lunedì 25 gennaio 2021

L'enciclopedia del diritto di Gheorghe e Florica - Alessandro Simoni

 Voci di un glossario della law in action

Abstract. La storia di due mendicanti rumeni e delle loro vicissitudini giudiziarie a Firenze sembra suggerire che lo “stato di diritto” diventa facilmente una scatola vuota quando le istituzioni prendono di mira chi vive in condizione di marginalità nei grandi centri urbani. Nella prospettiva di questi due osservatori, la macchina della giustizia italiana, civile e penale, appare completamente cieca verso la condizione delle parti più deboli, anche se (quasi) tutti gli attori coinvolti potranno sostenere di avere correttamente adempiuto ai propri doveri professionali. 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Legalità. – 3. Audiatur et altera pars. – 4. Certezza della pena.

 

(Diritto Penale e Uomo (DPU) - Criminal Law and Human Condition | Via T. Salvini, 1o | 20122 MILANO (MI) | redazione@dirittopenaleuomo.org)


 

1.  Premessa.

 Queste pagine nascono originariamente come omaggio a un accademico che ha avuto un ruolo importante nello sviluppo in Italia di una comparazione giuridica attenta in generale al diritto processuale e in particolare ai problemi dell’accesso alla giustizia, sulla scia dell’insegnamento di Mauro Cappelletti.

 

Per chi, come il sottoscritto, si è mosso all’interno di questa traccia, il manifesto giuspolitico dell’access to justice faceva parte dell’imprinting ricevuto sin dai primi contatti con la comparazione. Quale che sia l’ordinamento nel quale ci si muove, si avverte immediatamente una spinta verso la comprensione dei meccanismi giuridici, economici e sociali che possono trasformare i diritti garantiti dalla legge o da qualunque altra fonte in una vuota declamazione, e confermare che «justice is open to all, like the Ritz hotel»1. Un riflesso condizionato che non rende più facile l’indagine, perché individuare le barriere all’effettività delle norme è cosa non meno complessa della loro interpretazione secondo i canoni ermeneutici consolidati. In questa prospettiva, era scontata anche l’attenzione alle correnti antiformaliste del pensiero giuridico statunitense, e un’altra chiava di lettura del fenomeno giuridico era la distinzione law in books/law in action di Roscoe Pound, anche prima di leggere veramente Pound2.

 

Sono rimasto fedele a questo originale imprinting anche quando i miei interessi di ricerca si sono orientati verso lo studio della condizione dei rom o di chi è percepito come tale, magari sotto un’etichetta solo formalmente diversa come “zingaro” o “nomade”, prima nella prospettiva “diritto rom”3 e successivamente in quella “il diritto e i rom”. Da entrambe le angolature, occorreva, per non deformare la realtà, assumere una prospettiva antipositivista. Mentre la costruzione teorica di Santi Romano forniva l’inquadramento concettuale per spiegare il “diritto rom”, per comprendere i problemi che sorgono nel momento in cui il diritto statale viene applicato ai rom (o a chi è classificato come tale) era naturale appoggiarsi alla distinzione law in books/law in action. Questa non risultava tuttavia pienamente soddisfacente come mappa mentale. Appariva infatti subito chiaro che il problema non era accettare il fatto che al momento della loro applicazione alcune norme producano spesso effetti molto distanti da quelli desumibili dal loro tenore letterale, dalla statuizione declamata dall’ordinamento, quanto piuttosto scoprire che certi “sfasamenti” erano legati primariamente proprio all’identità dei soggetti nei confronti dei quali la forza dello stato si stava rivolgendo. Ovviamente, esistono articolati approcci teorici circa la rilevanza di certi elementi identitari sull’operare e l’evolversi del diritto, basti pensare alla critical race theory4 negli USA. In Italia, si tratta di un dibattito che non ha tuttavia “sfondato”, anche per la scarsità di studi empirici e per l’assenza di uno


 

* Il presente scritto è l’adattamento di un lavoro di prossima pubblicazione in Processo e cultura giuridica. Procedure and Legal Culture. Scritti per gli 80 anni di Vincenzo Varano, Giappichelli, 2020.

1 La celebre battuta è attribuita a James Matthews, un giudice irlandese di epoca vittoriana. V. M. Hayes,

Access to Justice, in Studies. An Irish Quarterly Review, vol. 99 (no. 393), 2010, p. 29.

