Timeo danaos et dona ferentes
(Temo i greci anche quando portano doni)
Virgilio, Eneide II, 49
Nel mondo occidentale si sente parlare molto spesso dell’Africa come di
un continente “da aiutare”; lo si sente dire da chiunque, alla tv come dal panettiere sotto casa, sui
social come al cinema, e sempre con le migliori intenzioni. Lo stereotipo di
una popolazione sfortunata e cronicamente bisognosa di aiuto è scolpito nel
marmo del nostro immaginario collettivo e accompagna le più diffuse narrazioni
sul continente nero. “Aiutiamo l’Africa”, come se l’Africa fosse un territorio
dimenticato da Dio, o peggio un territorio contro cui Dio si accanisce con
disastri naturali, siccità e carestie, per darci la possibilità di esibire la
nostra carità. “Aiutiamo l’Africa”, come se gli africani fossero dei cugini
retrogradi che non ce la fanno da soli, perché sono troppo arretrati, troppo
ignoranti, troppo incivili per stare al passo con i tempi. Come se fossero una
specie inferiore e sfortunata, che dobbiamo accudire, prendere sotto braccio e
a cui dobbiamo insegnare come si sta al mondo.
Questa concezione
dell’Africa e degli africani diffusa in occidente è un retaggio coloniale dal quale fatichiamo a
divincolarci, anche perché raffigura un quadro mentale molto funzionale
agli sporchi giochi del neo-colonialismo. Entrambi gli argomenti che “giustificarono”
moralmente, nell’Ottocento, la penetrazione europea in Africa, sono tuttora
immutati. Da una parte il concetto di inferiorità dell’uomo nero, diffusa
all’epoca, si esprime oggi con il concetto di “sottosviluppo”, grazie al quale si rendono possibili e persino
eticamente virtuosi i più brutali saccheggi delle risorse africane spacciati
per “investimenti per lo sviluppo”. Dall’altra, la “missione civilizzatrice” di
cui gli europei si sentivano cristianamente investiti nell’Ottocento, quella di
educare i selvaggi e battezzare gli infedeli per aiutarli ad uscire dalla loro
condizione di inferiorità antropologica, si traduce oggi nel concetto di
“beneficenza” e di “aiuti umanitari”, ma anche in slogan molto mediatici come “black
lives matter” o “porti aperti”, utili ad appagare il nostro senso di pietas verso
una popolazione che si presume la necessiti.
Tutta questa
retorica serviva allora ed è utilizzata oggi per coprire il massacro
sistematico del continente africano, ottenuto nell’Ottocento attraverso le armi
e mantenuto fino ad oggi attraverso sistemi sempre più sofisticati, subdoli e
distruttivi. La de-colonizzazione (anni ’50 – ’60 del Novecento) ha
portato i paesi africani a un’indipendenza che è soltanto sulla carta,
mentre un neo-colonialismo sempre
più ingombrante permette di fatto alle grandi potenze mondiali di controllare
la politica, l’economia e la società africana come e meglio di prima. L’indipendenza
della maggior parte di questi paesi non è stata conquistata, ma è stata
“gentilmente” concessa dai colonizzatori, i quali hanno fatto in modo che fosse
comunque possibile preservare il proprio controllo senza nemmeno l’assillo di
dover mantenere tutto un apparato burocratico in loco.
L’Africa
oggi rimane un continente diviso (da quei confini che gli stessi colonizzatori
avevano disegnato) e senza prospettive. Viene mantenuta in uno stato di
“sottosviluppo” in modo da impedire che emerga come possibile competitor per
il mercato globale e che resti terra di conquista per i più svariati interessi dell’economia
occidentale (e cinese, saudita, turca, ecc…). Il controllo avviene in vari
modi, che passano tutti attraverso la corruzione della classe politica.
Tra le pratiche più diffuse vi è il land grabbing, cioè l’accaparramento della terra
e delle risorse attraverso la corruzione dei governi africani. L’esempio più
eclatante, forse, è quello che vide coinvolte nel 2011 Eni e Shell nel più
enorme scandalo di corruzione della storia: oltre un miliardo di Euro di
tangenti furono versate, secondo l’accusa (il processo, naturalmente, è ancora
in corso) nelle casse di una società controllata da esponenti del governo
nigeriano, mentre allo Stato restarono solo le briciole. Questa operazione
servì per ottenere la licenza per lo sfruttamento di un vastissimo bacino
petrolifero nigeriano.
