In questo momento, mi spaventa parlare e tanto più scrivere. Se dico che non voglio collaborare con i contagi e sto attenta a non andare in giro per non mettere a rischio gli altri ma anche me che sono vecchina e ho avuto varie polmoniti, mi abbaiano che però le persone devono lavorare, che chiudere i bar uccide chi ci lavora, che c’è chi vive di teatro, che i piccoli ristoranti … “Eh lo so”, rispondo timidamente a occhi bassi. Come se non lo sapessi … ma si sa che se dici una parola restano in disparte tutte le altre. Mi sento in colpa di essere delicatamente viva e di non uscire di scena per lasciare spazio a chi è forte e “il covid è solo un’influenza”.
Se dico che
la vita non può più essere ‘normale’ e che la rinuncia non è un danno
permanente e forse insegna anche qualcosa e fa salire tutto l’incompiuto che
stava assopito in noi, sbraitano che gli adolescenti non possono più toccarsi e
diventeranno tutti autistici. Se accenno genericamente ai bambini, inveiscono
che ci sarà una generazione di ignoranti. Spavento.
Eppure,
Marina Cvetaeva che ha vissuto sempre con la febbre a quaranta e a 200 all’ora,
in un’epoca feroce, scriveva che tutta la sua poesia nasceva dalla Rinuncia.
Con la erre maiuscola. Una forza vitale, sembrerebbe.
Va beh, sai cosa? Io sto zitta. Ma come sarà una scrittura zitta? E se scrivo dal mio minuscolo punto di vista, dal bosco e dalle foglie, mi sento di mettere in piazza, tra gli inferociti, la delicatezza di una vita che si preserva a stento.
Se parlo di
come la meditazione mi insegna a non dividere il bene dal male e ad accogliere
tutto così com’è con compassione e con il senso del non permanere delle
condizioni, mi ammoniscono che no, bisogna trovare sempre il positivo e il
significato profondo e agire. Oppure che un vero poeta ha solo la poesia e non
si mette a fare il salvatore. Veramente io mi sento un ciarlatano.
Ci sono
anche quelli che non dicono niente, ma spariscono, perché disapprovano, e non
si accorgono che le opinioni sono i travestimenti dei nostri attaccamenti,
giusti o sbagliati che siano, ma perché renderli delle prese di posizione
anziché dire: “Non posso farne a meno”?
Ho già
vissuto periodi in cui parlare era sempre un rischio, di colpo diventavi un
nemico per una parola scorretta, non eri dalla parte giusta.
E poi c’è stata anche l’infanzia, un padre che ti lasciava scegliere di bere il caffelatte da qualunque tazza, tranne la sua. Solo che la sua cambiava. Senza preavviso. Non sbagliare era un vero azzardo. E dopo erano guai.
Insomma, lo
smarrimento è sempre stata la mia Via, e finire dalla parte sbagliata anche. E
tacere pure. Un silenzio non quieto né sereno, ma la bocca cucita perché
qualsiasi cosa dici sbagli.
Il fatto è
che le cose sono complesse e se vedi un lato ne manchi un altro e non ho parole
rotonde.
Tutto
sommato, credo che ascolterò e basta, lascerò dire a ognuno la sua e intanto
respirerò. Certe volte, così facendo, qualcuno mi dice: “Grazie, mi fa bene
parlare con te.”
“A me invece
fa bene respirare,” penso io, un po’ malinconicamente.
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