chi è protetto
dall’Europa non consente di dire che è tutto a posto, e ci obbliga a ragionare
sui pericoli per gli altri, sui mille modi in cui quei problemi possono
rimbalzare su di noi, e sulle alternative che ci consentono di affrancarci
dalla condizione di complici di un potere che non ha mai avuto uguali nella
storia. Anche se lo scudo del GDPR ci consente di escludere pericoli immediati
per la schedatura di massa che verrà fatta altrove aggregando i dati di Whatsapp,
Facebook e Instagram, non sarebbe la prima volta che Facebook usa illegalmente
i dati che ha in mano, per metterli a disposizione del miglior offerente (come
nel caso della Brexit con lo scandalo Cambridge Analytica), e non possiamo
chiudere gli occhi di fronte a rischi indiretti ma comunque seri, perché in una
società interconnessa anche il populismo fatto con la profilazione di utenti
extra-UE ha conseguenze sulla vita di chi vive in Europa.
I pericoli dell’impatto sulle nostre vite esercitato
dall’azienda chiamata Facebook (che noi possiamo permetterci di minimizzare
perché abbiamo il passaporto “giusto”) sono pericoli diretti, immediati e
sicuri per chi vive fuori dall’UE, e avrà le sue attività tracciate da Facebook
come condizione obbligatoria per usare Whatsapp, col risultato di trovarsi uno
con le corna in testa nel Parlamento del suo Paese, mentre attorno a lui c’è
gente che si fa male o ci lascia le penne, e i populisti europei si
approfittano del caos generato al di là dell’Atlantico per alzare la testa,
solo perché qualcuno ha deciso di usare quei dati di profilazione della vita
digitale per capire chi sono quelli più disposti a credere alle bufale
suprematiste, proprio come fu fatto a suo tempo per cercare sui social i
bersagli delle scemenze del nazionalismo britannico.
Come alternativa allo strapotere di chi ha trasformato
in merce gli utenti di servizi gratuiti solo in apparenza, e che paghiamo a
caro prezzo nella società, le associazioni PeaceLink.it e Altrinformazione.net
hanno realizzato con software libero, gratuito e trasparente la
piattaforma www.sociale.network,
un ambiente di confronto per pacifisti, anarcolibertari, ecologisti,
antimilitaristi, anticlericalisti, antirazzisti, antifascisti e altri “orfani
politici” di una sinistra progressista scomparsa dalle istituzioni, che
nonostante tutto non rinunciano a sognare un mondo più pulito, solidale e
libero. Su sociale.network il discorso d’odio è bandito, la
pubblicità pure. Niente contenuti a pagamento, niente controllo da parte di
qualche azienda privata, design etico e decentralizzazione! Su questo sito,
grazie al software libero Mastodon, i proprietari dei tuoi dati sono gli
utenti, che possono muoversi in un “fediverso” di comunità virtuali federate,
dove al momento si contano 5000 piattaforme social e quattro milioni di utenti
sparsi in tutto mondo. La forza di questo progetto, basato su una “lingua
franca” di comunicazione tra piattaforme (il protocollo di comunicazione
Activitypub) sta proprio nella distribuzione e decentralizzazione degli utenti,
che rimpiazza i blocchi monolotici dei social network commerciali e generalisti
con una fitta rete di comunità tematiche dove si promuove la biodiversità
culturale e non l’accentramento tecnologico, e si incontrano più facilmente i
propri simili per produrre cambiamento a beneficio di tutti, invece di
scontrarci tra opposti per produrre polemiche a beneficio di chi le monetizza.
Per dialogare con gente che condivide l’ABC della
cultura democratica, civile e antifascista, i princìpi della Costituzione
italiana e quelli della dichiarazione universale dei Diritti Umani, c’è gente
che si incontra per ragionare dalla D in poi in un ambiente senza manipolazioni
occulte, senza azionisti, investitori o gruppi di proprietari a cui dover
riferire, liberi di poter gestire in autonomia la convivenza civile nei nuovi
spazi di socialità elettronica che hanno alleviato l’isolamento fisico a cui ci
ha costretto la pandemia. Sociale.network non è un social
commerciale, non ha alcun scopo di lucro, nessuno ti spia, nessuno analizza
cosa stai facendo, nessuna fastidiosa registrazione, niente dati personali,
niente costi premium, nessuna notifica fastidiosa, niente spam invasivo e
niente banner pubblicitari. In questa piccola iniziativa associativa, innestata
in un “fediverso” esteso su scala globale, c’è chi prova a costruire
l’alternativa al potere aziendale che controlla le nostre vite elettroniche e
ha mutilato l’internazionalismo politico europeo.
Non crediamo in chi vorrebbe democratizzare i social
network delle multinazionali più ricche del mondo pensando di poter imporre
regole dall’alto, inutili quanto quelle che hanno provato a “democratizzare” la
televisione padronale. E non ci crediamo perché siamo consapevoli che l’unica
alternativa a una trasmissione centralizzata dall’alto è una comunicazione
decentrata dal basso. Socialità che si organizza in rete, per ribellarci alle
“reti sociali”.
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