Non c’è pace nella giustizia. Mentre continua l’onda lunga del caso Palamara, si sovrappongono e intrecciano fenomeni anche più inquietanti: una spirale repressiva che mette in forse diritti fondamentali (si vedano, da ultimo, https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/12/23/i-percorsi-della-sorveglianza-speciale-dal-rojava-alla-val-susa/ e https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/), esiti a dir poco sconcertanti di processi risalenti (basti pensare a quelli riguardanti Antonio Bassolino e Lorenzo Diana), un sostanziale svuotamento del contraddittorio veicolato dalle risposte emergenziali alla pandemia (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/12/01/processare-a-distanza-e-condannare-via-pec/), proposte di riforma regressive e irrazionali. Parallelamente ci sono, nel corpo giudiziario, turbolenze che modificano la geografia correntizia e – ciò che più importa – il rapporto tra magistratura e società: non tanto la scomposizione di vecchi gruppi e le conseguenti nuove aggregazioni o il consolidamento di formazioni corporative all’apparenza barricadere (realtà da sempre presenti nell’associazionismo di giudici e pubblici ministeri) quanto la piccola frana – sintomo di un più rilevante disagio – che investe in questi giorni Magistratura democratica, la componente più vivace e originale (culturalmente e politicamente) del corpo giudiziario. Conviene esaminarlo – questo smottamento – in una prospettiva di lungo periodo.
1. 51 anni fa, nella seconda metà
del dicembre 1969, si consumò, in magistratura, un evento che avrebbe segnato
nel profondo i decenni successivi: l’emergere di un gruppo associativo del
tutto nuovo, Magistratura democratica, in conseguenza dell’accelerazione
prodotta dalla fuoruscita dal ceppo originario di un consistente numero di
aderenti (comprensivo dell’intera rappresentanza nel Consiglio superiore della
magistratura, della maggior parte degli eletti nel direttivo dell’Anm e del
segretario nazionale uscente). La “causa occasionale” fu il cosiddetto «ordine
del giorno Tolin», un documento di critica approvato dall’assemblea del gruppo
sugli orientamenti repressivi e illiberali di polizia e magistratura nei
confronti della stampa (che avevano indotto alcune tipografie a rifiutare, per
timore di processi penali, finanche la riproduzione di documenti di
associazioni come i Giuristi democratici e i Giovani liberali). Le cause vere
furono, però, altre: all’esterno, un clima politico sempre più teso e
caratterizzato da una diffusa caccia alle streghe nei confronti dei
“sovversivi” (si era – guai dimenticarlo – all’indomani delle bombe di piazza
Fontana) e, all’interno, una profonda differenza nel modo di intendere la
giustizia e la magistratura, in cui il discrimine era se denunciarne il segno
politico reazionario e rompere così con l’establishement (soluzione
adombrata dall’interferenza come metodo) ovvero se praticare una sorta di
prudente gradualismo.
La rottura fu traumatica, dentro l’istituzione e fuori di essa (dove molti
gridarono allo scandalo denunciando il «tradimento dei chierici» rispetto alla
loro mission tradizionale di «servitori del sovrano»). Cosa
inevitabile perché quel che si verificò fu «la rottura di miti antichi,
autorevoli, mai posti in dubbio. E, al tempo stesso, il “disvelamento” che non
tutti i diritti erano tutelati in modo uguale; che l’accesso alla giustizia non
era affatto uguale per tutti; e viceversa che esistevano, nella giurisdizione
repressiva, sacche di impunità, essendo la repressione pressoché esclusivamente
indirizzata a fasce di devianza marginale o contro il dissenso politico. Ma il
“disvelamento”, per essere davvero tale, per essere davvero forte, doveva
diventare critica specifica, critica dall’interno, presa di distanza dentro il
ceto professionale; critica, dunque, anche di singoli provvedimenti
giurisdizionali da parte di un gruppo di magistrati come tale. Insomma
occorreva consumare uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione» (G.
Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi [a cura
di], Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento
istituzionale, FrancoAngeli, 1994).
Nonostante tutto, Magistratura democratica tenne, conservando metà della sua
consistenza. «Nelle elezioni associative, anticipate a primavera del ’70 a
causa del traumatico scompaginamento intervenuto a dicembre, ottenemmo oltre
550 voti, tornando al Comitato direttivo centrale in cinque. Sembrò, così, aver
avuto ragione Pajardi quando al Minerva, al termine della riunione del 20
dicembre, e cioè a scissione consumata, a noialtri rimasti disse: “può darsi
che la vera Magistratura democratica siate voi e quelli che restano con voi”»
(M. Ramat, Storia di un magistrato. Materiali per una storia di
Magistratura democratica, Manifestolibri, 1986). Oltre a reggere il colpo,
Md trovò la sua vera dimensione: si ridusse quantitativamente ma divenne per
tutti, dentro e fuori l’istituzione, un imprescindibile elemento di confronto e
realizzò una vera e propria egemonia culturale nella costruzione di un modello
alternativo di magistrato, di organizzazione giudiziaria, di politica della
giustizia. Divenne la sinistra della magistratura: non nel senso – avallato da
molti, per pigrizia o per interesse – di veicolo per sostituire la tradizionale
egemonia sulla magistratura della destra politica con una egemonia della
sinistra ma in quello di artefice di un modo alternativo (egualitario
e coerente con il modello costituzionale) di concepire la magistratura e la
giurisdizione nel sistema politico. Questo ruolo si è perpetuato, con alterne
vicende ma con solidi risultati, per almeno tre decenni.
