Sui
cappellini rossi e sulle t-shirts avevano scritto di voler “FARE L’AMERICA DI
NUOVO GRANDE”. L’hanno ridotta al livello di una “Repubblica delle banane”. In
un pomeriggio di follia i “rioters di Donald Trump” hanno mostrato
agli occhi del mondo intero lo stato comatoso della democrazia americana.
Joe Biden,
in un discorso retorico e piuttosto vuoto, messo insieme frettolosamente sotto
l’incalzare degli eventi, ha definito quanto accaduto “un assalto allo Stato di
diritto come poche volte l’abbiamo visto” e l’invasione del Capitol una
profanazione del “tempio della libertà”, dimenticando di dire che, come non
smettono di ricordare quelli di Black Life Matter, è difficile
parlare di uno stato di diritto negli USA, e quanto al Parlamento, tutto ciò
che è stato perpetrato e consentito in questi quattro anni dai senatori e
deputati trumpiani ne aveva già ampiamente disperso ogni residuo di sacralità.
Soprattutto sorvolando sul fatto che se i colpevoli di quello scempio – a
cominciare dal colpevole in capo: il Presidente ancora sciaguratamente in
carica – non fossero stati immediatamente sanzionati, il concetto stesso di
Diritto e di Giustizia sarebbe stato snaturato. E infatti sono numerosi i
commentatori, americani in primo luogo, che lungi dal considerare l’accaduto un
accidente e dal metterlo tra parentesi (uno “storm” invernale o una
crisi di nervi da dimenticare in fretta), si chiedono, angosciati, se quello
che esso significa, per il passato che rivela e per il futuro che rischia di
annunciare, sia davvero “The Fall of Donald J. Trump” o non piuttosto “The
End of America“…
Prima però
di ragionare di Storia e di cicli storici, è opportuno occuparci, sia pur
brevemente, di antropologia e di sociologia, di assetti sociali e di derive
mentali… E chiederci chi erano i protagonisti di quella violazione del tempio.
Da quale mondo sociale venissero fuori, di quale apocalisse culturale e
scardinamento comportamentale fossero l’espressione e il prodotto. C’erano,
certo, i “famigerati nazionalisti bianchi” delle varie milizie di estrema
destra, con le loro tute tattiche da paramilitari e qualche arma ostentata,
quelli di “Stop the steal” (fermiamo il furto), un paio di migliaia
dei Proud Boys e altrettanti di Red States
Secession (li si riconoscono a colpo d’occhio nelle fotografie e nei
filmati che ingolfano la rete, perché sono quelli che erano venuti lì come si
va alla guerra, attrezzati per l’uso della violenza). Ma c’era soprattutto
intorno (o dietro) a loro una marea (un “mob”, una “folla arrabbiata”)
di decine di migliaia di persone anonime, calate sulla odiata Washington con
ogni mezzo, da un’America profonda e disgregata, con l’intenzione di essere per
una volta al centro della scena. Alcuni hanno dichiarato ai giornalisti del “New York Times” di non aver mai visto prima
Washington. Altri rivendicavano un’usurpazione subita (“Volevamo dimostrare a
questi politici che siamo noi a comandare, non loro”, ha detto un operaio edile
quarantenne di Indianapolis). Quasi tutti esprimevano “la sensazione che
sarebbe successo qualcosa di più grande di loro” senza saper bene dire cosa.
Molti si erano formati sulle fakes di QAnon e dei tanti siti
complottisti, altri credevano sinceramente di essere dei “patrioti” come li
aveva nominati sul campo il Capo. Se si scorre la lista dei 69 arrestati nel
corso degli scontri, si scopre che nessuno di loro proveniva dalla Capitale,
una buona percentuale arrivava dalla Pennsylvania, altri dal Maryland, dal Nord
Carolina e dal Michigan (cioè dagli stati “in bilico” della rust belt),
e poi Oregon, Virginia, Arizona, Florida, New York, un po’ tutto il
Paese… E quanto alle professioni, c’erano camionisti (“asfalt truck
drivers”), lavoratori edili, impiegati, ex militari, un certo numero di
insegnanti, alcuni specialisti dell’arte di arrangiarsi, qualche piccolo o
piccolissimo imprenditore, artigiani, forse qualche farmer. Non
mancava qualche membro dell’upper class: un deputato del West Virginia,
antiabortista sfegatato (Derrick Evans); il figlio di un giudice della Corte
Suprema di Brooklyn molto attivo nel gruppo sionista Giovane Israele (Aaron Mostofsky), a cui evidentemente non faceva
problema il trovarsi fianco a fianco con chi ostentava magliette con scritte
negazioniste o apologetiche dell’Olocausto; una “real estate broker”
texana (Jenna Ryan) arrivata a Washington su un jet privato per “storm the
Capitol” (“Newsweek”)…
Ma la grande maggioranza aveva i tratti inequivocabili della plebe.
