Prendiamola
larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo
accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo.
L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne
che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da
cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.
Parimenti,
sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo
sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche
Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.
Ma – così
come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così
il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e
molteplici forme.
Esiste
tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano,
ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.
10-100-1000… Rojava?
Il Rojava,
un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale”
magari indesiderato.
Tra la
guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie
e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in
armi…
Un
“groviglio” non indifferente.
Per capirci
qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo
Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace
esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella
regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente –
soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).
In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La
Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e
chiarificatore – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie
Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.
Acutamente,
risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali
accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne,
l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi
duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una
guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come
avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.
Dopo una
breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti
Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920,
Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla
Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940,
l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e
Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale
evaporazione delle strutture statali nel Nord della Siria (2011)
sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione
del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno
dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito
dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare
in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo
libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e
Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i
curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno».
Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni,
turcomanni, ceceni…
Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».
E proprio il
nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un
elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda degli Stati Uniti e
dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo
dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso
dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare
che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico
per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione
attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si
recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).
Per Zibechi
il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora
possiede una proposta per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo
le note “quattro critiche” allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi
stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo
etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato,
lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla
distruzione della madre Terra).
Per cui «non
si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo
liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».
Di passaggio
l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della
sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione
curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze
di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente
possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca,
rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.
Contributi statunitensi
Tra i vari
contributi, numerosi – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi
(Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber,
il sito itsgoingdown).
Non è detto
(pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più
indicati per comprendere tali dinamiche.
È possibile
infatti che La Commune,
Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni
in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura
propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili
alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche
autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi»
delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle
insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di
amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il
compianto Paul Z. Simon –
contraddistinse le “comuni” nordamericane.
Murray Bookchin: ripensare l’etica, la
natura e la società
Senza fare
però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani
e nordamericani.
Significativo
e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine
del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa –
Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel
1984) e Öcalan.
Racconta la
giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social
Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che
«apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere
in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva
denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre
aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar
Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.
Comprensibile
un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla
dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a
quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le
traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo
bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto
necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa
durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo
dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in
Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura,
dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini
storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per
ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra
curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.
Il cammino
intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo
democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di
Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia
che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società
curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei
milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in
Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi
non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non
è più nazionale, ma sociale».
In qualche
modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati,
umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di
ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le
circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due.
Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso
sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si
limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia
speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una
società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di
prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per
guidarli».
Alla morte
di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione –
presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva
«uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».
E
aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo
verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […] Ci impegniamo a far
vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come
la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».
Altrettanto
meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti:
latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi
(l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet)
italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik,
Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e –
presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).
Per la rivoluzione, non per il martirio e
nemmeno per farsi pubblicità
Esaurienti e
significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i
militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.
In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni
che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con
i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti.
Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti,
posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che –
purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto
nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica
dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro
(comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun
modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di
«guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro
guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di
avventurismo e di opportunismo».
Anche per
rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato
(Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler,
Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…
E nel
suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti:
Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata),
Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.
Senza
dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner
Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc
(20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della
Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare
aiuti ai civili evacuati da Kobane.
Un libro da
consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli
anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa
situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del
Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti
Qandil).
Qualche ulteriore osservazione senza intenti
polemici
Tra le righe
de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una
preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre).
Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente
“anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio
anarchici.
Preoccupazione
legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che
fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che
– come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da
artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia
periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o
l’assimilazione (forzata e non).
Quindi direi
che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo
(ancora!).
Ritengo che
per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli
eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della
morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi,
talvolta, il Pdk).
Viceversa,
andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello
mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo,
almeno una sua componente significativa) si autorganizzi mettendo
radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di
genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).
·
* a parziale
conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel
comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli – riporto quanto
scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia:
«Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati
occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il
governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della
democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli
organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…».
Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno
in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra,
potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria
(fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza
contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in
fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire
militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro
intenti predatori… o no?
·
** Per
quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,
rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili
ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si
augura.
·
*** Oltre
che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel,
Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua
volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia
– fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…)
che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche
contaminazioni.
·
Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito
per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori
in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono
più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…)
rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle
vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare
l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di
esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale –
quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello
diacronico.
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