2. 51 anni dopo una nuova
scissione, pur assai meno significativa, colpisce Magistratura democratica. Il
21 dicembre scorso, 25 aderenti (tra cui un’ex segretaria nazionale di Md e due
ex presidenti dell’Anm) hanno rumorosamente abbandonato il gruppo, annunciando
la loro decisione con una lettera aperta enfaticamente titolata “Il tempo delle
scelte” e completando così la scissione strisciante in atto
nella delegazione del Csm. Naturalmente – come in tutte le vicende analoghe –
gli scissionisti affermano trattarsi di una scelta dolorosa e dichiarano di
essere i veri interpreti dei princìpi fondanti di Magistratura
democratica traditi dalla sua attuale dirigenza. Ancora una
volta le cose, al netto delle rivendicazioni di circostanza e dei personalismi
più o meno nobili, non stanno così. Per coglierlo occorre fare un passo
indietro.
Da tempo la carica propulsiva dell’originaria Magistratura democratica si era
affievolita. Sino ad arrivare al nuovo millennio, quando il suo cambiamento di
pelle era divenuto eclatante: gli iconoclasti di un tempo
avevano preso a occupare stabilmente posizioni di potere e uffici ministeriali,
le antiche interferenze venivano ormai considerate atti di lesa maestà,
efficientismo e meritocrazia erano diventate parole d’ordine indiscutibili e
indiscusse e c’era anche stato chi, ai vertici del gruppo, si era premurato di
notificare urbi et orbi che la stagione delle “toghe rosse”
era definitivamente chiusa. Insomma, l’eresia si era trasformata in ortodossia,
spesso con le rigidità e insofferenze che accompagnano quella trasformazione.
Tutto ciò ha avuto un corollario: all’insegna di un nuovismo che
scimmiottava (infelici) scelte della politica, si è costituita un’aggregazione
con altre componenti progressiste (in particolare il Movimento
per la giustizia) produttiva, inizialmente, di un’alleanza elettorale, e, poi,
di un raggruppamento strutturato. Ha fatto così il suo ingresso nella geografia
correntizia dell’Anm “Area democratica per la giustizia”. Gli esiti non sono
stati particolarmente felici. Tra l’altro, le scadenze elettorali sono state
caratterizzate da poco commendevoli faide e alcuni esponenti
del nuovo gruppo si sono finanche trovati invischiati, in modo non irrilevante,
nella rete di malcostume ruotante intorno a Luca Palamara; in ogni caso si sono
progressivamente smarriti i due riferimenti fondamentali dell’originaria
Magistratura democratica: l’attenzione prioritaria ai contenuti della
giustizia (sostituita da quella per gli organigrammi della magistratura) e il
continuo misurarsi con il “punto di vista esterno”, quello dei destinatari
dell’intervento giudiziario (sostituito con l’intraneità alle logiche della
corporazione).
Come in tutte le vicende storiche, il processo non è stato omogeneo e lineare.
Sono rimaste, in Magistratura democratica, posizioni rigorose e coerenti con i
suoi princìpi fondanti che alla lunga, anche a fronte delle opacità di Area, si
sono rafforzate fino a tentare un nuovo corso. È in questo
contesto, e contro questa imprevista svolta, che è intervenuta la scissione di
questi giorni. Dunque, ancora una volta, una questione di contenuti: con al
centro il dilemma tra la critica e la demistificazione dell’ordine esistente e
la sua gestione (pur, magari, illuminata).
3. La storia non si ripete mai
con le stesse modalità e, per questo, ogni assimilazione dei fatti di oggi a
quelli di mezzo secolo fa sarebbe impropria e fuorviante. Di più, le letture
semplificatorie, all’insegna dei «duri e puri» da un lato e dei fautori del
compromesso dall’altro (o, addirittura, dei buoni di qua e dei cattivi di là),
non aiutano a capire. E tuttavia, nelle vicende storiche, i problemi si
ripropongono e nulla è mai definitivamente acquisito.
Oggi i temi sul tappeto – trascurati, o ignorati, dalla maggioranza della
magistratura – sono di nuovo quelli di una giustizia disuguale, di una
repressione spesso cieca e guidata da ragioni di tutela dell’ordine pubblico,
di una frequente caduta delle garanzie, di un continuum tra
potere politico e giurisdizione (solo all’apparenza incrinato da iniziative
eclatanti e non di rado avventuriste) che molti vorrebbero sancire con modifiche
ordinamentali di segno autoritario. Questo è lo scenario: alla ricerca di
attori dotati di rigore, coerenza e intelligenza politica, memori del monito
rivolto da Franco Basaglia, in un pagina di grande intensità delle Conferenze
brasiliane, alla psichiatria ma ugualmente riferibile alla giustizia: «La
cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile.
Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere
distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima,
io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la
persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo
che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto.
Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare».
Oggi, se si vuole davvero incidere sulla crisi che investe nel profondo la
giustizia, occorre ripartire da quelle parole profetiche:
ovviamente percorrendo nuove strade e trovando nuovi modi, sul piano culturale
più che su quello della rappresentanza e delle istituzioni di governo. Certo,
la cosa è più difficile di mezzo secolo fa, anche per la mancanza di
riferimenti esterni (come dimostra il sostanziale disinteresse con cui la vicenda
è stata accolta anche dalla stampa), ma chissà che la scissione non favorisca
una presa di coscienza, e comportamenti coerenti, in questa direzione.
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