Martina Fuga, 50 anni, Milano, madre di Giulia, Emma e Cesare. Emma è affetta da sindrome di Down
"Prova
a dire in tv la parola ‘negro’. Prova a usare ‘frocio’ e ‘checca’. Prova a dire
‘ebreo’ con l'obiettivo di offendere. Prova a fare un commento sessista, ti si
scaglierà addosso la stampa tutta e i più impegnati attivisti della rete. Dici
‘mongoloide’ o qualsiasi altra parola della disabilità per offendere, e non
accadrà proprio nulla. Si è visto al Grande Fratello Vip qualche giorno fa.
Dove sono tutti?".
"Quelli
che si battono per il linguaggio corretto, quelli che reclamano i diritti,
quelli che cavalcano battaglie a colpi di like e condivisioni? Ne deduco che le
parole contano solo quando toccano la discriminazione di genere, di etnia o di
orientamento sessuale, che l'attenzione al linguaggio discriminatorio avviene
solo per certi argomenti, e infine che esiste una discriminazione di serie A e
una di serie B".
"Usare
le parole della disabilità per offendere è diventata un’abitudine, ma quel che
è peggio è che passa come modo di dire e ne viene continuamente sminuita la
gravità. Per quanto l’abitudine faccia dimenticare il significato originario di
queste parole, si tratta di termini che offendono e discriminano la categoria
di persone a cui si riferiscono. La questione è importante perché inquina la
nostra cultura senza che nemmeno ce ne accorgiamo".
"Non è
solo una questione linguistica, è sostanza. Si parla di inclusione a scuola e
nel lavoro ma se poi il contesto culturale non è pronto e il compagno di scuola
o il collega credono che quella persona sia un buono a nulla che tipo di
inclusione potremo mai realizzare? Se non abbiamo un terreno fertile dove seminare,
non otterremo alcun frutto. Le persone con sindrome di Down hanno lottato
insieme alle loro famiglie per cambiare il mondo che le circonda e per farsi
spazio nella società".
"Il
mondo è cambiato, si è evoluto, e con lui anche il linguaggio e la cultura. I
nostri ragazzi vanno a scuola con soddisfazione, praticano sport, alcuni vivono
da soli, il mondo del lavoro sta imparando che una persona con la sindrome di
Down può portare un valore aggiunto in azienda e assumerla non è solo un atto
di generosità nei confronti di una categoria fragile. Lavoriamo tanto per
cambiare l’immagine delle persone con disabilità, per liberarci di pietismo o
di inutili eroismi, ma se sdoganiamo termini come ‘mongoloide’, facciamo un
passo indietro culturale di diversi decenni”.
Nessun commento:
Posta un commento