2 R. Pound, Law in Books and Law in Action, in American Law Review, 12 (1910), pp. 44 ss.

3 Il lavoro di apertura di questo percorso fu A.Simoni, Il giurista e gli zingari: lezioni dalla common law, in Politica del diritto, 1999, pp. 629 ss., che contiene una lettura critica del famoso articolo di W. Weyrauch, M.A. Bell, Autonomous Lawmaking: The Case of the Gypsies, in Yale Law Journal, 103 (1993), pp. 323 ss., integrate da una prima ricognizione comparatistica di misure legislative volte al controllo della mobilità girovaga di specifici gruppi.

4 V. al riguardo K. Thomas, G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, 2005.


 

 

spartiacque identitario netto e risalente come quello razziale, o meglio di una consapevolezza piena circa la sua esistenza5.

 

I meccanismi che operano in Italia sono più sfuggenti di quelli che negli USA portano alle pesantissime ricadute giuridiche della subordinazione sociale degli afroamericani, pur se non vanno per questo sottovalutati, perché anche essi nascondono al loro interno un pericoloso germe antiegualitario. Ho in altre sedi cercato di analizzare questo problema nella prospettiva dell’antiziganismo6, che non sarà tuttavia centrale in questo scritto, anche se traspare in controluce in diversi passaggi.

 

La narrazione che segue non è centrata su una specifica identità etnica, ma è volta a suggerire che l’ideale che ancora continua a dominare l’autorappresentazione dell’ordinamento («La legge è eguale per tutti»), è spesso sostanzialmente una mistificazione nella prospettiva delle persone che vivono in condizione di marginalità nei grandi centri urbani, e sono considerate portatrici di “degrado”. “Soggetti” da allontanare costruendo strategie di pressione basate non su esplicite politiche discriminatorie, ma sugli effetti delle iniquità già presenti nei concreti meccanismi di applicazione delle norme giuridiche, nella law in action appunto, in vigore in certi settori7.

 

La formula scelta è quella del case study, costruito descrivendo vicende nel corso delle quali mi trovai a difendere, anche su fronti inizialmente inattesi, i diritti di due cittadini rumeni, un uomo e una donna, da anni attivi nell’“economia di strada” fiorentina. Si tratta di un’esperienza che nella sua parte “civilistica” è stata resa possibile dalla collaborazione con un giovane avvocato e comparatista fiorentino, Giacomo Pailli8. Nata come “ricerca azione”, è poi diventata una piccola battaglia a favore di persone che ci sembravano ingiustamente vessate. Una microstoria che sembra racchiudere un condensato di problemi strutturali di effettività della tutela di diritti fondamentali sui quali ci sarebbe molto ancora da studiare e riflettere.

 

Il registro scelto è leggero e in parte ironico, e ruota intorno a “voci di glossario” costruite intorno a lemmi che ritornano di frequente nel dibattito politico e giuridico, ma per una volta basate sulla prospettiva di persone che vivono sulla propria pelle la law in action. Uno stile che mi è venuto spontaneo dopo essermi reso conto che l’evidenza dei meccanismi di discriminazione che emergono è tale che la loro quieta accettazione da parte delle persone che ne permettono ogni giorno l’operare (magistrati, avvocati, funzionari di polizia) produce effetti lievemente surreali. Qualcosa, insomma, che ricorda l’aplomb mantenuto anche nelle situazioni più assurde dai personaggi del Fascino discreto

 

 

5 Al riguardo sono molto interessanti i saggi contenuti nel volume di G. Giuliani (a cura di), Il colore della nazione, Mondadori-Le Monnier, 2015. Qualche considerazione in prospettiva fiorentina è stata da me svolta in Biking while black. Riflessioni a partire dalle recenti circolari del prefetto di Firenze, in Questione Giustizia online, 30 novembre 2018.

6 V. i saggi ora raccolti in A. Simoni, Rom, antiziganismo e cultura giuridica, CISU, 2019, a cui si può aggiungere il recente Dimenticare i rom? Riflessioni su cultura giuridica e antiziganismo in venti anni che non hanno lasciato il segno, in M. Giovannetti, N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi. Trent'anni di politiche e legislazione sull'immigrazione in Italia, Angeli, 2020, pp. 729 ss.