Ma questo è
solo un esempio che rimanda a una prassi ben consolidata, che colloca le classi
dirigenti africane ai primi posti mondiali per livello di corruzione. Inutile aggiungere che per
ogni soggetto che viene corrotto, c’è qualcuno che corrompe. Ma quando la
corruzione non funziona, perché magari ci si imbatte in un governo fatto da
persone oneste e meno compiacenti, si passa a maniere più forti. Ne sa qualcosa
il presidente Thomas Sankara, che fu ucciso nel 1987 dopo aver annunciato
all’Onu che la sua Burkina Faso non sarebbe stata svenduta alle multinazionali.
O si passa a maniere ancora più forti, come il finanziamento di guerre civili
allo scopo di destituire un governo e insediarne un altro con il quale sia più
facile fare affari. Oppure mantenendo di fatto una situazione di instabilità
cronica (Congo, Libia, Somalia, ecc…) che consenta l’accaparramento di materie
prime a prezzi stracciati acquistandole sottobanco da mafiosi locali,
miliziani, bande armate (armate dall’occidente) e quant’altro. Le maniere
forti, come farebbe un qualsiasi stupratore. L’Africa è una donna di cui tutti
abusano senza pietà.
Anche il
commercio è un formidabile fattore di neo-colonialismo. Conquistare i mercati
africani non è mai stato così facile, perché la globalizzazione ha travolto
l’Africa mostrando i suoi effetti più iniqui. Il commercio internazionale, (s)regolato dai principi di quel
bellissimo eufemismo chiamato “mercato libero”, non è improntato al rispetto
reciproco e alla cooperazione, ma è
determinato da puri e semplici rapporti di forza, secondo le leggi della
jungla. Grazie al mercato libero,
e grazie alle sovvenzioni dell’UE, le grandi multinazionali occidentali possono
operare il dumping commerciale e conquistare i mercati
africani applicando prezzi bassi alle proprie merci per battere la concorrenza
dei prodotti locali. Questo provoca maggiori profitti per le
multinazionali, e il fallimento dei produttori africani. Applicare dei dazi
sulle merci straniere potrebbe consentire ai paesi africani di proteggersi da
questi assalti commerciali, ma si tratta di paesi che appartengono alla Wto e i
loro capi di Stato hanno sottoscritto trattati, come i vergognosi accordi di
Cotonou del 2000, con i quali si impegnano a rispettare le leggi del libero
mercato e quindi a non alzare i dazi sulle merci in entrata. Quei governi che
hanno decretato, in questo modo, il sacrificio dei propri paesi sull’altare
delle multinazionali, sono gli stessi che garantiscono il rispetto dei vincoli
derivanti dal debito pubblico che i loro paesi hanno contratto con la Banca
Mondiale, l’Fmi e altre banche internazionali, cosa che, oltre a far confluire
sempre più risorse nelle mani dei creditori, mantiene questi Stati
nell’impossibilità di garantire anche solo un minimo di welfare ai
propri cittadini. E così l’Africa
arranca, aggrappata alle rimesse dei suoi emigrati o chiedendo l’elemosina internazionale, che
proviene dagli aiuti umanitari, cioè dall’iniziativa di fondazioni i cui
benefattori sono spesso gli stessi che hanno costruito i propri imperi
sfruttando l’Africa. Il famoso filantro-capitalismo sapientemente descritto da
Vandana Shiva. La beneficenza come cavallo di Troia.
Nonostante questi “aiuti” internazionali, e nonostante i generosi quanto
velleitari propositi dell’Agenda 2030, la fame è tornata ad aumentare nel
continente. In questo
momento una persona su cinque in Africa sta soffrendo la fame. 257 milioni di
persone nel 2019 secondo l’ONU, 34 milioni in più dell’anno precedente.
Il land grabbing sottrae ogni giorno risorse e terra ai
contadini africani. Chi viene risparmiato dall’esproprio della terra, rischia
comunque di perdere i propri raccolti per mancanza di acqua, che serve per
irrigare le adiacenti piantagioni di caffè, cacao, biocarburanti ecc… destinate
all’esportazione. O perché le stesse piantagioni, alimentate a fertilizzanti
chimici e protette da glifosato, hanno contaminato i terreni della regione sui
quali i contadini praticavano la loro agricoltura di sussistenza. O perché le
operazioni di estrazione di petrolio, coltan, diamanti ecc… hanno inondato le
falde di agenti tossici. O perché il governo ha accettato di “smaltire” nel
proprio territorio i rifiuti in eccesso di qualche paese “civile”. Eccetera
eccetera…
Tutto questo serve a sostenere lo stile di vita del “Nord del mondo”. Uno stile di vita finalizzato
all’appagamento di una serie sempre più vasta di bisogni materiali artificiali,
che richiedono insostenibili sacrifici al pianeta al solo scopo di estendere il
business di poche grandi aziende. Uno stile di vita che si basa su una rapina
globale organizzata. Se davvero dovessimo pagare la benzina per il suo
reale valore, oggi probabilmente costerebbe più di 10€ al litro, cosa che
bloccherebbe completamente la nostra economia, molto più che il più restrittivo
lockdown. Se dovessimo pagare una tazzina di caffè per il suo giusto valore, i
bar sarebbero già stati chiusi perché senza clienti molto prima di finire in
zona rossa. Se dovessimo pagare pc, tablet e smartphone per il loro reale
valore, potremmo dire addio allo smart working. Non potremmo nemmeno comprare
mascherine, fare tamponi e vaccini, perché il loro costo sarebbe insostenibile
per il nostro sistema sanitario.
