Facciamo finta di niente, ma in Europa siamo il paese che ha avuto finora il maggior numero di morti per coronavirus in valori assoluti: 74.158 (al 31 dicembre 2020). E purtroppo anche un indice di mortalità spaventoso: 1.209 morti per milione di abitanti. Ci batte solo il Belgio, con 1.667. La Francia, che pure ha avuto mezzo milione di contagi in più di noi (2.574.041) ha un indice di 981, cioè inferiore al nostro di quasi il 30%. La Germania, con circa 1 milione e 700mila casi, ha meno della metà dei nostri morti (32.420) e un tasso di mortalità pari a un terzo di quello italiano (386 per milione di abitanti). Persino il Regno Unito dello sconsiderato Boris Johnson, con più contagi di noi – com’è naturale viste le iperliberiste politiche di (non)contenimento del contagio -, può comunque vantare un tasso di mortalità inferiore (1.051 morti per milione di abitanti). Nel mondo gli Stati Uniti, che hanno in assoluto il record di contagi (20.219.991 al 31 dicembre 2020) e di morti (350.798), fanno registrare un tasso di mortalità per milione di abitanti inferiore a quello italiano (1.057). Personalmente, dato lo stato disastroso di quel sistema sanitario, spaventosamente selettivo e asimmetrico in base alla disponibilità economica dei pazienti, mi sarei aspettato un’incidenza della mortalità molto maggiore. E può darsi che questo tipo di graduatoria macabra sia in parte falsata dalle modalità di rilevazione dei dati . Ma resta il fatto che il dato italiano parla di un fallimento catastrofico del NOSTRO sistema sanitario.
Eppure non è sempre stato così. A maggio, al termine della prima ondata
pandemica, nonostante tutto, malgrado le tragedie di Bergamo e del bresciano,
le incertezze iniziali e i ritardi nel prender coscienza della gravità del
morbo, non eravamo così indietro rispetto agli altri. Nel quadro europeo
stavamo più o meno al livello di Francia e Spagna, con un paio di settimane di
anticipo rispetto a loro, e sembravamo addirittura un modello da imitare. Poi
siamo caduti.
Anche in questo caso non ce lo siamo detto (almeno fino a qualche settimana
fa), ma in Italia la “seconda ondata” è stata devastante, ben più diffusa e
violenta della prima. Nei numeri e nell’impatto sulla vita delle persone. Nel
famigerato mese di marzo i contagi erano stati 108.620, a ottobre se ne
conteranno quasi quattro volte tanti (391.930), a novembre otto volte tanti
(854.937)! Il numero complessivo dei contagi, che all’inizio di giugno – alla
fine della prima ondata -, aveva raggiunto quota 233.000, e la cui curva di
crescita si era mantenuta quasi piatta nei mesi estivi, esploderà nell’ultimo
trimestre dell’anno, passando dai 317.409 del primo di ottobre ai più di 2
milioni della fine di dicembre. E un discorso analogo si può fare per il numero
dei decessi, che pur non essendo cresciuto con la stessa proporzione dei
contagi, ha fatto segnare a novembre il proprio record mensile con 17.535 morti
(erano stati 13.155 a marzo e 15.081 ad aprile mentre erano scesi a 338 – il
punto più basso della curva annuale – a luglio).
Eppure si sapeva! Lo sapevano (!!!), che la “seconda ondata” ci sarebbe
stata. E più feroce della prima. L’avevano detto gli scienziati, l’avevano
scritto i giornalisti, l’avevano ripetuto i politici. “Torneremo alla
vita normale all’inizio dell’estate, verso giugno. Ma attenzione all’effetto
rebound, cioè alla seconda ondata di ritorno del virus che potrebbe esserci in
autunno”, aveva anticipato, già il 17 marzo, il virologo Fabrizio
Pregliasco, presente su quasi tutti i canali televisivi. “Una seconda
ondata di epidemia in autunno più che un’ipotesi è una certezza” aveva
confermato un mese esatto più tardi il consulente del ministro della Salute,
Walter Ricciardi. “Seconda ondata in autunno? Non possiamo avere certezze,
ma dobbiamo considerarla possibile… Credo anche però che il nostro Paese sia
oggi più forte di quanto lo fosse a febbraio, in primis perché conosce meglio
l’avversario con cui si confronta”, aveva sintetizzato a luglio il
ministro Speranza. Il quale però, tre mesi più tardi, il 22 di ottobre, nel
corso di una “storica” seduta del Consiglio dei ministri sarebbe stato
costretto a rimangiarsi le affrettate speranze. E ad alzare bandiera bianca
ammettendo che, nell’ultima settimana, aveva dovuto registrare una media di
oltre 7.000 nuovi casi al giorno, in tutto quasi 50.000 “non riconducibili a
catene di contagio note”. E alla domanda di un ministro – “che cosa significa?”
