Anzitutto qualche precisazione sui termini. Se dico educazione diffusa e
non scuola diffusa è perché, come ho già chiarito altrove (con Giuseppe
Campagnoli), non si tratta di portare la scuola nel mondo, con il suo
ingombrante modello di insegnamento-apprendimento, con le sue “materie” e la
sua disciplina corporale. Educazione diffusa è altro da tutto questo. E se
preferisco città educante o, ancor meglio, società educante è perché non credo
nelle “comunità” educanti. Le comunità le fanno i preti e i guru e la società
non è affatto una comunità ma un insieme molto stratificato e anche molto
fratturato di gruppi sociali, di individui e di movimenti imprevedibili.
Non credo nelle città dei ragazzi né nei kindergarten finlandesi, né nelle
scuoline al riparo dal brutto e dallo sporco, neppure nei falansteri (non me ne
voglia Fourier) né nelle serie armoniche societarie o passionali dedotte da schemi
esoterici. L’educazione avviene nel grande gioco del mondo, nella vita
sociale, nella sua complessità, non in una miniaturizzazione edificante ma
nel labirinto dei suoi conflitti e delle sue contraddizioni.
Credo nei percorsi, nei flussi di intensità, nell’attrazione appassionata e
nell’evento che si chiama esperienza.
Esperienze molteplici e non eufemizzate, con tutto ciò che la realtà ha da
offrire, ed è sterminato. Nulla repelle all’educazione diffusa, al contrario si
dà esperienza proprio entrando in contatto con ciò che normalmente è tenuto
alla larga dal pedagogismo ottuso di un’istruzione ancora costruita largamente
sulle materie di un’enciclopedia cognitiva e idealizzata.
L’educazione diffusa non ha un centro che si possa chiamare scuola ma semmai
covi, tane, portali, luoghi dove i ragazzi hanno un loro spazio da cui partire
e dove tornare. E meno assomigliano alle aule di una scuola meglio è.
Poi si tratta di percorrere le strade del mondo, con (ma anche senza) guide
che abbiano il gusto del mondo, il fiuto dell’esperienza e la disinibizione
necessaria a immaginare incontri e eventi che suscitino interesse, attrazione,
coinvolgimento.
Si va nel mondo non solo per andare in altri ricoveri di “cultura” con la
denominazione di origine controllata, i soliti musei, le solite biblioteche, le
ludoteche o altri congegni “pedagogici”. Si va nel mondo per trascorrere
momenti ad alta intensità accanto all’operaio che sistema i binari, al muratore
che impasta il cemento e costruisce un muro, alla tessitrice che cuce i nostri
vestiti, all’elettricista che monta un impianto, all’idraulico che disintasa un
cesso, così come con il vasaio e l’artista non solo per guardarli fare ma anche
facendo e poi chiacchierando con loro, ascoltando la loro storia. Si incontra la
donna costretta a prostituirsi, il clochard, il delinquente che languisce in
carcere andando a vedere cos’è il carcere e ascoltando le storie di
chi è finito nelle maglie della giustizia, con la grande curiosità ma anche
sensibilità che i ragazzi hanno per chi ha avuto esistenze violente e
difficili, per parlare, per ascoltare anche il loro punto di vista.
Trascorrere una giornata in un bar, magari preparando caffè può essere
un’occasione straordinaria per conoscere le persone reali, per parlarci, per sapere.
Andare al mercato ortofrutticolo, salire su un camion e fare un viaggio, salire
su una chiatta, o su una motonave o su una motovedetta, stare con i pescatori,
o con i guardaboschi, trascorrere una mattinata al pronto soccorso o su una
ambulanza ecc ecc (potrei andare avanti all’infinito), questo è educazione
diffusa. Questa è la società educante, non fatta su misura dei ragazzi ma a cui
i ragazzi si approssimano per conoscere, per provare, per capire. E poi, dopo
giornate intense, potenti, ricche tornare alla base e discutere, approfondire,
ricercare, farsi un’idea, anche con i mèntori e gli educatori sensibili al loro
evolvere continuamente. E magari a qualche esperto per capire e approfondire
cose rimaste oscure.
