In seguito all’assalto
al Campidoglio di Washington del 6 gennaio, con la diffusione
delle fotografie dei protagonisti coinvolti, si è acceso un dibattito sul loro
profilo e background sociale e culturale. In particolare, la discussione
si è concentrata sulla presunta relazione tra classe sociale e il sostegno al
presidente uscente Donald Trump, per cui gli statunitensi più poveri sarebbero
la parte più forte del suo elettorato. Questa correlazione automatica banalizza
le definizioni del suprematismo bianco e del razzismo sistemico, oltre che la
loro influenza sulla società.
I leader del gruppo
Proud Boys, Enrique Tarrio e Joe Biggs
Su Twitter ha
suscitato scalpore un tweet di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo del Partito
Democratico, e il suo commento di
un video che ritraeva gli assalitori di Washington: “Guardo e riguardo queste
persone sfilare. Chi sono? Proletari, mi verrebbe da dire. Poveracci poco
istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake
news, marionette nelle mani di uno sciagurato. Li ha usati per il suo
potere. È così che si diventa fascisti?”. Con questo tipo di retorica classista
che riflette sull’evoluzione di un fascista – o di un
razzista, o suprematista bianco – solo tramite riferimenti
alle condizioni sociali delle persone, su cui bisogna agire e che è necessario
sanare, avviene una doppia deresponsabilizzazione. Da un lato quella della
sinistra stessa, almeno quella mainstream e di partito, che risulta essere
ormai lontana da queste problematiche, senza analizzare e trovare soluzioni a
determinate fratture sociali. Dall’altra quella dei razzisti stessi, per cui
non può esserci un’assoluzione sulla base delle disuguaglianze sociali.
Come spiega Andrea
Roventini, professore di economia della Scuola Superiore Sant’Anna, è vero che
l’analisi su una sinistra partitica che diventa elitaria e che si distacca
dalle masse e dalle problematiche sulle disuguaglianze sociali, dando quindi la
possibilità alle destre di partito di “riempire” quei vuoti con propaganda
xenofoba e razzista, sia sicuramente veritiera; tuttavia è necessario non
cadere in generalizzazioni estreme che vedono razzisti e suprematisti
semplicemente come persone “economicamente svantaggiate”. Come è stato
dimostrato dalle recenti indagini sui suprematisti che hanno assaltato il
Congresso di Washington, molti erano bianchi di classe medio-alta. Tra i tanti
esempi — tra cui vi sono avvocati,
amministratori delegati ed ex politici — si trova quello di
Jenna Ryan, che dal Texas ha raggiunto la capitale degli Stati Uniti con
un jet
privato; Aaron Mostofsky, figlio
di un giudice della Corte Suprema di Brooklyn; Derrick
Evans, esponente del partito repubblicano che il 9 gennaio
è stato costretto a dimettersi dalla carica di rappresentante presso la Camera
dei delegati del West Virginia dopo meno di due mesi dall’elezione.
Bisogna tener
presente che chi ha partecipato all’assalto del 6 gennaio aveva tutta
l’intenzione di mantenere uno status quo basato su razzismo e disuguaglianze
sociali. Un’idea opposta a quella delle Black
Panthers che nel 1967 raggiunsero armate il Campidoglio
della California per contestare il Mulford Act, una legge per
impedire ai californiani di circolare con armi cariche. Una normativa vista da
una parte degli afroamericani come un limite grave alla possibilità di
difendersi dalla violenza della polizia.
Quello che manca in
molte analisi su razzismo, supremazia bianca e disuguaglianze è proprio il
punto di vista di chi da secoli vive in una società diseguale e profondamente
razzista: suprematismo bianco e razzismo sistemico non sono semplicemente
il proud boy che
si radicalizza su
4Chan o Luca
Traini che spara contro persone nere. Suprematismo
bianco e razzismo sistemico, uniti al classismo, sono il modo predominante
di concepire la società occidentale, in cui se fai parte di una minoranza
etnica, ti devi interfacciare con una realtà legittimata, per esempio, in
Italia, da leggi che non permettono di condurre una vita serena per le
difficoltà insormontabili di ottenere documenti per gli immigrati e i loro
figli — diventando facilmente vittima di sfruttamento e
precarietà o di abusi nei Centri
di Permanenza per il Rimpatrio. Il razzismo
sistemico è una questione
culturale e storica di un passato coloniale rimosso con
cui nessuno, o quasi, vuole davvero fare i conti.
Quando si parla
di “privilegio
bianco” si cerca di dire che, in un contesto a
maggioranza bianca, il colore della pelle non è uno dei motivi per cui la vita
di una persona può essere in pericolo o condizionata da discriminazioni
giornaliere, più o meno velate. Affermare che il razzismo sia solo l’evoluzione
dell’esasperazione di una classe sociale precaria o povera non porta alla
decostruzione del razzismo sistemico, ma al rafforzamento di chi
opprime.
In primo luogo è
sicuramente necessario smantellare il razzismo
culturale, e più o meno inconsapevole, che caratterizza la maggioranza bianca.
In secondo luogo deresponsabilizzare chi è attivamente razzista come i
suprematisti che hanno assaltato il Campidoglio di Washington, parlandone solo
come “esasperazione per la povertà”, non porta a un’analisi consapevole – né
tantomeno alla condanna – delle idee su cui si basano secoli di
colonialismo, imperialismo e supremazia
bianca. C’è chi sceglie consapevolmente di abbracciare
queste ideologie, ma questo non è sempre dovuto all’appartenenza a una classe
sociale medio-bassa, ed è fuorviante pensare che chi, per esempio, si può
permettere di frequentare l’Università sia immune dal
condividere simili ideologie.
L’analisi del
razzismo sistemico non può quindi basarsi su un semplice rapporto di causa
effetto rispetto a povertà e scarsa istruzione. Inoltre, senza una
decostruzione del razzismo sistemico e culturale, è impensabile parlare di
contrasto e cancellazione delle disuguaglianze sociali proprio perché
l’intersezione tra “classe” e “razza” non può essere messa in secondo piano per
una persona di diversa etnia in condizioni precarie che subisce discriminazione
proprio per questi due elementi.
In conclusione, è
necessario staccarsi da questa visione monolitica del razzismo, che salta
all’occhio solo quando si ha di fronte il neonazista che compie azioni
eclatanti, ma che allo stesso tempo dà modo alla maggioranza bianca, specie
quella istituzionale e dei governi, di smarcarsi da questi eventi e appellarsi
ai valori della democrazia. Una democrazia che però è ancora troppo spesso
indebolita da retaggi della discriminazione razziale, dalla ghettizzazione degli
individui, da una limitata mobilità
internazionale e dalla repressione della
polizia su base pregiudiziale. Quando parliamo di razzismo sistemico dobbiamo
quindi iniziare a pensare che gli estremisti di destra e i suprematisti bianchi
sono solo l’evoluzione estrema di una mentalità ancora radicata nella nostra
società, indegna del nostro stesso ideale di democrazia.
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