– aveva risposto “Significa che non sappiamo dove si sono contagiati”. Era la
dichiarazione di una resa.
All’origine ci sta, certo, la “pazza estate” italiana: quella stagione
sconsiderata in cui, con la superficialità suicida di chi confonde i propri
desideri con la realtà, e proclama lo scampato pericolo quando il peggio deve
ancora arrivare, ci si abbandonò a un “liberi tutti” compulsivo,
psicologicamente malato, da ubriachi sul ponte del Titanic. Ci stanno le
discoteche aperte e affollate di folle sudate e appiccicate, le spiagge
assaltate all’insegna del “non ce n’è coviddi”, le movide intasate da gente
senza meta, i bus e i treni vacanzieri stipati da folle a cui era stato
addirittura destinato un “bonus turismo” finanziato con 30 milioni di euro. E
prima ancora le zangrillate sulla “morte clinica” del virus, gli sgarbi quotidiani,
le esibizioni ganasse del briatore di turno, ostentazioni di un infondato
superomismo sanitario buono per il gossip. Una fiera delle vanità in tempi
mortali che ha disarmato mentalmente un Paese già di per sé privo di serietà e
di senso del tragico. Interessi pelosi e passioni tristi, in cui si è distinta
la Confindustria di Carlo Bonomi, che non ha smesso un solo giorno di invocare
l’apertura di tutto e contrastare ogni necessaria chiusura.
Ma prima e sotto c’è qualcosa di più grave e profondo. C’è il collasso
sistemico della nostra architettura istituzionale, costruita sull’asse Stato
centrale – Regioni e implosa, appunto, per il cedimento strutturale di
quell’asse lesionato fin dall’origine e frantumato dal virus. Oltre che per il
rivelarsi, nel momento dell’emergenza, dei vizi storici di una pratica di
governo abituata a separare sistematicamente il momento della decisione da
quello dell’esecuzione nell’illusione che una volta deliberata una politica sia
destinata ad attuarsi, come se l’intendenza, napoleonicamente, necessariamente
dovesse seguire… Chi ne volesse una dimostrazione “in vitro”, eloquente come
una prova di laboratorio, può leggersi il documento che lo stesso Ministero
della salute in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e con il
Dipartimento della Protezione civile ha elaborato e pubblicato il 12 ottobre
sotto l’impegnativo titolo “Prevenzione e
risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di
transizione per il periodo autunno-invernale”, con l’intento
dichiarato di formulare le linee guida per un’efficace “preparedness” –
la chiamano proprio così, con un anglismo, forse per rendere più autorevole
l’enunciato -, cioè per arrivare “preparati” a ciò che si prevedeva ci
aspettasse. Contiene tutto ciò che si è fatto (e che, come si vedrà, non ha
funzionato), e tutto ciò che non si è fatto (e che, rebus sic stantibus,
probabilmente non si sarebbe potuto fare, non per impossibilità in sé, ma per
la natura – inadeguata – delle strutture istituzionali e del personale
politico-amministrativo coinvolti). Un repertorio di buone intenzioni ben
ordinato in “8 pilastri” – 1.Coordinamento nazionale; 2.Pianificazione e
monitoraggio; 3.Comunicazione del rischio e coinvolgimento della popolazione;
4.Sorveglianza, team di risposta rapida, indagine sui casi; 5.Punti di
ingresso/sanità transfrontaliera; 6.Laboratori nazionali; 7.Infection
Prevention and Control; 8.Gestione clinica dei casi, Supporto operativo e
logistica -, che costituiscono, ognuno, una sorta di cartina al tornasole per
rivelare la distanza che passa tra il necessario e il possibile. O, forse
meglio, tra l’indispensabile e il praticato, rivelando come il Paese si sia
trovato a combattere il proprio secondo round col virus praticamente a mani nude
e costituendo un utile filo d’Arianna per attraversare il labirinto delle
politiche pubbliche per il “contenimento e la mitigazione” della Pandemia nelle
loro diverse tappe e sezioni (Repubblica l’ha utilizzato sintetizzandolo in un
lungo Report intitolato, con buone ragioni, Il naufragio).
