E’ una vera peste lo stillicidio di vite e di diritti umani che va avanti da tre quarti di secolo e non trova chi, potendo, voglia fermarla. Il vaccino ci sarebbe ma non viene usato.
I pochissimi
operatori della comunicazione che ancora danno notizie dalla Palestina
informano di giorno in giorno di un bambino arrestato, di un ragazzo
ferito, di un anziano malmenato, di una casa distrutta, o due o tre o tante ma
non fa differenza; di persone, soprattutto giovani, arrestate senza accuse
reali, esattamente come durante il fascismo si arrestava chi fosse
semplicemente fastidioso al regime; o di palestinesi assassinati, di terre
illegalmente confiscate, di violenze da parte di coloni ebrei cui Israele ha
conferito la cittadinanza definendoli israeliani, anche se non vivono in
Israele e, periodicamente, di bombardamenti sulla Striscia di Gaza; di
pescatori fucilati e barche confiscate dalle motovedette israeliane che
assediano i palestinesi dal mare.
Ma lo
sappiamo solo da pochissimi organi d’informazione libera, mentre niente di
tutto questo fa notizia sui media mainstream. E’ routine.
Venir a
sapere che un sedicenne che si opponeva alla confisca del suo preziosissimo
gruppo elettrogeno è in fin di vita grazie al grilletto facile di una soldata
dello Stato ebraico, è possibile solo perché ce lo dice un’agenzia di stampa
sul vicino oriente che non soggiace al diktat del silenzio.
La notizia
si diffonde grazie a un quotidiano libero ma di “nicchia” e ai tanto vituperati
social web che la rilanciano. E’ l’aspetto positivo, in mezzo ai tanti
negativi, dei social: riescono a incrinare il muro del silenzio o
dell’informazione addomesticata rappresentato dai principali organi
d’informazione di massa.
Con lo
stesso mezzo si è diffusa la notizia di uno dei tanti arresti arbitrari di un
giovane abitante di At Twani, villaggio a sud di Hebron. Uso il nome ebreo
perché è il più conosciuto, ma in realtà Hebron, città palestinese a sud della
Cisgiordania si chiama Al Khalil. Il nome, in entrambe le lingue ha lo stesso
significato e si riferisce ad Abramo, “l’amato, il caro” a Dio.
Voglio
soffermarmi su questa notizia, pur sapendo che le altre non sono meno gravi,
non solo perché conosco il ragazzo arrestato e la sua famiglia, ma perché
conosco abbastanza la situazione del villaggio di At Twani e dell’area in cui
si trova.
Quel che
accade in quelle colline è stato più volte raccontato da vari attivisti, ma chi
non c’è stato di persona, magari fermandocisi anche solo per un paio di giorni,
difficilmente può immaginare quel che succede quotidianamente in quell’area. E
quel che succede è una delle più eclatanti dimostrazioni dell’illegalità israeliana
rappresentata dai più “fascisti” (mi si passi il termine nel suo senso lato)
tra i coloni fuorilegge che Israele usa per facilitare l’annessione di vaste
aree della Cisgiordania.
Sami
Hureini, il ragazzo arrestato, è il figlio di Hafez Hureini, il rappresentante
della resistenza nonviolenta di At Twani. Lì opera anche, da molti anni, una
missione di “Operazione Colomba”, ragazzi e ragazze internazionali
straordinariamente preparati a tutto, sia dal punto di vista psicologico che
dal punto di vista culturale, pratico ed operativo. Gli operatori internazionali
di Operazione Colomba hanno sostanzialmente il compito di frapporsi alle
violenze dei coloni cercando di ridurle monitorando la situazione, denunciando
i reati, facendo relazioni che poi vengono pubblicate e praticando
l’interposizione fisica.
Raccontare
che i bambini dei piccoli villaggi della zona, per arrivare a scuola indenni,
devono essere scortati per proteggersi dalle sassate, dalle frustane e dai
calci e pugni dei coloni sembra impossibile a chi conosce solo la vulgata
filo-israeliana passata dalla TV e dai tanti giornalisti adoratori di Israele,
o compiacenti o, nei casi migliori, tolleranti dei suoi tanti crimini.
Raccontare
dei pastori che vengono bastonati e delle loro capre fatte fuggire o ammazzate,
non da quattro bulli ma da qualche centinaio di teppisti protetti dalla kippà,
sembra altrettanto incredibile a chi è all’oscuro di queste crudeltà
finalizzate a rendere impossibile la vita ai palestinesi e costringerli ad
abbandonare la loro terra. Sto parlando di azioni quotidiane in cui la
mortificazione, il furto, il danneggiamento, le percosse e le distruzioni
costanti impediscono una vita normale.
