La didattica a distanza fa male – Carlo Tecce
La didattica a distanza fa male. Si ha paura a dirlo, per non sovrapporre i
drammi. Al ministero dell’Istruzione, però, lo sanno da mesi che quel rito
digitale conosciuto con la sgradevole sigla di “dad”, nel lungo periodo, fa
male agli studenti, riduce l’apprendimento scolastico, amplifica il disagio
sociale, genera disturbi psicologi.
Al ministero dell’Istruzione lo sanno perché da mesi, da agosto
soprattutto, sono sopraffatti da tabelle, ricerche, documenti riservati che
provengono anche dalla collaborazione col Consiglio nazionale dell’ordine degli
psicologi. L’ultimo aggiornamento è di gennaio, riguarda un dettagliato
sondaggio fra gli studenti. Così il ministero di Lucia Azzolina insiste fra le
mura sorde del governo: a distanza, ma se necessario, se la pandemia infierisce
ancora, non per pigrizia intellettuale, non per impreparazione amministrativa.
Non sarebbe perdonabile. Il ministero dell’Istruzione, solo, si muove con
ostinazione per i diritti degli studenti in un momento di doveri e il governo
giallorosso, mai tanto compatto su un punto, reagisce infastidito. Come se non
sopportasse questa ragionevole ostinazione. Allora si litiga e ci si confonde.
Qualcuno ha pensato alle conseguenze. «Il virus fa chiudere la scuola. La
prevenzione non si contesta. Però la scuola chiusa apre nei ragazzi grosse
ferite. Quelle invisibili, le più insidiose. Non facciamo finta che non
esistano», racconta il dottor David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale
dell’ordine degli psicologi. Lazzari cura le ferite invisibili, scandisce
concetti pietrosi con quel tono lieve dei professionisti che illustrano un
evento medico ai neofiti, storditi al primo assaggio di dolore.
Sin da agosto gli psicologi italiani supportano il ministero
dell’Istruzione e con la solita fatica, per l’irreversibile lentezza della
burocrazia, aiutano presidi e docenti a scovare e sanare le ferite invisibili
degli studenti che siedono in aula con la mascherina chirurgica oppure alla
scrivania della cameretta per la “dad”: «Il nostro compito è intervenire in
tempo sugli studenti per scongiurare le cicatrici e tutelare l’apprendimento. I
dati che abbiamo raccolto – anche per il ministero di viale Trastevere – ci
svelano che fra i ragazzi costretti a casa c’è un senso diffuso di stress,
nervosismo, irritabilità e depressione», afferma Lazzari.
Gli adolescenti, i più colpiti, hanno messo in pausa completa l’esistenza e
ogni annuncio del tal ministro o tal governatore di rientro in classe, più o
meno attendibile, una volta anticipato, una volta posticipato, non fa che
accrescere un sentimento di estrema precarietà. La scuola come luogo di
trasmissione del contagio, o forse no, non troppo. Tutto è vago. Tutto è vario.
Le conseguenze non lo sono.
Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, assieme a una società
di indagini demoscopiche, a dicembre ha svolto per il ministero un’analisi
trasversale alla popolazione scolastica con una serie di quesiti preparati dal
proprio centro studi. Lazzari e colleghi hanno coinvolto gli alunni dalla
materna alle superiori e anche i genitori: «Le nostre paure sono confermate: la
pandemia ha scatenato disagi che velocemente si trasformano in disturbi. La
didattica a distanza acuisce i pericoli, non ne abusiamo con leggerezza».
Nascondere l’evidenza
Chissà se il governo di Conte pensa alle conseguenze, mentre colora le regioni,
sparge tappeti igienizzanti per le suole e scomodi banchi a rotelle. Chissà se
le regioni ci pensano, soprattutto quando invocano poteri e con fiera autorità
serrano le scuole, come esclusiva e valida soluzione ai mali del virus. Il
ministero di Lucia Azzolina un po’ ci ha pensato e dallo scorso agosto ha
intensificato i contatti con gli psicologi.
