I ritardi di Pfizer che occupano le nostre cronache e
mandano in tilt i piani, già molto precari, della grande campagna vaccinale
sono, giustamente, oggetto di scandalo e denuncia, anche a livello europeo. Di
fatto il problema chiave sta ‒ ed è stato chiaramente confermato ‒ nella
(incredibile!) segretezza dei contratti firmati dai Governi e dall’Europa con
Pfizer e la sua associata tedesca: per quanto riguarda sia i termini precisi
delle consegne che i prezzi. A conferma esplicita, in un modo che se non fosse
drammatico sarebbe ridicolo, di politiche di completa soggezione della responsabilità
pubblica agli interessi di mercato di una multinazionale: una di quelle più
note (anche in Italia, oltre che negli USA) per aggressività, spregiudicatezza,
politiche provocatorie di violazione anche delle regole commerciali più
elementari. In attesa che il “segreto” venga risolto con un colpo di
trasparenza, è forse utile guardare più a fondo al rapporto tra promesse,
proprietà, responsabilità delle conoscenze scientifiche, sottolineando che
quanto segue nasce dall’interno della “comunità scientifica”: non come critica
ma come esercizio di normale trasparenza. Il patentino HI (indice di
autorevolezza scientifica internazionale dei ricercatori, ndr) di chi
scrive è sempre stato rispettabile, così come il suo contributo anche
internazionale nei campi della sperimentazione innovativa di farmaci, delle
politiche della loro valutazione, della epidemiologia (di cittadinanza, al di
là delle malattie).
Non c’è dubbio che, tra i tanti protagonisti degli
scenari (concreti e di immaginario) che ormai da un anno occupano nei modi più
diversi tutti gli orizzonti, il ruolo delle conoscenze scientifiche è stato, ed
è, determinante. Trasversalmente. Dalla biologia, all’economia, alla salute
pubblica, alla sicurezza, alla politica… Dietro tutte le decisioni ci si assicura
che ci siano una o più commissioni, e tanti, diversi, esperti. Il tempo dei
vaccini che stiamo vivendo riassume e rappresenta alla perfezione l’intreccio
stretto e ambiguo delle conoscenze scientifiche più specifiche per la gestione
di una pandemia ‒ quelle biologico-mediche e quelle epidemiologiche e di salute
pubblica ‒ con i processi decisionali che le prendono come criterio di
riferimento e di legittimità. Un’ultima notazione importante: al di là di
qualsiasi discussione, più o meno finta, l’unico mantra che
non si discute e che è fondante di tutta la fiducia in un futuro diverso dice:
il Covid-19 ha dimostrato al di là di ogni dubbio che la scienza ha fatto la
differenza tra questa e le altre pandemie della storia, con la sua capacità di
produrre rimedi che ci porteranno fuori dal tunnel in tempi che non ci saremmo
mai potuti neppure sognare.
Una griglia di analisi-valutazione
Come tutti i processi che producono conoscenze
complesse e strategiche per la vita della società, i “percorsi” di ricerca delle
scienze che qui interessano sono inscindibili dai loro contenuti puntuali:
osservazione ovvia, ma che è bene esplicitare per motivare connessioni o
affermazioni che potrebbero suonare come pessimistiche, se non irriverenti.
Vaccini. È bene partire da qui, visto che siamo nel
pieno di una vera e propria guerra mondiale, oltre che nazionale ed europea.
Il mantra sopra citato come indiscutibile è stato applicato
specificamente e in modo messianico ai vaccini. Fake news? Di fatto
i vaccini sono in giro in tempi rapidi. Ma quale è stato il loro percorso? Le
conoscenze e le tecnologie che li hanno permessi erano parte ben consolidata
del know how e delle possibilità operative della “comunità
scientifica” (privata e pubblica). La novità è stata la comparsa di un mercato
inaudito che ha fatto mettere a disposizione capacità di sviluppo applicativo
attraverso politiche di finanziamento come quelle di tempi di guerra (non si
esagera: i dati sono ben disponibili). Nulla di scientificamente nuovo. E
perfetta conferma che la logica dello sviluppo non è stata quella della
cooperazione tra vari attori, ma della competizione più secretata e senza
esclusioni di colpi: “reclutando” popolazioni sperimentali con criteri che
sarebbero risultati inaccettabili in termini di informazione e di gestione,
annunciando risultati solo con un occhio alle quotazioni in borsa, promuovendo
campagne di massa senza neppure aver messo a punto una politica collaborativa
almeno nel monitoraggio della effettività oltre che della
sicurezza dei diversi vaccini.