7 Molti di questi aspetti sono stati ora approfonditi in G.Pailli, Lo spazio urbano e la mendicità, in M. Giovannetti,

N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi, cit., pp. 505 ss. Per uno sguardo più generale su questi problemi in prospettiva statunitense v. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017. 8 V. la ricostruzione in A. Simoni, G. Pailli, Begging for Due Process: Defending the Rights of Urban Outcasts in an Italian Town, in Seattle Law Review, 39 (2016), pp. 1303 ss.


 

 

della borghesia di Luis Buñuel. Nell’attesa che «una risata li seppellisca», non mi pareva quindi il caso di usare un classico registro accademico.

 

Naturalmente “Gheorghe” e “Florica” non si chiamano in realtà così, anche se non avrebbero avuto – credo – nulla in contrario a prestare le loro vere identità per questo scritto. Per non togliere colore narrativo ho scelto due nomi di battesimo molto diffusi in Romania. Se il lettore avverte una certa vaghezza nella ricostruzione dei fatti, tenga conto che questa è voluta, per non permettere di risalire troppo facilmente alle persone a vario titolo coinvolte nella poco edificante saga dell’incontro di “Gheorghe” e “Florica” con la città di Firenze e le istituzioni italiane9. Tutto quanto narrato è purtroppo vero, e i relativi documenti sono on file with author, come prescrive di dire il famoso Bluebook10.

 

2.  Legalità.

 

È a questo punto inevitabile dire qualcosa, senza violarne la privacy, sui nostri due esperti “empirici” di law in action. Si tratta di una coppia ultrasessantenne (anche se i volti segnati da vite faticose suggerirebbero qualcosa di più), proveniente da una zona rurale della Romania centro-orientale. La stessa zona dalla quale vengono molte delle donne rom rumene che con le loro gonne multicolori catturano l’occhio nel centro di Firenze. Gheorghe e Florica però non avvertono queste donne come compaesane, ma come “zingare”, classificandole con uno dei tanti nomi di sottogruppi rom della Romania. Questo non escluderebbe, nel marasma della galassia romaní11, che Gheorghe e Florica siano loro stessi rom. Ma a parte il fastidio verso l’attuale “ossessione identitaria”12, il dato era ai nostri fini (miei e di Giacomo Pailli) complessivamente inutile, qualunque definizione di “rom” si volesse utilizzare. Comunque, oltre a non utilizzare Florica un abbigliamento femminile “etnicamente caratterizzato”, entrambi non parlano nessuna variante di romanes, anche se sembrano conoscere molti termini13.

 

Quale che sia loro “identità etnica”, si tratta di componenti di una famiglia che da almeno dodici anni, ma forse di più, si trasferisce a Firenze per una parte dell’anno, quando non è impegnata nei lavori agricoli nel luogo di origine. Nei periodi “fiorentini”, la loro economia è basata primariamente per le donne sulla mendicità, in forma non itinerante e oggettivamente non invasiva, e per gli uomini sulla musica di strada e varie forme di lavoro manuale occasionale. I “modelli abitativi” sono andati variando dalle tende piantate in zone di campagna dei comuni della provincia, alla locazione informale presso connazionali, e in alcuni periodi – come accennerò – all’occupazione di edifici abbandonati, in particolare capannoni industriali in disuso.

 

9 Le vicende descritte hanno in verità coinvolto ben più di due persone, trattandosi di fatti che toccavano un gruppo familiare esteso. Per quanto riguarda in particolare gli aspetti descritti nel secondo paragrafo, la scelta di un particolare membro della famiglia quale parte processuale era complessivamente irrilevante, e si è proceduto sulla base di considerazioni pratiche.

10 The Bluebook: A Uniform System of Citation, ora alla ventesima edizione a cura della Harvard Law Review. 11 Sulla difficoltà di delimitare precisamente le categorie “Zingari” e “Rom”, v. l’introduzione di Leonardo Piasere al volume da lui curato Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, 1995.

12 F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2010.

13 Mi è stato suggerito che possano appartenere a uno dei tanti gruppi di incerta classificazione, i cosiddetti “Rudari”, ma non ho ritenuto opportuno fare le domande giuste. Sui Rudari v. S. Tosi Cambini, Da un villaggio del sud della Romania a una città del centro Italia. Alcuni elementi di riflessione intorno al tempo, allo spazio e al senso nella migrazione di una rete di famiglie di rudari, in S. Pontrandolfo, L. Piasere (a cura di), Italia Romaní, vol. 6, Le migrazioni dei rom romeni in Italia, CISU, 2016, pp. 159 ss.