Il 9 ottobre il ministero ha firmato un protocollo d’intesa con il
Consiglio nazionale e lì ha esposto, in forma chiara, ignorata ai più, i suoi
indicibili timori: «Si intende realizzare una serie di attività rivolte al
personale scolastico, a studenti e a famiglie, finalizzate a fornire supporto
psicologico per rispondere a traumi e disagi derivanti dalla pandemia. Si
ritiene necessario predisporre un servizio di assistenza psicologico. Si
intende avviare azioni volte – si legge ancora nel documento ufficiale – alla
formazione dei docenti, dei genitori e degli studenti, in maniera da
affrontare, sotto diversi punti di vista, le tematiche riguardanti i corretti
stili di vita e la prevenzione di comportamenti a rischio per la salute nonché
avviare percorsi di educazione all’affettività».
Queste premesse, firmate da Azzolina e controfirmate da Lazzari, si sono
tramutate in un fondo di 40 milioni di euro per gli oltre 8 milioni di studenti
distribuiti in 8.290 istituti. Più un timido approccio che un progetto
ponderoso. Di certo più di niente. Il 26 ottobre il ministero ha inviato una
circolare ai dirigenti scolastici per le indicazioni sui bandi da attivare
entro il 31 dicembre. Alla vigilia di Natale ne ha spedita un’altra per
convincere i più scettici: «Circa l’ottanta per cento degli istituti scolastici
ha aderito. Alcuni hanno già iniziato a novembre, altri avranno presto lo
psicologo a scuola per operazioni individuali o collettive», commenta Lazzari,
che sul tema si è confrontato con Agostino Miozzo, il capo dell’ormai noto
Comitato tecnico scientifico (Cts), il gruppo di consulenti sulla pandemia del
governo.
Internet non è il sapere
«Imparare da remoto è una sfida. I ragazzi generalmente imparano quando sono
coinvolti attivamente e in ambienti in cui si sentono al sicuro e socialmente
connessi. Imparare a distanza richiede un livello di attenzione sostenuta e un
grande controllo emotivo. La richiesta è per tutti: studenti, insegnanti e
genitori», ha spiegato alla rivista della Harvard Chan School la ricercatrice e
psicologa americana Archana Basu, istruttrice della divisione di psichiatria
infantile e dell’adolescenza al Massachusetts General Hospital, assai stimata
dagli psicologi italiani. Questo era il preambolo. Questa è la conclusione di
Basu: «La nostra sicurezza fisica e sociale è messa a dura prova. L’abbiamo
chiamata scuola da casa, ma è una scuola di “crisi” a casa. Le preoccupazioni
per la sicurezza sollecitano il sistema limbico, che può interferire con
l’apprendimento». Lazzari insorge: «Per favore smettiamola di parlare di
didattica a distanza. Nessuno ha preparato le famiglie, gli studenti, gli
insegnanti a un’esperienza così pesante. Non basta un abbonamento gratuito a
internet per espletare il compito. Qui si tratta di lezioni seguite davanti a
uno schermo senza alcun coinvolgimento. L’aula di una scuola è lo spazio di
eccellenza per la crescita psicologica e non abbiamo surrogati. Noi siamo
indotti a credere che la scuola sia un contenitore di informazioni e nozioni.
Se fosse così, sarebbe obsoleta. Invece la scuola ha una funzione fondamentale
per strutturare le competenze psicologiche che ci offrono flessibilità,
credibilità, maturità, capacità di fronteggiare le varie situazioni che la vita
ci pone. E lo Stato non ha altre leve per allenare al meglio la sua società di
domani».
L’associazione degli psicologi americani ha diffuso un prontuario per
tentare di semplificare una missione improba degli insegnanti: decifrare i
segnali di malessere che arrivano dagli studenti attraverso un collegamento a
una piattaforma digitale e non alla tradizionale lavagna e poi rivolgersi agli
specialisti. «La pandemia ha causato molta preoccupazione. Questi fattori di
stress – scrivono – possono provocare problemi di salute mentale a chiunque e
la comparsa di sintomi acuti per chi ne soffre già». Lazzari fa un’osservazione:
«Non mi spendo in una lotta di categoria, sarebbe immorale, ma vorrei precisare
che la rete psicologica pubblica italiana è insufficiente: abbiamo 8,4 dottori
su 100.000 abitanti contro i 49 dei francesi».