Eppure la “novità”, il vero risultato scientifico che
porterebbe fuori dal tunnel sarebbe il sapere modalità, intensità, durata della
difesa immunitaria: si richiede tempo, certo! Ma, soprattutto, una
collaborazione molto trasparente tra i diversi attori, per mettere insieme
dati, garantirne una analisi indipendente, tempestiva, con una forte
interazione tra ricerca di base ed epidemiologia… Tracce, anche solo
informative, di questo processo? Segnali critici della intollerabilità (etica?
di normale civiltà democratica?) professionale, metodologica, culturale di un
silenzio comunicativo che sembra raccogliere nella connivenza su interessi e
politiche strettamente di mercato, privato e pubblico, di ricercatori
“indipendenti” e produttori industriali?
Salute pubblica e diritti umani
I termini di riferimento di questo secondo punto di
riflessione sembrano, a prima vista, essere più lontani dal tema che ci
interessa. Ma di fatto ne sono il cuore: la priorità data ai vaccini è dovuta
al loro carattere più esemplare. E il messaggio è chiaro: il
mercato ha ancora una volta travestito la scienza di bontà e di futuro, per
avere mano libera nel farne un uso ottimale a suo vantaggio. Non è una denuncia
“specifica” per il Covid-19: la pandemia, prima ancora che la guerra vaccinale
divenisse evidente, ha purtroppo documentato che il primo fallimento della
“comunità scientifica” globale è stato, e continua ad essere, quello
dell’assenza di una cultura di condivisione di dati sulla vita delle persone in
vista di una comprensione dei rischi e di una ricerca di soluzioni mirate alla
specificità dei bisogni.
La non-risposta della comunità scientifica globale ha
coinvolto tutte le più alte autorità. Non per aver fatto qualcosa di male ma
per la loro assenza e incapacità (o impossibilità programmata) nel farsi carico
in modo tempestivo e collaborativo di un problema preannunciato da tempo, ma la
cui causalità multipla poteva essere bloccata solo toccando “tradizioni” ed
equilibri di potere che da tempo la scienza mainstream ha
rinunciato a mettere in discussione: è da questi centri (pubblici e privati),
conniventi, che derivano infatti le quote più importanti di finanziamento.
Questo “fallimento per assenza” è stato diagnosticato in modo molto preciso,
dall’editore di una delle riviste scientifiche più prestigiose e globali, come
“catastrofe”. Con la conseguenza esplicita che per una diagnosi che è culturale
e politica potrebbe solo rispondere un cambiamento di paradigma rispetto alle
cause della catastrofe. La risposta messa in evidenza dallo scenario “vaccini”
non va certo in quella direzione. L’opposizione, senza clamore ma molto
fattuale, di tutti i poteri che contano all’ipotesi anche solo di una
sospensione (eccezionale, come è eccezionale la gravità della pandemia) del
regime dei brevetti, promossa dalle reti dei diritti umani e dei popoli,
afferma che la unica “scientificità” che si deve garantire è quella della
arbitrarietà-segretezza degli algoritmi economici.
Contare i morti o esserne responsabili per
esplorarne-comprenderne l’evitabilità?
I bollettini che puntualmente, da ormai un anno, in
Italia e a livello globale, pretendono di raccontare l’andamento della
pandemia, con descrizioni che oscillano tra quelle metereologiche (le ondate!)