Mi sono
studiato a lungo le immagini dell’invasione. Gli abiti, le facce (guardateli
anche voi, nella fotografia qui sopra, e in quelle che seguono)… Tranne la
“minoranza attrezzata”, non sembravano i truci “manipoli” evocati nel ’22 da
Mussolini dopo la marcia su Roma. Il grosso stava piuttosto a metà tra una
aggressiva sfilata carnevalesca e una rabbiosa gita sociale. Molti tra quelli
che erano riusciti a penetrare nello “spazio sacro” del Parlamento, si
aggiravano tra i suoi lussuosi arredi incerti tra il senso di stupefatta
meraviglia e il gusto della volgare profanazione. Nella grande Rotunda sotto la
cupola alcuni esibivano minacciose spranghe mentre altri, più numerosi, si
scattavano selfies come turisti giapponesi. Nella Cripta un giovane si faceva
una canna… Alcuni sembravano usciti dai fotogrammi di Elegia Americana,
il film appena lanciato su Netflix che porta sullo schermo quel grande libro
sull’America profonda che è Hillbilli Elegy, il popolo degli
Appalachi, irsuto e selvaggio (barbacce rossastre e capelli incolti), con un
passato d’orgoglio, un presente di degrado e un futuro cieco. Altri avevano le
stigmate di ogni periferia, l’aggressività ostentata di chi sa di essere al
margine e il senso di onnipotenza che travolge i perdenti quando si trovano di
colpo nel posto dei vincenti, e stanno lì, increduli di occupare le stanze
lussuose dell’odiata élite, per pochi minuti, nel flash di una giornata
“d’eccezione”. Uno si vantava con un amico, di aver cacato nel cesso di un
senatore democratico e di non aver tirato l’acqua. Un altro di aver sottratto
dalla scrivania di Nancy Pelosi una carta autografata (“Le ho scritto un
brutto biglietto, ho messo i piedi sulla sua scrivania e mi sono grattato le
palle”, dichiarerà all’uscita). Un altro ancora (si saprà essere un piccolo
mobiliere di una piccola contea della Florida) attraversava saltellando la
Rotunda con tra le braccia il leggio in legno pregiato della speacker della
Camera, sogghignando e guardando dritto nell’obiettivo della macchina che
rendendone virale l’immagine lo consegnerà in tempo reale ai detective dell’FBI
che l’avrebbero arrestato nella notte.
Su tutto un
senso d’irreale calma, come fossero ospiti graditi. E in effetti erano lì per
invito esplicito di quello che consideravano il vero padrone di casa: il
Presidente. Il responsabile primo, e inescusabile, di quel “vortice di caos”.
Quello che giocando sui sentimenti dei propri fedeli ne ha determinato il
catastrofico comportamento (per il Paese, ma anche per loro stessi), e che per
questo meriterebbe la più severa punizione. Anche per il fatto che quanto
accaduto è di una gravità inaudita che, se impunita, potrebbe ingenerare la
sensazione di una qualche legittimazione, in un’America che sotto la superficie
è un calderone socialmente in ebollizione.
Qui in Italia,
l’ex ministro Fabrizio Barca ha avuto il
coraggio di osservare che “gli scontri di Washington sono figli delle
diseguaglianze sociali”. Aggiungendo che quegli eventi sono “un segnale per
tutte le democrazie” in quanto mostrano “a quale risentimento arriva un popolo
colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un’alternativa”.
Apriti cielo: si è beccato un’ondata di improperi da chi, soprattutto a sinistra
(si fa per dire), lo ha accusato di chiamare popolo un gruppetto di “golpisti e
terroristi”, liquidando il tutto come un esempio di fascismo. “Questo qui qualcuno lo
voleva leader del centrosinistra” ha ironizzato il renziano Luigi Marattin
dall’alto della sua lunga memoria (a proposito di memoria, Marattin è quello
che nel 2012, per difendere Renzi, invitò Nichi Vendola a “elargire
prosaicamente il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata”). E
Andrea Romano, forte del suo giro del mondo di quasi tutti i partiti esistenti
ed esistiti, ha affondato il colpo: “Chiamare ‘popolo’ un manipolo di
golpisti violenti è davvero un grave infortunio”. E invece Barca ha ragione, e i
suoi critici rivelano una preoccupante superficialità nel non comprendere che i
fatti dell’epifania americana aprono una finestra su una realtà che non ci
piace, ma che è vera. E questa realtà consiste nel fatto che la società
americana – ma anche la nostra società, potremmo dire la “società occidentale”
– presenta oggi ampie porzioni di tessuto logorato, potremmo dire necrotizzato,
che vanno ben al di là delle migliaia di rioters di Capitol
Hill.