La commissione paritetica composta da funzionari ministeriali e psicologi
dell’Ordine ha ricevuto molte segnalazioni di criticità dagli insegnanti e
dagli esperti che operano nelle scuole; tant’è che il 24 novembre, dopo un
incontro di Azzolina con Lazzari al dicastero di Viale di Trastevere, si è
deciso di accelerare i buoni propositi del protocollo d’intesa.
In fondo alla lista
Il Comitato tecnico scientifico è consapevole dei rischi generati da un massivo
(eccessivo) utilizzo della cosiddetta didattica a distanza per gli adolescenti.
Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi ha sempre riferito al Cts di
Miozzo che la scuola è una priorità delle ripartenze, anche se non si tramuta
in immediati benefici sul prodotto interno lordo, semmai sul futuro capitale
umano dell’Italia. Il Cts annuisce, il governo pure, ma soltanto per la
capienza degli autobus si è discusso senza esiti per mesi. Ci sono condizioni
generali e oggettive che impediscono l’ingresso a scuola in alcuni periodi di
particolare virulenza della pandemia, ma da subito, dal 3 marzo 2020, la scuola
è stata spinta ad arrendersi al virus. E non si è più riavuta. I ragazzi dai 13
ai 19 anni, che da marzo non sono riusciti più a mettere piede a scuola, tranne
chi ha fugacemente partecipato all’esame di Stato, rapido come i tamponi
antigenici, in un sondaggio di settembre promosso dagli psicologi, per la
maggior parte si sono dichiarati ottimisti sul ritorno alla normalità dopo la
fine della pandemia. Poi le speranze, e anche le sensazioni positive, come
dimostra l’ultima rilevazione, si sono rarefatte. Chiosa Lazzari: «I ragazzi
adolescenti sono palazzi in costruzione, sono i più facili da riparare, ma
anche quelli che patiscono i danni maggiori da un fenomeno avverso. La pandemia
gli ha sottratto un pezzo di mondo come al resto della popolazione, ma la loro
specifica fragilità ci obbliga a una reazione migliore, più efficiente. Un modo
per non avere rimpianti è valutare ciò che accade quando li lasciamo al
computer per una lezione di matematica e l’altro modo è dirsi la verità».
Pensare alle conseguenze.
A volte ritornano - Chiara Valerio
Non esiste la classe docente ma il docente, da solo
11 gennaio, ore 16
Non se ne può più di queste/i studenti delle superiori che scrivono lettere
in cui dicono di voler tornare a scuola, e mi manca la compagna di banco, e
quanto mi manca la ricreazione, e quanto mi piaceva sentire suonare la
campanella, e quanto erano belle le verifiche, e di qua, e di là. Fatevene una
ragione: LA-SCUOLA-SUPERIORE-È-CHIUSA-FINO-A-DATA-DA-DEFINIRE
2 gennaio 2021
Il rumore dei botti di Capodanno mostra che il nuovo anno nasce tra aspettative
esagerate. Intanto, tra pochi giorni gli studenti delle scuole superiori
rientrano a scuola. Questa nuova pagina si intitola «A volte ritornano» perché
si basa sulla previsione di come sarà la scuola di qui (in realtà da settembre
del 2020) ai prossimi due-tre anni: lunghi periodi di confinamento domestico (e
didattica a distanza) interrotti da periodi più brevi di scuola in presenza, a
singhiozzo, con percentuali variabili, banchi monoposto che si spostano per i
corridoi, tanta isteria collettiva.