e quelle restrittive-accusatorie (assembramenti, centri culturali chiusi,
scuole chiuse o aperte), sono un altro dei segnali drammatici della inesistenza
di una scientificità responsabile della “scienza dei big data”. In un
tempo che assicura (e fa vedere come concreta nei campi più diversi) la
possibilità di “tracciare”, di spiegare, di utilizzare i flussi di tutte le
transazioni, i movimenti, le interazioni tra gli umani e le merci, non esiste a
tutt’oggi un solo esempio di confronti epidemiologici che permettano di
comparare e comprendere (lungo i tempi o nei diversi territori) le incredibili
diversità degli andamenti dei contagi e delle popolazioni più colpite. Nel
piccolo dell’Italia i colori si modificano seguendo la vignetta di Altan, che
sull’Espresso del 15 gennaio indica la strategia dell’estrarre a
sorte i biglietti di una lotteria, più che spiegazioni ragionevoli e
riconoscibili. Il Veneto virtuoso diventa come la Lombardia della prima ondata,
per ritornare virtuoso contro ogni aspettativa. La Svezia che si affida alla fiducia
nella responsabilità della sua popolazione si rivela un disastro rispetto alla
sostanziale “assenza di problemi” delle nazioni contigue e simili come la
Norvegia e la Finlandia. Le scuole si aprono, si chiudono, si confondono in
tutti i paesi senza che ci sia un solo dato di confronto sulla contagiosità,
diretta o indiretta, attribuibile alle popolazioni giovani e/o alle loro
famiglie. La Germania e l’Olanda fanno lockdown durissimi,
dopo essere passate per essere virtuose. Senza parlare, in un mondo globale che
produce statistiche economiche puntuali e puntigliose sulla povertà e le
diseguaglianze su tutti i paesi, di stime credibili sulla pandemia in interi
continenti come Africa, America Latina, India, Cina…. Il monitoraggio, globale
e locale, che invoca senza mai poterlo applicare, il “tracciamento dei
percorsi-gruppi a rischio”, sembra riprodurre la storia della “spagnola” in
tempi che non potevano neppure immaginare la nostra società digitalizzata.
La scientificità della epidemiologia comunitaria e di
cittadinanza da anni si era applicata a rendere visibili ed evitabili i diritti
violati delle minoranze più a rischio attraverso un lavoro “di prossimità e
partecipazione” con le popolazioni interessate: l’epidemiologia mainstream,
specializzata nelle descrizioni dall’alto e da lontano della distribuzione
della malattia, ne impone la cancellazione. La sua scientificità è quella dei
bollettini sopra citati: i numeri e le percentuali travestono il non-sapere in
una pretesa conoscenza oggettiva garantita da commissioni che non si
confrontano pubblicamente (non solo in Italia) sulle loro incertezze.
Dimenticando che l’informazione condivisa dell’incertezza e della parzialità è
la conditio sine qua non di una scienza che voglia essere una
fonte indipendente e responsabile di informazione al servizio di una civiltà
democratica.
Guardare avanti
I punti che si sono toccati non hanno evidentemente la
pretesa di essere completi né tanto meno “veri”. Esplicitano semplicemente il
rischio ‒ e l’imbroglio ‒ dell’affidarsi a un potere che si pretende
indipendente da una verifica trasparente perché espressione di una conoscenza
“scientifica”. Ma soluzioni lineari di situazioni che hanno messo in
discussione tutti i modelli di società e di scienza che hanno portato a una “catastrofe”
non possono essere credibili. Il ruolo primario della “comunità scientifica”
dovrebbe essere quello di mettere in evidenza e farsi carico, con la stessa
forza, del proprio sapere e del tanto non-sapere: per coerenza con la sua
identità e responsabilità culturale, metodologica, di democrazia. Il
“dopo-pandemia” affidato all’attuale politica dei vaccini esprime tutta la
cecità di una scienza che sa benissimo (e programmaticamente non ricorda) che
pandemie ancor più mortali di quella che viviamo dipendono dal mantenimento
della logica proprietaria e competitiva del mercato dei brevetti, dei prezzi,
delle diseguaglianze. È ovvio che ciò è responsabilità primaria dei Governi. Ma
fa parte della credibilità della scienza essere dalla parte di chi dice tutta
la verità sul come stanno le cose, e prendere partito. Un editoriale autorevole
di un giornale scientifico come il New England Journal of Medicine lo
diceva, prima ancora della diagnosi sopra citata di “catastrofe”: la sfida ‒
culturale ed etica, e perciò scientifica, identitaria ‒ della scienza per un
dopo “diverso” passa per un allearsi tra coloro che, senza illusioni o
demagogia, sul lungo periodo, assumono e rispettano, come criterio di
legittimità, il produrre conoscenze che non siano strumento di inequità.
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