In questo
senso quel 6 gennaio di follia ha messo in scena, in un frammento del
caleidoscopio, come in provetta, il punto di caduta di una più generale, molto
più ampia, parabola discendente, non di tutto un popolo, certo, ma di una parte
consistente di quello che un tempo era “il popolo”. Parabola iniziata oltre un
trentennio fa, con quello che la sociologia chiamò allora il grande –
periodizzante – “processo di de-industrializzazione”: decentramento
produttivo, delocalizzazione, down-sizing e out-soucing,
automatizzazione e soprattutto smaterializzazione dei processi produttivi e dei
prodotti sull’onda di un salto tecnologico senza precedenti, dalla meccanica
all’elettronica, dagli atomi ai bit, dagli uomini del cemento e dell’acciaio a
quelli dei bond e dei sub-prime, dal Lavoro al Denaro. Forse, anche – e più
nobilmente – da Detroit alla Silicon Valley. E dalle miniere del Kentuky alle
torri di Wall Street. E’ stato lì che l’”american elegy” si è
trasformata in una potenziale “american tragedy”. Che milioni di
persone, un tempo al centro del sistema produttivo e di quello politico, si
sono trasformati in “spostati”, quasi a loro insaputa. Erano l’anima di una
democrazia – quella del Novecento centrale – fatta di rappresentanza sociale,
di (moderato) conflitto e di istituzionalizzata contrattazione, entrambi
fondati sulla credenza (e certezza), da parte di un mondo del lavoro solido e
stabile, del proprio ruolo “centrale”. Si sono trasformati in anime morte,
cacciati nei piani bassi della compagine sociale, distanti anni luce dai
semidei che abitano le vette dei Consigli d’Amministrazione di banche e società
finanziarie e da quelli che galleggiano sulla nuvola incorporea del capitalismo
delle piattaforme. Row material, materia grezza per i neo-populismi
che sulla disgregazione del popolo costituiscono la propria fortuna.
Per questo
credo che si possa dire, senza paura di andar troppo lontano dal vero, che in
quel mob barbarico a Capitol Hill è finito anche un pezzo di quello che un
tempo era stato il mondo del lavoro e persino il mitico ceto medio del Paese
che per primo aveva avviato la propria metamorfosi dal modello industriale a un
post globalizzato e finanziarizzato. C’erano quelli (e sono tanti) che in quel
salto erano rimasti indietro – i “perdenti” possiamo chiamarli -, impoveriti e
deprivati anche di una parte del vecchio lume della ragione. Galassia informe,
che di sicuro non si può più chiamare popolo (qualcuno arrischia il termine
“plebe”), ma che di quell’antica entità reca ancora le tracce quantomeno
linguistiche. E che costituisce un novum nel nostro universo
di senso, informe ma dotato di una sulfurea energia se è vero che è il
principale artefice della travolgente ascesa dei populismi di ultima
generazione. Tanto “nuovo” che gli osservatori più culturalmente attrezzati,
lungi dallo sparare etichette obsolete, stentano a dare un nome a quanto
avvenuto nel giorno dell’epifania trumpiana: non “insurrezione”, troppo
nobilitante e implicato nella storia della sinistra. Ma nemmeno “riot”,
troppo riduttivo, quasi fenomeno da banlieu. E neppure “colpo di
stato” o “golpe” (manca la componente militare in posizione monopolistica, e
poi, come è stato detto, ha il vizio di “lasciare troppa gente fuori dai
guai”)… In un intelligente articolo sul “New Yorker” (What should
we call the 6th of January?) Jill Lepore usa il gioco di parole
tra “coup” (cioè golpe) e “coop” (cioè stia, sostegno per pennuti)
per suggerire che più che a un tentativo credibile di colpo di stato il 6 di
gennaio assomiglia a un fenomeno da pollaio (“In verità, il linguaggio della
stia – scrive – sembra più appropriato del linguaggio del golpe. Voglio dire
polli. Coming home to roost” – espressione figurata che
letteralmente significa “rientrare nel pollaio” ma che sta per “ritorcersi
contro”). E infatti definisce l’accaduto come “un atto di vandalismo di massa
misero, buffonesco, idiota e senza scopo”, senza tuttavia nascondersene – con
una sorta di ossimoro concettuale – l’estrema pericolosità di un fenomeno
insieme clownesco e minaccioso.