3 gennaio
Trascrivo quello che si diceva riguardo alla riapertura delle scuole superiori
intorno al 3 gennaio 2021. E mancavano ancora quattro giorni. Bisognava prima
vaccinare il personale scolastico. Se va bene il personale scolastico sarà
vaccinato entro luglio, prima i soggetti a rischio e poi tutti gli altri. Si
riapre a settembre. Se va bene. Ma rendiamoci conto. La curva dei contagi è
maggiore rispetto a settembre (Ci sono anche dei grafici a supporto di questo
argomento, con le casette più alte, più alte, sempre più alte). C’è questa
ostinazione sulla riapertura per il 50% degli studenti il 7 gennaio nonostante
il parere contrario degli scienziati, nonostante l’evidenza. Non si riapre, non
ci sono le condizioni. I presidi questa volta sono con noi. Il ritorno a
scuola, in queste condizioni, resta un’incognita: chiediamo dunque che venga
ascoltata anche la voce di noi docenti. Far entrare i ragazzi alle 10 e uscire
alle 18 sconvolgerebbe il loro equilibrio psicofisico. I ragazzi tornerebbero a
casa nel tardo pomeriggio, senza aver consumato un pasto vero, senza il tempo
adeguato per lo studio, lo sport e il riposo (quanto è sano mangiare un veloce
pasto freddo, seduti alla cattedra o al banco?). Tenere docenti e discenti
fermi dietro banchi e cattedre in aule mal riscaldate e con le finestre aperte
è una pura assurdità. Non sembra proprio che gli estensori del piano per la
riapertura in presenza si rendano conto delle insormontabili DIFFICOLTÀ
ORGANIZZATIVE. Non sembra proprio che si rendano conto delle CARENZE
STRUTTURALI DI FONDO. Erano anni che i docenti non producevano una così gran
mole di documenti, lettere aperte e appelli. Per continuare a fare lezione in
ciabatte. Anzi in pantofole perché nel frattempo è arrivato l’inverno.
4 gennaio
Riassumendo: non si può tornare a scuola (alle superiori) per: la curva dei
contagi, la variante inglese del coviddi, la distanza tra le rime buccali,
l’inefficienza dei trasporti, i tagli all’istruzione, le strutture fatiscenti
(carenze strutturali di fondo), le classi pollaio, gli orari scaglionati (chi
fa l’orario ne sa qualcosa), il sabato io faccio le lavatrici, fare lezione con
la finestra aperta non è didattico, un pranzo freddo durante una ricreazione
non è didattico, fare lezione con sciarpa e cappello non è didattico, lo faccio
per i ragazzi (va sempre bene), il vaccino non è pronto, e, last but not least,
LA NEVE!!!!
5 gennaio
A volte ritornano non più il 7 gennaio ma l’11, e in alcune regioni a febbraio.
È la strategia di Don Abbondio. Vedi cosa scrive Alessandro Manzoni nei
«Promessi sposi» (cap. 2): «Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o
il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a
proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se
posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi
di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose».
6 gennaio
La narrazione sulla DaD in 5 passaggi.
A marzo-aprile si diceva che la DaD non è scuola, poi si è cominciato a dire
che la scuola in presenza è meglio però la DaD ha salvato molte vite umane, a
giugno c’è stato l’intermezzo dell’esame e hanno cominciato a piovere appelli
contro l’inutilità dell’esame, ora si dice che la scuola non è mai stata
chiusa, basta con la retorica della scuola in presenza meglio della DaD
(d’altra parte noi lavoriamo lo stesso), la DaD è relazione e empatia (come
l’orgasmatico di un noto film di Woody Allen), che si può continuare finché non
sarà passata l’emergenza (due anni? Tre?). Tra un po’ si dirà che la DaD è
meglio della scuola in presenza, che non abbiamo capito nulla, siamo vecchi
dentro, continuiamo a difendere una civiltà arcaica che non esiste più.
Epilogo: tra un po’, non subito, non ci sarà più nessuno a dire che la DaD
è relazione, che è come la scuola in presenza, basta con la retorica, perché
l’insegnante, ormai inutile, sarà stato sostituito da una banca dati.
11 gennaio
La DaD fa venire il mal di pancia a qualcuno di Confindustria (e fondazioni
collaterali). Scrivono gli ideologi della scuola tecno, che la didattica a
distanza provoca buchi nell’apprendimento fino al 50 per cento, ne certificano
il fallimento, chiedono persino di riformulare il calendario scolastico per
permettere alle/agli studenti di recuperare il tempo perduto. «Un danno
enorme», scrive il Sole 24 ore, e chissà perché: «Le carenze maggiori si sono
registrate in studenti dal background più svantaggiato». E persino: «L’ampio
ricorso alla DaD, oltre che sulle competenze, avrà effetti negativi sui
comportamenti e l’emotività dei nostri giovani che stanno perdendo in relazioni
e socialità». Si dirà: Confindustria misura i buchi di apprendimento con i
propri sistemi (anche se noi possiamo toccarli con mano, e fare finta di non
vederli), e ha i propri scopi, ma il messaggio è chiaro: il ministro
dell’istruzione non sta facendo nulla per evitare «l’ampio ricorso alla DaD».