È importante
ricordare che il consumismo,
così tenacemente promosso dai media e dai politici, si poggia sullo
sfruttamento di sempre più ampie aree del pianeta, e che per sostenere questo
stile di vita stiamo sottraendo risorse non solo a chi verrà qui dopo di noi,
ma anche a chi è già fra noi oggi in altre parti del mondo. Non potremmo
mantenere il nostro attuale sistema economico altrimenti. Questo sistema per
sopravvivere ha bisogno di utilizzare risorse che appartengono ad altri.
I problemi
dell’Africa, che sono i principali problemi dell’umanità, sono fame, miseria,
migrazioni internazionali, sfruttamento del lavoro, corruzione, guerra,
dittatura, catastrofi ambientali. E sono tutti collegati da un unico filo
conduttore, il consumismo, in nome del quale avviene il saccheggio delle
risorse. Il consumismo come effetto necessario del sistema capitalista e come
ragione del libero mercato. La narrazione secondo cui questo sistema avrebbe
portato nel mondo democrazia, libertà, pace e ricchezza è falsa: ha solo
esternalizzato dittatura, schiavitù, guerra e povertà. Per appagare i bisogni
indotti di una minoranza di persone, massacra le restanti e l’ambiente. Porta
la catastrofe al di fuori del nostro campo visivo, in modo che possiamo credere
di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Il mondo
sarebbe molto migliore, invece, se l’iniziativa economica fosse sottratta alle
grinfie delle multinazionali. Nelle società “opulente” si rende sempre più
necessaria una diversa organizzazione economica e produttiva, che renda
possibile il benessere senza dover per forza rapinare le risorse di altri. E
per realizzare un obiettivo del genere, il sistema economico non potrà più
essere basato sull’accumulazione, ma sulla condivisione. Non più sul consumo
sfrenato, ma sulla gestione razionale. La crescita dei consumi non può più
rappresentare il pilastro su cui si mantiene il sistema, ma occorre sganciare
l’economia dalle logiche del profitto, che hanno generato il consumismo e di
esso si alimentano. Spezzando questo circolo vizioso si renderà possibile non
solo una maggiore equità sociale, ma anche un ridimensionamento del fabbisogno
di materie prime, rendendo possibile anche sostenere il loro costo reale,
pagarle il giusto prezzo, senza dover distruggere mezzo mondo per recuperarle
gratis.
Ecco perché una decrescita economica controllata a livello globale non
può che portare giovamento all’Africa: diminuire il consumo di merci ridurrebbe
la necessità di sfruttare il continente e lascerebbe le migliori risorse a
disposizione delle popolazioni locali; inoltre, l’allentamento della presa da
parte delle multinazionali favorirebbe lo sviluppo di processi democratici al
posto di corruzione, guerre e dittature, e questo porterebbe al miglioramento
delle condizioni di vita a tutti gli effetti. Ma questo sarà possibile solo se l’iniziativa
economica passerà dalle mani dei grandi gruppi industriali e finanziari, che
agiscono per il proprio profitto, a quelle della concertazione democratica, che
agisce nell’interesse collettivo. E solo se la popolazione si renderà conto che
la strada per curare questo pianeta malato passa attraverso il
ridimensionamento dei consumi e degli sprechi.
Una parte
del mondo sta consumando al di sopra delle proprie necessità e al di sopra di
ogni logica di civiltà, e questo trionfo dell’ingordigia è possibile solo
attraverso il furto di risorse altrui. Nella nostra società, a partire dal carrello della spesa di ognuno di noi
fino alle scelte macro-economiche dei nostri governi, devono tornare di moda i
valori della sobrietà, della condivisione e del consumo razionale. La
mentalità consumista ha già svelato i suoi tragici effetti sul pianeta e sulle
persone, e non sarà certo con la beneficenza che si riuscirà a rimediare. La macchina della cooperazione internazionale
è infatti una soluzione di facciata che non risolve i problemi e offende la
dignità dei popoli africani. L’Africa non ha bisogno di nessun aiuto, ha solo
bisogno di essere lasciata in pace.
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