Una modalità
interpretativa, questa, simile a quella di Massimo Jaus che sulle pagine
de “La voce di New York” descrive i protagonisti del 6
gennaio come “una fauna umana bizzarra, un po’ Hell’s Angel, un po’ KKK, un po’
comuni californiane Anni 70 tipo Charlie Manson, un po’ sciroccati dai
videogiochi a caccia dei 15 minuti di celebrità”, ammonendo tuttavia nel
contempo – a differenza degli ottusi politicanti nostrani – che non c’è per
questo, motivo di restare tranquilli, né tantomeno per liquidarli con qualche
etichetta stantia, perché “dei più di 70 milioni di voti che [Donald Trump] ha
ricevuto almeno la metà sono con lui”, cioè ne approvano anche gli ultimi
dissennati atti, gli appelli demenziali, la chiamata all’azione “selvaggia” (il
suo incendiario “Be there, will be wild”) e il suo appello a
“riprendersi l’America” con la forza dal momento che non potranno mai farlo
“con la debolezza”. Altri valutano nell’ordine dei 20 milioni l’esercito dei
repubblicani “radicalizzati”, disposti cioè a seguire Trump fino alla fine
(“radicalizzati”, come si dice anche nel caso degli jiadisti islamici, nel
corso di almeno un decennio di preparazione all’estremo, soprattutto in rete,
di diffidenza sistematica nei confronti di tutto ciò che sappia di establishment,
di metamorfosi della frustrazione in odio e risentimento).
D’altra
parte non bisogna dimenticare (e nell’ebbrezza della vittoria di Biden troppi
l’hanno fatto) che il “selvaggio” Trump, il 3 novembre 2020, ha ottenuto
74.216.722 voti (oltre 11 milioni in più di quattro anni prima quando –
vincendo – aveva preso 62.984.828 voti), in un’America che per quattro anni
aveva potuto vedere, giorno per giorno, e leggere su Twitter, e
constatare in rete, le follie, la rozzezza, l’arrogante malafede, la carica
d’intolleranza autoritaria, il disprezzo della salute propria e dei propri
cittadini con le boutades sull’immunità di gregge e
l’ostentata ostilità all’uso di mascherine e distanziamento. Tutto il
repertorio colorito di quello che il mondo intero ha considerato il peggior
presidente americano, e che ha trovato la propria finale verità (la sua
epifania, nel senso letterale del termine), nel delirio sull’ Ellipse a metà
strada tra la White House e Capitol Hill. E’ una metà del Paese che in buona
misura ha rotto con l’altro “emisfero” – an other country, si
potrebbe dire -, che difficilmente, molto difficilmente, le ”buone maniere” di
Biden, le sue cautele terribilmente “politically correct” nello sforzo
di “ricucire” e pacificare, potranno ricondurre all’ovile di una normale vita
democratica. L’America, piaccia o non piaccia, è in declino. Piena di sacche di
degrado e povertà, con i margini in accelerata crescita ma una pancia che
rallenta e cade, con una miriade di cittadini in crisi d’identità, orfani
dell’antico prestigio (personale e nazionale) e incapaci di vedere un nuovo
ruolo. Non basteranno i pannicelli caldi di un Presidente venuto dall’apparato,
a offrire l’immagine di un nuovo inizio.
Per questa ragione forse davvero la domanda (in parte retorica) se in questo primo scorcio di 2021 non si sia assistito, in diretta, alla fine della “democrazia americana” è drammaticamente fondata. O forse non solo di quella americana, ma – data la ferale capacità degli eventi shoccanti di viralizzarsi – della democrazia occidentale così come finora l’abbiamo vissuta. Quando, nel passaggio agli anni ’80 del secolo scorso, si avviò la cosiddetta “terza rivoluzione industriale” (che bisognerebbe invece chiamare post-industriale) in molti festeggiarono, pensando a un “trionfo dell’Occidente” (non aveva coinciso forse con la caduta del tanto temuto Impero dell’Est?). Temo che oggi dovremo rivedere quel giudizio e cogliere forse, in quel passaggio, non un balzo in avanti verso un suo più luminoso sviluppo ma al contrario l’inizio del suo declino.
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