Si può cominciare dalla celebre Immuni – “l’app che non parla a nessuno” –
lanciata con gran pompa e fanfare nel corso della prima ondata (con buone
ragioni, essendo in teoria uno strumento utile per quel contact tracing –
ovvero per il tracciamento dei contagi – indispensabile a contenere il ritorno
del virus individuando i nuovi focolai), e poi lasciata a se stessa,
dimenticata e sconnessa dagli altri nodi di rete essenziali al suo
funzionamento effettivo. La App non “parlava” con i laboratori di analisi dei
tamponi (la miglior fonte per segnalare i casi di positività: tant’è vero che
in Germania per il 70% sono collegati con la relativa applicazione), ma nemmeno
con i diversi – e diversificati – sistemi di prevenzione regionali: non forniva
loro notizie su nuovi casi di positività e non ne riceveva da loro. Era un
nodino di rete inerte, senza alcun automatismo comunicativo. Una monade
leibniziana. E d’altra parte difficilmente avrebbe potuto farlo dal momento che
ognuna delle 220 Asl italiane usa un sistema di tracciamento e di gestione dei
dati diverso (da regione e spesso anche nell’ambito di una stessa regione),
alcuni con software sofisticati, altri con semplici fogli excell, qualcuno
forse con carta e matita. Né hanno mai neppure immaginato di conformarsi alla
richiesta dell’Associazione italiana di epidemiologia che chiedeva urgentemente
di “uniformare in tutto il Paese la raccolta dei dati, inclusa l’unificazione
delle schede informative”; mantenere “a un buon livello i sistemi informativi
regionali garantendo la loro interoperabilità, attualmente inesistente”;
adeguare “alla nuova fase le piattaforme di sorveglianza, per consentire di
raccogliere le informazioni necessarie a descrivere le nuove catene di contagio
(contesti di esposizione, ambiti lavorativi, esecuzione di test sierologici)”.
Sono rimaste isole di un arcipelago senza natanti. Inoltre i “Dipartimenti di
prevenzione” a cui la gestione dell’App era stata affidata, erano rimasti
drammaticamente sguarniti. Delle 3.000 nuove assunzioni di tracer,
previste e deliberate fin da maggio nel primo articolo del decreto
“Rilancio”, ne erano state realizzate dalle Regioni competenti entro
ottobre appena 310(!). Sottodimensionati, in deficit di personale e di risorse
, subissati di richieste di diverso tipo, i Dipartimenti non hanno neppure
incominciato a organizzarsi per rispondere alle domande e alle richieste
che arrivavano dai diligenti cittadini che avevano scaricato Immuni. Così chi
si fosse azzardato a chiamare nel caso assai raro in cui avesse ricevuto un
“allarme” si sarebbe trovato a fare una telefonata nel buio, appeso al segnale
di mancata risposta e prima o poi l’avrebbe disinstallato. Mentre a Roma, nella
smemoratezza, già si pensava ad altro. Si spiega in questo modo la ragione per
cui a fronte di 10 milioni di download ci siano state solo 800
segnalazioni…
Si può continuare con l’altro pilastro della prevenzione e della
moderazione della pandemia: la sanità territoriale. Avrebbe dovuto costituire
la linea forte della “preparedness”. Tant’è vero che il già citato rapporto del
Ministero della salute, dell’Iss e della Protezione civile, a proposito del
Pilastro 1, nel paragrafo dedicato alle “Iniziative per rafforzare la
preparazione alla stagione autunno-invernale”, la pone al primo posto, facendo
diretto riferimento al “seminale” Decreto rilancio – ovvero al DL. 34/2020 del
19 maggio il quale, a sua volta, dedicava il suo primo articolo (strutturato in
11 densi commi) proprio alle “Disposizioni
urgenti in materia di assistenza territoriale”. Restò in buona parte
lettera morta. O, meglio, un repertorio di atti mancati, inadempienze,