Certo, sono occasioni di educazione diffusa anche i luoghi della cultura,
ma non tanto e non soltanto i musei bensì i luoghi dove le cose avvengono, lo
studio dello storico, il centro di ricerca biologico, l’atelier del pittore,
l’anello dove si fanno esperimenti di microfisica e così via.
Occorre che la società nel suo insieme si senta chiamata a condividere
esperienze con i più piccoli e a coinvolgerli, dal politico al prete (non per fare
l’oratorio ma semmai per raccontare la propria vita, la propria “vocazione”),
dal poliziotto al senza fissa dimora.
E poi cercare occasioni di intervento, nel servizio, nella cura del mondo,
nella sua manutenzione e nel suo abbellimento. Nel portare
conforto ma anche nello sconfortarsi, nel restare ammutoliti e nel parlare
senza sosta, nel fare e nell’assistere, nel creare e nel veder creare.
La società deve reintroiettare la popolazione dei piccoli e dei giovani
come una sua componente essenziale, che si muove al suo interno, che partecipa,
che collabora, che ascolta e che conosce, che dice la sua, che contesta, che si
ribella ma anche che accetta e capisce.
Questo è fare esperienza, poi ci sono le attività corporee,
l’incontro-scontro con la natura, non solo per fare orti e giardini ma anche
per scalare la pietra, percorrere sentieri disagevoli, pulire boschi,
percorrere la foresta notturna. Così come il corpo non è mai solo ginnastica o
sport ma bioenergetica, meditazione, lavoro di fatica, arti marziali, danza,
teatro, canto, musica e insomma contatto con la componente dionisiaca dell’esaltazione
corporea e mentale insieme.
La società può essere, senza travestirsi da pedagogo, un’immensa occasione
formativa, di fatto lo è, continuamente, incidentalmente.
Per chi vuole procedere sulla strada dell’educazione diffusa si tratta di
svegliare la società, di chiamarla a uno dei compiti più importanti e
gratificanti di ogni aggregazione adulta, accompagnare i propri figli nel suo
ventre, per crescere, godere e sbattere la faccia sulle sue strade, talvolta
difficili talvolta impervie talvolta piacevoli e entusiasmanti.
Perché questo è il gioco del mondo e perdere l’opportunità di giocarci da
subito, di intervenirvi da subito, di sperimentarlo da subito è un danno enorme
per chi cresce ma anche per chi è cresciuto e insieme a loro può rendersi non
solo utile ma consapevole della bellezza di esserci nel mondo, magari anche
solo per testimoniare il proprio destino, per mettere in guardia o per aiutare
a costruire il proprio.
L’educazione è percorrere le strade del mondo e confidare negli incontri, nel circolo virtuoso
che rende tutti egualmente responsabili di condividere la propria esperienza e
i propri talenti, così come i propri fallimenti e le proprie sconfitte con i
più giovani, nella vita pubblica come in quella privata, nel lavoro come
nell’amore.
Una battuta a latere, infine, sulla polemica odierna e piuttosto vacua su
presenza e distanza, almeno per come nella maggior parte dei casi è
impostata: prima di parlare di presenza e distanza occorre chiedersi con la
dovuta radicalità “quale” presenza e “quale” distanza. Perché è nella qualità
della presenza e dei contesti di presenza, delle esperienze in presenza o a
distanza che si deve discutere. Magari anche per assolvere qualche momento
“scolastico” tra le tante brutture della vita ma non certo per affermarlo come
il vero modo di educare i giovani, perché in tal caso si è del tutto fuori
strada.
* Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di
Milano-Bicocca, Paolo Mottana si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia
e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios),
scritto con Giuseppe Campagnoli. È tra i promotori del Manifesto dell’educazione diffusa. Altri articoli di
Mottana sono leggibili qui.
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