Nel 2012, il governo della Grecia approvò una legge che imponeva uno scambio obbligatorio dei suoi titoli di debito con nuovi titoli, con una riduzione di valore superiore al 50%. Alcuni detentori di quei titoli – tre persone fisiche, due società, tutti tedeschi – ricorsero alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ritenendo che tale legge costituisse una violazione degli obblighi della Grecia e chiedendo un risarcimento di quattro milioni di euro.
Con sentenza del 23 maggio 2019[1], i giudici europei hanno respinto le
argomentazioni dei ricorrenti, non riconoscendo alcun risarcimento e
condannandoli alle spese processuali. I ricorrenti invocavano la
violazione dell’art. 26 della Convenzione di Vienna (Convenzione sul diritto
dei trattati – approvata il 23 maggio 1969) che, rifacendosi al principio “pacta
sunt servanda”, così recita: “Ogni trattato in vigore vincola le parti
e queste devono eseguirlo in buona fede”.
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha in primo luogo contestato il
ricorso alla Convenzione di Vienna, in quanto applicabile solo ai rapporti fra
gli Stati (art. 1) e non a quelli fra soggetti privati e uno Stato. Ma è
entrata anche nel merito, affermando come il principio di diritto “pacta
sunt servanda”, in base al quale uno Stato deve rispettare
gli obblighi che ha contratto, non è assoluto, bensì temperato da un altro
principio di diritto chiamato clausola “rebus sic stantibus” (“le
cose rimangono invariate”), con il quale si intende che le disposizioni del
trattato o del contratto continuano ad applicarsi fintanto che le circostanze
essenziali che hanno giustificato la conclusione di tali atti rimangono
invariate; ma che se le circostanze cambiano in modo significativo, una delle
parti potrebbe non adempiere ai termini del contratto.
Riconoscendo alla Grecia il mutamento significativo delle circostanze – la
gravissima crisi economica e sociale legata al debito pubblico – la Corte ne ha
affermato la legittimità nell’operare verso una drastica riduzione degli
interessi da riconoscere per i propri titoli di debito.
Scrive infatti la Corte al punto al paragrafo 84 della sentenza: “Gli
investimenti in titoli di debito sovrano, fatti dai ricorrenti, non erano
esenti dal rischio di perdita finanziaria (..) tale rischio è dovuto, in
particolare, al lungo periodo di tempo che intercorre dall’emissione dei titoli
di debito, durante il quale sussiste il rischio di eventi imprevisti che
limitano sostanzialmente la capacità finanziaria dello Stato, emittente o
garante di tali titoli, o che addirittura annulli tale capacità”.
Quale insegnamento si può trarre da questa importantissima sentenza? Che,
come diciamo da sempre, il dovere di uno Stato è quello di garantire benessere
e coesione sociale alla propria popolazione e che il rispetto di ogni
obbligazione contratta è assolutamente secondario all’adempimento di quel
dovere.
Smentendo tutti i devoti alla religione del debito pubblico, trasversali
alle culture politiche presenti in Parlamento, la sentenza dice
chiaramente che, se si verifica un mutamento sostanziale delle circostanze –
quale più drastico mutamento di una pandemia che ha messo tutti in ginocchio?-
lo Stato, per poter adempiere alla propria funzione pubblica e sociale, può
operare unilateralmente per annullare o ridurre drasticamente il proprio
debito.
Di fronte a chi, senza alcuna vergogna, riesce a scrivere nella nuova bozza
di piano pandemico che “quando la scarsità rende le risorse insufficienti
rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare
risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a
quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio”, dividendo le
persone tra vite degne e vite da scarto, va rivendicata da subito la
sospensione del pagamento degli interessi sul debito, che pesa 60 miliardi
all’anno e costituisce, dopo previdenza e sanità, la terza voce di spesa del
bilancio italiano.
[1]La sentenza, disponibile in tutte le
lingue, può essere recuperata qui
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