negligenze e omissioni. Letti oggi, col senno di poi, quegli 11 commi, fanno
cadere le braccia. Sulla carta sono perfetti. Indicano esattamente ciò che si dovrebbe
fare per arrivare “preparati”. E per ogni voce destinano la relativa dotazione
finanziaria, anche con una certa generosità, facendo cadere decennali vincoli
di bilancio e radicate avarizie. Vi si immagina in primo luogo la possibile
attivazione di “contratti di locazione di strutture alberghiere ovvero di altri
immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità” per ospitarvi in
isolamento i casi di positività non bisognosi di ricovero ospedaliero. Poi
l’integrazione dei Centri di prevenzione con la rete dei medici di base al fine
di monitorare capillarmente i contagi e favorire l’assistenza domiciliare nei
casi meno gravi, nonché l’assunzione di un congruo numero di assistenti
infermieristici (8 ogni 50.000 abitanti) a supporto di questa attività insieme
di monitoraggio e di cura. A fianco di ciò la formazione di un’altrettanto
capillare rete di Unità speciali di continuità assistenziale (le USCA,
termine che ricorda più un’esclamazione che un acronimo, ma tant’è), cioè di
squadre di operatori sanitarie (medici e infermieri specializzati) dotati delle
protezioni e delle attrezzature terapeutiche adeguate per azioni di pronto
intervento al domicilio. Infine, last but not least, la costruzione
di “centrali operative” destinate a svolgere le funzioni in raccordo con tutti
i servizi e con il sistema di emergenza-urgenza, anche mediante strumenti
informativi e di telemedicina”. A supporto di tutto ciò veniva stanziata la
cifra (non piccola) di 1.256.633.983 euro di cui circa 840 milioni per l’hoteling e
la medicina di base e circa 400 per le USCA, per i cosiddetti “infermieri di
famiglia o di comunità” e, in generale, “per potenziare la presa in carico sul
territorio dei soggetti infettati da SARS-CoV-2 identificati COVID-19”; e
venivano anche indicate nel dettaglio le figure contrattuali e i possibili
scostamenti di bilancio degli enti coinvolti, autorizzando anche il
reclutamento di professionisti e lavoratori autonomi o contratti di
collaborazione coordinata e continuativa. In particolare 10 milioni erano
riservati al reclutamento del personale infermieristico a disposizione dei
medici di base, 72 milioni per le “centrali operative”, 35 per i Covid-Hotel,
61 per le USCA e 14 per i contratti “atipici”… Un piano dettagliato, dunque,
con un unico – ma mortale – limite: tutte quelle iniziative avevano come
necessario medium – come anello di congiunzione tra Stato centrale e territorio
– le Regioni e le Province autonome del Trentino Alto Adige. Porti delle
nebbie, in cui ogni buona intenzione si è infranta su invisibili scogliere.
Nell’estate pressoché nessuna amministrazione regionale si era mossa alla
ricerca di Covid-Hotel, e solo alla metà di ottobre risulta che abbiano
incominciato a muoversi in ordine sparso. Analogamente per la telemedicina,
indispensabile per il tracciamento dei contagi: nei piani territoriali e
centrali non se ne trova cenno. E quanto alle USCA, delle 1200 previste
all’esplodere della seconda ondata nessuno – né a livello centrale né a livello
territoriale – aveva idea di quante fossero state attivate: si ipotizza un 50%,
ma è appunto un’ipotesi, anche perché il personale a loro riservate non è stato
né assunto né reperito. Degli 8.600 infermieri e operatori sanitari previsti,
solo un decimo – all’incirca un migliaio – era stato reclutato. Per negligenza,
certo, ma anche perché integravano figure professionali relativamente rare e
con tempi di formazione medio-lunghi.