Gli unici veri sostenitori della didattica a distanza, ormai, sono gli
insegnanti che non vedono possibile tornare a scuola a nessuna
condizione, e discutono se sia più didattico fare lezione in classe con il
cappello e la sciarpa o a casa con la felpa e le pantofole.
Didattica, presenza e distanza - Leonardo (Dino) Angelini
1. Secondo il vocabolario Zingarelli per “didattica”
s’intende il «settore della pedagogia che ha per oggetto lo studio dei metodi
per l’insegnamento». Quindi la didattica è un metodo di lavoro che ogni docente
apprende lungo il proprio percorso di crescita professionale.
L’atteggiamento teoreticista che ha caratterizzato per
un lungo tratto di tempo larga parte dell’università italiana ha favorito il
consolidarsi di una didattica che fino a poco tempo fa ha sottovalutato
l’importanza di una formazione dei docenti incentrata sul rapporto fra apprendimento
teorico ed esperienza pratica.
Ciò non ha impedito ai docenti di acquisire sul campo,
cioè a partire dalla propria esperienza, una sensibilità alle questioni di
metodo d’insegnamento. Da varie analisi svolte sul campo nel ventennio scorso
emerge con chiarezza che nella storia individuale di ciascun docente sia la
vocazione all’insegnamento, sia il processo di interiorizzazione della
didattica che poi saranno alla base dei loro metodi d’insegnamento, avviene su
base individuale, per ispirazione o in opposizione a modelli derivanti dalla
propria storia personale di discenti, di figli, di lettori, etc. E poi
embricando ciò che deriva da queste “primitive” esperienze con la propria
pratica quotidiana e, almeno per molti docenti, in base ai precetti forniti dai
vari gruppi di mutuo-aiuto presenti sia a livello locale, sia a livello
nazionale.
Questo personalissimo lavorìo dà luogo a una vera e
propria foresta delle didattiche che sarebbe riduttivo vedere
solo come il tentativo di riparare alle carenze che su questo piano mostrano da
sempre il nostro legislatore e la nostra accademia. Guardando al fenomeno più
da vicino, infatti, si nota innanzitutto che tutti i docenti ‒ anche coloro che
sono capitati a scuola per caso ‒ nel momento in cui si ritrovano a insegnare
scoprono di essere abitati da sempre da individualissimi “personaggi della
formazione”, cioè dall’insieme degli introietti e delle proiezioni che derivano
da coloro che hanno fatto da modello lungo il percorso di crescita individuale
e professionale di ognuno, e che fra l’altro ‒ come dicevamo prima ‒
costituiscono la base di partenza dei loro metodi d’insegnamento. Ciò da una
parte permette loro di non aderire a un cliché e di costruirsi
un modello sentito come proprio. Dall’altra li espone alla de-idealizzazione e
al burnout più facilmente di quanto lo siano coloro che
aderiscono a un modello standard di didattica.
Da queste considerazioni sulla didattica discende un
importante corollario: ogni docente nel momento in cui insegna una qualsiasi
materia a un discente contemporaneamente lo “segna di sé” contribuendo fra
l’altro, insieme alle persone più importanti che nel proprio percorso di vita
il discente incontrerà, alla definizione del profilo del suo specifico
“personaggio della formazione”.
2. La stragrande maggioranza dei docenti oggi tende
a contrapporre la didattica in presenza a quella digitale. La natura difensiva
di questa improvvisa opposizione manichea appare evidente laddove si consideri
da una parte l’elemento di straordinarietà rappresentato da questo oggi pervaso
in maniera funerea dalla pandemia; dall’altra la pulsione al riduzionismo cui
per le stesse funeree ragioni è sottoposta la parola “presenza”.