 

 

 

L’incontro con questa famiglia è avvenuto per caso, quando mi è stato chiesto da una persona che li conosceva se potevo interessarmi a un loro problema “legale”, che nell’immediato aveva l’aspetto moderatamente minaccioso di un “verbale di accertamento e contestazione” della polizia municipale di Firenze. Un pezzo di carta sbiadito redatto con grafia poco leggibile nel quale si contestava la violazione di un articolo del regolamento di polizia urbana, sostenendo che uno di loro nell’atto di mendicare

«arrecava fastidio» o «intralciava il flusso pedonale».

 

Non vale qui la pena di entrare nel dettaglio tecnico della contestazione, anche per un motivo molto semplice, ossia che quel foglio era solo una delle tessere di un mosaico che apparirà solo dopo aver messo insieme (con tutte le difficoltà di comunicazione del caso) altri pezzetti della vita di Gheorghe e Florica, e soprattutto il loro rapporto con quelle che noi chiamiamo “norme” e “istituzioni”, in particolare quelle cittadine.

 

L’immagine composta dal mosaico è nitida, e rappresenta la battaglia di una città decisa ad allontanarli, considerando la loro presenza incompatibile con una certa visione del “decoro”. Queste battaglie non sono nuove per Firenze. Alcune le descrisse con efficacia nel 1999 Antonio Tabucchi nel suo pamphlet, di recente ripubblicato, dal titolo Gli zingari e il rinascimento14, e tutti ricordano la famosa campagna del 2007 contro i “lavavetri”15, che fu il laboratorio di molte strategie successive.

 

Nel momento in cui Gheorghe e Florica cominciano la loro migrazione stagionale a Firenze, l’amministrazione cittadina ha ormai definito la sua priorità repressiva: la mendicità in tutte le sue forme, considerata uno dei principali segni di “degrado”. La modalità scelta per rimuoverla dal paesaggio urbano consiste nel rivolgere contro le persone che la praticano ogni strumento che l’ordinamento mette a disposizione, senza curarsi troppo della sua effettiva sostenibilità giuridica e soprattutto senza distinguere tra posizioni individuali. Una scelta in gran parte spiegabile con il fatto che in una lettura giuridica “ingenua” i mendicanti, che piacessero o no, sembravano essere in una posizione abbastanza solida. Tra il 1995 e il 1999 Corte costituzionale e legislatore avevano in due passaggi reso irrilevante la mendicità degli adulti; un’irrilevanza che rimarrà sino al secondo dei due decreti sicurezza promossi da Matteo Salvini con l’endorsement di Giuseppe Conte16, che sostanzialmente reintroduce il reato di mendicità “invasiva” depenalizzato nel 1999. Essendo poi buona parte dei mendicanti cittadini rumeni, e quindi dell’UE, il diritto dell’immigrazione non soccorreva a compensare l’arretramento di quello penale. Se non si poteva più punire, non si poteva più neanche espellere, o minacciare di farlo.

 

E qui il nostro sguardo e quello di Gheorghe e Florica iniziano inevitabilmente a divergere. Per un giurista, che ci sia o meno una “fattispecie di reato” non è cosa da poco. Ma per Gheorghe la distinzione reato/illecito amministrativo non è così netta, e il criptico


14 A. Tabucchi, Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze, Feltrinelli, 1999, ora nella nuova edizione per i tipi di Piagge, 2019, con prefazione di Salvatore Settis.

15 V. A. Simoni, Lavavetri, rom, stato di diritto e altri fastidi, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 3/2007, pp. 85 ss. e F. Giunta, Lavavetri e legalità, Idem, pp. 81 ss.

16 V. per l’evoluzione dell’ordinamento in tema di mendicità prima del decreto Salvini-Conte il mio A. Simoni, La mendicità, gli zingari e la cultura giuridica italiana: uno schizzo di tappe e problemi, in Polis. Ricerche e studi su società e politica in Italia, 2000, pp. 371 ss. Per il panorama più recente v. G. Pailli, Lo spazio urbano e la mendicità, cit.


 

 

foglio consegnato dalla polizia municipala non aiuta, specialmente se hai alle spalle solo qualche anno di scuola elementare ancora quando un altro Gheorghe, Gheorghe Gheorghiu-Dej, predecessore del Conducător Nicolae Ceaușescu, era al potere in Romania.