Meglio non è andato alla materia di cui all’art. 2 di quel decreto,
dedicato al “Riordino della rete ospedaliera in emergenza COVID-19”: quella che
potremmo chiamare la “linea del Piave” della lotta contro il Sars-CoV 2,
destinata a diventare operativa nel caso di sfondamento della prima linea di
resistenza costituita dal tracciamento e dal trattamento domiciliare dei contagi.
Anche qui le promesse erano ambiziose e le stesse dotazioni finanziarie
significative. Si stanziava infatti circa un miliardo e mezzo di Euro per
garantire in tempi brevi la dotazione di almeno 3.500 posti letto aggiuntivi in
terapia intensiva e di altri 4.225 in terapia sub-intensiva. Spese per altri
250 milioni circa erano autorizzate – “anche in deroga ai vincoli previsti
dalla legislazione vigente in materia di spesa di personale” – al fine di
coprire i costi aggiuntivi per il personale medico e infermieristico nel 2020,
a cui si aggiungevano altri 350 milioni per il 2021. Altri 25 milioni erano
stanziati per “implementare i mezzi di trasporto dedicati ai trasferimenti
secondari per i pazienti COVID-19, per le dimissioni protette e per i trasporti
interospedalieri per pazienti non affetti da COVID-19” e coprire i costi del
personale medico e paramedico necessario.
Tutto questo avrebbe dovuto essere oggetto di dettagliati “piani di
riorganizzazione” da presentare al Ministero entro 30 giorni dalla
pubblicazione del Decreto. Ma – come si legge nel rapporto Il naufragio –
“la maggior parte degli enti territoriali ha inviato entro il termine di fine
luglio una semplice lista con l’indicazione delle strutture da ampliare e
relativa previsione di costo”. Senza nessuna specifica, o progetto esecutivo.
Dei meri budget di spesa che gli uffici del Commissario Arcuri hanno dovuto
riscrivere da capo cosicché solo alla fine di settembre “la conferenza
Stato-Regioni ha dato via libera allo schema di attuazione”; solo il 2 ottobre
hanno potuto partire le prime gare (per 713 milioni con procedura d’urgenza);
solo “il 12 si sono chiuse le offerte a cui hanno partecipato più di 500
aziende” che nel caso migliore potranno iniziare i lavori solo alla metà del
2021… Né meglio è andata per l’acquisto delle ambulanze e delle auto mediche,
per le quali i termini per la presentazione delle offerte si sono chiusi il 3
di novembre… Risultato: a metà ottobre i posti-letto in terapia intensiva erano
6.458 (2.274 in meno rispetto a quelli previsti dal Decreto Rilancio), appena
un migliaio in più rispetto all’inizio del ’20; e quanto al personale medico, è
vero che sono state fatte 7.600 nuove assunzioni, ma si tratta nella quasi
totalità di contratti a termine, nella maggior parte da “liberi professionisti”
(di quelli che nell’ambiente si chiamano “usa e getta”) attivabili nel momento
acuto dell’emergenza e poi ci si saluta. Coprono a malapena il turn-over (sono
molti nella categoria quelli vicini alla pensione) e non è dato sapere quanti
tuttora siano in servizio. Mentre nel personale paramedico le assunzioni sono
state circa 16.000, un numero (solo) all’apparenza consistente, ma che compensa
appena la riduzione di personale seguita alla crisi del 2009-2011 (14.000
infermieri in meno) e non copre i feroci tagli al settore sanitario effettuati
tra gli anni ’90 e il primo decennio del secolo.
Infine c’è la coppia Scuola-Trasporti. Il grande buco nero della preparedness.
Non ci voleva la chiaroveggenza di Nostradamus per prevedere che la riapertura
delle scuole a settembre avrebbe messo sotto stress il sistema dei trasporti
locali e che i bus pieni sarebbero stati delle micidiali macchine di diffusione
del contagio. Che dunque i due settori avrebbero dovuto essere trattati in
sinergia, come parti di un unico problema. Invece la ministra Azzolina si è
concentrata esclusivamente sulla scuola e i suoi banchi per puffi, ripetendo
fino all’ossessione che le aule sarebbero state ambienti sicuri, ignorando che
tra le aule e le abitazioni c’è tutto un mondo (insicuro) da attraversare. E la
ministra De Micheli è stata a guardare, come se quello del trasporto fosse,
appunto, un problema esclusivamente locale, di formale competenza delle
Regioni. Le quali hanno dato, sul punto, il peggio di sé. In forma attiva,
chiedendo a più riprese di alzare la soglia massima di occupazione di posti su
autobus e treni. E in forma passiva, non utilizzando le risorse per il
potenziamento del parco rotabile e le procedure semplificate per aumentare
l’offerta di mezzi di trasporto.