E’ la
pratica del democratico Stato di Israele.
Quindi,
conoscere quel che avviene quotidianamente da quelle parti, e il tipo di
risposta data dalla resistenza non violenta (nonostante la violenza
quotidianamente subita) può aiutare a capire meglio cosa significa l’arresto di
Sami Hureini e perché è necessario avere il coraggio di affermare che Israele è
uno Stato canaglia che va condotto, per la sua stessa sicurezza, nell’alveo
della legalità internazionale.
Cominciano a
capirlo anche un numero crescente, sebbene ancora insufficientemente, di
giovani ragazze e ragazzi israeliani che rifiutano il servizio militare. La
loro non è un’obiezione silente ma un rifiuto con dichiarazione esplicita di
non voler servire l’occupazione e quindi di non farsi oppressori
diretti del popolo palestinese. E’ un ottimo segno, ma intanto
l’esercito che si riconosce nella politica israeliana prosegue nelle sue
azioni, tra cui l’arresto notturno – perché c’è anche una “coreografia” degli
arresti e la notte significa maggior terrore per tutta la famiglia
– di Sami Hureini, il ventitreenne studente-pastore, reo di aver organizzato
una protesta nonviolenta in risposta al ferimento di Harun, il sedicenne che
cercava di impedire la confisca del gruppo elettrogeno della sua famiglia e che
ora è in fin di vita perché la soldata israeliana gli ha sparato al collo.
Un gruppo
elettrogeno, per una famiglia che non potendo avere né una tenda né una casa
perché Israele lo impedisce, e che quindi vive in una caverna sotterranea,
significa avere l’elettricità per non morire di freddo ma questo, ovviamente,
chi non conosce la situazione non può saperlo.
I soldati lo
avevano avvertito che quella manifestazione l’avrebbe pagata, ma Sami ha in
casa la foto gigante di sua nonna che si difende da un militare armato fino ai
denti agitando minacciosamente una scarpa; ha nel suo villaggio natale
esempi di “sumud” – termine difficilmente traducibile che significa insieme
resistenza, risolutezza, attaccamento incrollabile a un’idea; inoltre è
cofondatore dell’associazione Youth of Sumud e, infine, è il figlio di Hafez,
il leader riconosciuto del comitato di resistenza popolare dell’area a sud di
Hebron e quindi la minaccia dell’arresto non l’avrebbe certo fatto desistere,
tanto più che non sarebbe stata la prima esperienza visto che già tre anni fa
ha conosciuto il carcere israeliano.
Due notti fa
un buon numero di mezzi militari ha invaso At Twani e Sami è stato arrestato.
Colpevole di cosa? Di opporsi con pratiche nonviolente alla violenza
dell’occupazione.
Non è un
reato, è vero, ma non lo è dove vige lo stato di diritto e non sotto il tallone
dell’occupazione militare di uno Stato canaglia che viene tuttavia definito
democratico.
Sì, la vita
nei territori palestinesi occupati non è facile, ma in alcune aree è
particolarmente difficile ed è qui che si registra quella forma di particolare
tenacia resiliente al punto che il gruppo di Youth of Sumud, insieme ad altre
organizzazioni, compreso il Center for Jewish nonviolence, è riuscito a
riappropriarsi di Sarura, uno dei villaggi evacuati arbitrariamente
dall’occupante ed a ricreare uno spazio, definito Campo della Libertà,
costruendo abitazioni scavate nella roccia.
Un villaggio
sotterraneo dove vige il principio della nonviolenza e dove cresce il sogno di
un futuro basato sulla libertà e la giustizia come elementi fondanti di una giusta
pace.
Ma Israele è
un po’ disturbato da questa creatività resistente e i coloni che circondano la
zona, sapendo di fare cosa gradita al loro Paese di riferimento, organizzano
spesso spedizioni violente con l’illusione di vincere con la forza la “sumud”
palestinese.
Finora non
ce l’hanno fatta e i palestinesi sono certi che non ce la faranno mai.
Sami avrà il
processo tra pochi giorni, così è stato detto da Israele e, comunque vada, sarà
un processo farsa perché figlio di un arresto arbitrario.
Forse non ci
sarà un solo organo di informazione mainstream a darne notizia, ma il bello del
web sta proprio qua: le testate on line in prima battuta e i social come
rilancio, trasmetteranno ciò che altrimenti finirebbe inghiottito dal buio o
rientrerebbe nella fasulla narrazione filo-israeliana, fornendo un altro alibi
alle istituzioni nazionali e internazionali per non prendere sanzioni contro i
crimini israeliani. Cioè di non usare quel vaccino che potrebbe sconfiggere la
peste.
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