Prima che calasse su di noi la pandemia c’è stato
infatti sul campo un insieme di riflessioni e di sperimentazioni intorno al
rapporto fra operatività scolastica in presenza e nuove opportunità offerte dal
digitale. Protagonisti di questi dibattiti e di queste sperimentazioni sono
stati ricercatori e docenti appartenenti all’ultima generazione di “nativi
Gutenberg”, preoccupati delle difficoltà derivanti dal fatto di rivolgersi alla
prima generazione dei “nativi digitali” elaborando una didattica nuova, capace
di sfruttare appieno le nuove opportunità comunicative legate alla
digitalizzazione. Nel frattempo l’Istituzione Scolastica centrale (il Ministero
e i suoi derivati) per lo più si era limitata a informatizzare uniformemente le
amministrazioni scolastiche, in un’ottica di standardizzazione delle procedure,
utilissima sul piano amministrativo, ma ovviamente basata su criteri opposti a
quelli della sperimentazione.
L’arrivo della pandemia non solo ha imposto
all’improvviso di superare a piè pari la logica sperimentale che aveva
caratterizzato negli ultimi decenni l’azione dei docenti sul campo ma, sulla
spinta dell’emergenza, ha prodotto una specie di invasione di campo, attraverso
l’imposizione da parte dell’istituzione scolastica di quelle logiche standard
che sul piano amministrativo avevano un senso, sulla definizione delle linee di
una didattica digitale ne hanno uno opposto. Ciò ha provocato un irrigidimento
dei docenti e l’assunzione di una posizione difensiva che potrebbe condurre
alla dispersione di tutto il patrimonio di sperimentalità che aveva
caratterizzato finora l’azione di molti docenti e sperimentatori sul campo.
3. Ho lavorato come psicologo dal 1974 al 1985 in
un luogo ‒ Correggio, Reggio Emilia ‒ in cui in quel tempo c’erano molte madri
che lavoravano a domicilio. La spirale dell’autosfruttamento che facilmente
alligna dovunque ci sia lavoro a domicilio remunerato a cottimo, le spingeva ad
ampliare ad libitum il tempo dedicato al lavoro anche quando
in casa c’erano dei figli piccoli da accudire. Per cui era facile in questi
casi trovarsi di fronte a una scena in cui nella stessa stanza c’erano i figli
piccoli della madre lavorante a domicilio e lei di fronte a loro presa
totalmente dal proprio lavoro. Lo scarso spessore di questa presenza traspariva
dai vari problemi psicologici che emergevano sia in lei che nei suoi figli.
Questo è quanto mi viene in mente allorché si
contrappone la didattica in presenza a quella in distanza. Lo spessore della
presenza, infatti, non è legato alla compresenza fisica quanto alla
complanarità psicologica, cioè al fatto che ci sia uno scambio basato su quel
“ricevere mentalmente” (dek) che è alla radice sia della parola “docente” che a
quella “discente”. Per cui nulla può impedire a un docente di disporsi nei
confronti dei propri discenti come una presenza assente (come accadeva nei
famosi doposcuola del maestro di Vigevano!). Così come nulla impedisce di
pensare che, prima o poi, possano scaturire mille didattiche capaci di dare
spessore e profondità alla “presenza in distanza” (come del resto sta
affannosamente avvenendo in questi mesi attraverso webinar, conferenze online
etc.).
Certo è che noi per ora conosciamo bene solo la
didattica in presenza; siamo capaci di darle un timbro personale che abbiamo
introiettato e che poi abbiamo fatto nostro in itinere; sappiamo
come trasmettere in presenza il nostro sapere alle generazioni che vengono dopo
di noi; e a volte siamo coscienti che non è solo questo sapere che passa, ma
anche qualcosa di noi stessi che si trasmette attraverso l’esempio. Ma non
credo assolutamente che questo, prima o poi, non possa essere riprodotto
attraverso una messa a punto di una didattica basata sulla “presenza in
distanza”. Ci sarà sicuramente bisogno di tempo. Probabilmente la cosa sarà
facilitata allorché questa prima generazione di nativi digitali sarà diventata
adulta e per-ciò capace di passare dal terreno della discenza a quello della
docenza. Ma spero che, passata la pandemia, coloro che fanno scuola oggi
sappiano riprendere una posizione critica e sperimentale nei confronti del
digitale.
Post scriptum: sicuramente la didattica a distanza è profondamente
classista! Non dimentichiamo però che ciò non fa altro che confermare il
crogiolo classista presente in classe e nella società.
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