Già il 23 giugno le cinque Regioni del Nord amministrate dal centrodestra –
Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia – avevano chiesto
alla ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, l’autorizzazione per lo
“riempimento dei bus fino alla capienza massima” (e tre giorni più tardi
Liguria e Veneto avevano firmato ordinanze per portare al 100 per cento i posti
occupabili). Ma soprattutto l’8 settembre – data esemplare – l’intero sistema
regionale ottenne che nel decreto “Trasporti aggiuntivi” la capienza massima
degli autobus fosse portata dal 50 per cento, come era stato stabilito al tempo
della prima ondata, all’80 per cento. “Su un mezzo da 16 metri vuol dire cinque
persone in piedi in un metro quadrato: margini da discoteca, altroché
distanziamento”, annoteranno i redattori de Il naufragio. E peggio
ancora faranno le Regioni tutte quante (quale più, quale meno, ma tutte al di
sotto della necessità) con l’utilizzo delle risorse a disposizione per il
potenziamento del servizio e del parco-mezzi, che pure non erano irrilevanti:
500 milioni di euro stanziati nel Decreto Rilancio per compensare le minori
entrate nella fase del lockdown e della riduzione al 50% dei posti occupabili.
E poi altri 300 chiesti in sede di Conferenza unificata Stato Regioni e
ottenuti, seppure nella forma dell’autorizzazione a metterli in bilancio con
garanzia di copertura da parte del Governo. Ebbene, di questi solo il 23% è
stato utilizzato (circa 70 milioni) per l’acquisto di poco più di 2.000 autobus
(una goccia nel mare se si considera che il parco mezzi del trasporto locale si
aggira sui 100.000 autoveicoli e che l’età media di essi supera gli 11 anni).
Forse si sarebbe potuto ovviare all’ignavia delle amministrazioni regionali con
qualche colpo d’ala “creativo” al centro, che so?, l’utilizzo a “prezzi
politici” dei mezzi delle società private (le migliaia e migliaia di pullman
che solitamente si prenotano per le gite scolastiche e che ora giacciono inerti
nelle autorimesse) nel quadro di una mobilitazione straordinaria di tutte le
risorse disponibili. O lo scaglionamento degli orari d’ingresso nei diversi
ordini di scuola. O l’istituzione di navette dedicate per istituto scolastico.
Qualcosa, insomma, che assomigliasse a un pensiero. Invece niente. La ministra
Azzolina ha continuato a ripetere come un organetto rotto che nelle scuole non
ci si contagia (ignara del fatto che la prestigiosa rivista Lancet ha
documentato come “le scuole siano uno dei principali riproduttori
dell’infezione: 18 per cento in quattordici giorni, 24 per cento in ventotto”;
e che da subito è saltato ogni possibile tracciamento, se è vero come è vero
che nella sola provincia di Bari, nelle prime due settimane dopo la
“riapertura” ben 236 classi sono finite “in quarantena, 4600 studenti, 20 mila
persone da tracciare” in pochi giorni, una mission impossible. La
ministra De Micheli ha lanciato qualche flebile lamento (“L’effetto del decreto
‘Trasporti aggiuntivi’ era preoccupante in maniera oggettiva”), poi si è
taciuta.
Questo lungo discorso per dire che non c’è innocenza nella tragedia della
“seconda ondata”. C’è una catena di colpe non egualmente distribuite, in cima
alla quale sta – con evidenza solare, solo a voler guardare – il pessimo
funzionamento dell’ordinamento regionale, nato male con la frettolosa legge 281
del 1970 e peggiorato colpevolmente con la famigerata riforma del Titolo V del
2001: la prima operazione di resilienza a cui metter mano, in senso ostinato e
contrario a ogni assurda richiesta di autonomia differenziata. Seguita a ruota
dall’atteggiamento governativo: non di “questo” governo, ma di tutti quelli che
si sono succeduti negli ultimi decenni, di tutta la classe di governo, vecchia
o nuova che sia dato che si tratta di un vizio che si apprende non appena
entrati nel Palazzo, e che illude che basti deliberare per governare, mentre il
diavolo si nasconde in ogni passaggio della catena che connette le policies decise
al centro alle tante, eterogenee periferie del sistema politico e del Paese.
Chi vende l’anima per entrare nella stanza dei bottoni (si pensi alla sorte
amara dei 5stelle) non sa che quei bottoni sono finti, che premuti non
rispondono in nessun luogo, se non ci si premura di attrezzare il percorso
delle norme e di presidiarne i passaggi.
So benissimo che la comparazione del numero dei contagi e soprattutto dei
morti da coronavirus tra i diversi Paesi è un’operazione scientificamente
incerta. Il numero dei contagi dipende strettamente dal numero di tamponi
eseguiti: maggiore la platea dei testati, maggiore il conto degli infettati. La
statistica delle morti (e il conseguente indice di letalità) è ancor più
variegata: alcuni Paesi, come Spagna e Francia, conteggiano i decessi da
SarsCoV-2 solo per gli ospedalizzati a cui sia stato fatto un tampone,
lasciando fuori dalla statistica i decessi avvenuti a domicilio e, per gli
iberici, anche nelle RSA; la Germania è stata sospettata di considerare vittima
da Covid solo chi non fosse affetto da comorbilità, il che spiegherebbe il suo
basso indice di letalità (accusa che il Robert Koch Institut ha respinto
sdegnosamente, senza tuttavia offrire dati statistici precisi sulle autopsie
eseguite). Nel Regno Unito si è iniziato assai tardi a registrare le morti da
Covid19 e si sono usati metodi di registrazione oscillanti come negli Stati
Uniti, dove spesso le comorbilità sono state utilizzare per escludere dal
conteggio i relativi portatori, mentre in Brasile il conteggio dei morti è del
tutto inaffidabile, condizionato com’è dal negazionismo di Bolsonaro e
dall’enorme numero di marginalità (quanti siano i decessi tra i nativi in Amazzonia
o nelle sterminate favelas nessuno lo sa). L’Italia ha da subito scelto di
conteggiare tutte le morti sia di chi fosse testato specificamente, sia di chi
(come nelle RSA) fosse stato contiguo a un ammalato, presentando dunque
risultati statistici particolarmente severi. Ma ciò non toglie nulla alle
fragilità di sistema che ha rivelato. Anche se anziché al secondo posto in
Europa e al quinto nel mondo per numero di morti ogni milione di abitanti
(peggio fanno soltanto San Marino, Belgio, Slovenia e Bosnia) fossimo,
mettiamo, al quarto e al decimo, ciò non toglierebbe nulla allo spettacolo
desolante delle inadempienze e dei vuoti mentali oltre che delle defaillances sistemiche
cui si è dovuto assistere.
Per questo motivo non riesco a gioire alla notizia, di per sé bella,
dell’arrivo del vaccino. Né a vedere come imminente l’uscita dal tunnel. Non per
sfiducia nella scienza, ma per diffidenza nella coscienza civile di questo
Paese. Per la sperimentata vocazione rivelata al masochismo politico, alla
diserzione amministrativa e alla desistenza morale: un Paese che danza sul filo
di una possibile crisi di governo mentre le zone rosse si allargano sulle sue
mappe e i numeri non ne vogliono sapere di tornare sotto controllo, che
garanzia può dare della propria capacità di gestire un processo complesso come
la somministrazione di milioni di dosi in pochi mesi? Un popolo che continua a
permettere alla propria classe politica (tutta intera, maggioranza e
opposizione) di giocare con la sua vita, che speranza può alimentare? Una
Nazione che non ha ancora capito che per salvarsi deve voltare radicalmente
pagina, e rifare al contrario tutto ciò che ha vissuto negli ultimi decenni,
che futuro può avere? Il vero vaccino, che potrebbe salvare chi sopravvivrà,
sarebbe quello che mutasse alla radice il DNA della nazione, rovesciandone la
decrepita e inguardabile autobiografia.
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