 

Nella relazione diseguale tra mendicanti come Gheorghe e Florica e le polizie di qualunque genere, locali o nazionali, il messaggio che passa attraverso i fogli con i “verbali di contestazione” è essenzialmente un messaggio di minaccia, che vuole evocare la possibilità di sanzioni più severe. Ovviamente questo è noto alle autorità cittadine, che non pensano certo a questi verbali come a un mezzo per rimpinguare le casse comunali, scopo come noto invece non secondario dei verbali per violazione del codice della strada elevati verso cittadini mainstream, titolari di beni sui quali in un modo o nell’altro ci si può rivalere. I verbali per violazione del regolamento di polizia urbana sono invece un altro genus, e l’idea che vi è dietro la loro consegna è quella della deterrenza psicologica, secondo una scuola di pensiero, che potremmo definire quella degli effetti “sperati e voluti”, già esplicitata in occasione delle ordinanze sui lavavetri del 200717. Una deterrenza che è perseguita pervicacemente con una tecnica molto semplice, ossia contestare a ogni possibile occasione supposte violazioni, utilizzando disposizioni che fanno riferimento al “fastidio” o a simili concetti “gommosi”. Gheorghe, Florica e le altre persone nelle stesse condizioni rapidamente si trovano con un ammontare complessivo di sanzioni pecuniarie a loro carico ragguardevole, e certamente al di delle loro possibilità.

 

Sino a questo punto, si potrebbe obbiettare, siamo comunque nella perfetta legalità, e ovviamente la mia personale convinzione che nella mendicità dei due anziani signori rumeni non vi fosse niente di “fastidioso” o “invasivo” non vale di più del convincimento di un qualunque agente di polizia municipale. Questa tensione tra due opposte visioni circa la liceità di un comportamento che un’autorità pubblica vuole sanzionare sarebbe, va da sé, fisiologicamente destinata a essere risolta con una delle infinite microrepliche dell’idea di fondo di “stato di diritto”. Un’idea che l’amministrazione cittadina assolutamente non rinnega. Anzi, è molto attenta a sottolineare che l’azione di lotta al degrado è un’azione volta al recupero della “legalità”. Il verbale prevede d’altronde la possibilità di produrre “scritti difensivi” entro trenta giorni, e se andasse male sarebbe comunque possibile, al momento della successiva emissione dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento, andare di fronte a un giudice.

 

Certamente, per persone nella condizione di Gheorghe e Florica, un problema di accesso alla giustizia esiste anche per simili minute procedure, ma sembrerebbe qui risolto dal caso, visto il loro incontro con dei giuristi pronti ad assisterli pro bono. Con fiducia nella rule of law provvediamo quindi a farci rilasciare il necessario mandato, che abbiamo preparato addirittura in una versione bilingue, mandato/mandatul, e a sottoporre “scritti difensivi” con argomenti che ci sembravano di un certo spessore.

 

L’evoluzione successiva ci ha mostrato però come la law in action sia influenzata non solo da possibili differenze nell’interpretazione delle norme, ma anche da strategie giuridiche, dove le potenziali parti di un processo a volte mirano a «deprive the judge of

 

 


17 L’espressione “sperati e voluti” è tratta da una dichiarazione del Sindaco Leonardo Domenici. V. i riferimenti in A. Simoni, Rom, stato di diritto e altri fastidi, cit.


 

 

any say at all in the outcome of the case»18. Il comune di Firenze, infatti, non ha mai risposto a nessuno degli scritti difensivi sottoposti, né tanto meno dato seguito con un’ingiunzione di pagamento al procedimento sanzionatorio. Una situazione solo apparentemente soddisfacente in quanto, per un orientamento giurisprudenziale consolidato, a differenza delle sanzioni della circolazione stradale non è possibile fare ricorso presso un giudice contro il verbale di accertamento, ma solo contro l’ingiunzione di pagamento quando questa sia emessa. La legal strategy del “muro di gomma” lascia quindi la spada di Damocle della riscossione pendente sino al decorrere della prescrizione quinquennale, e più in generale blocca ogni verifica giurisdizionale, anche indiretta, sulla legittimità delle sanzioni per i comportamenti considerati “fastidiosi”.

 

Nella loro prospettiva esperienziale di stat de drept in versione Florenţa, Gheorghe e Florica hanno quindi potuto verificare una peculiare doppia velocità, dove alla sollecitudine nel contestare le supposte violazioni faceva da contraltare l’immobilismo di fronte agli “scritti difensivi”19. In un paio di occasioni chiesero con tono incuriosito se la polizia municipala avesse risposto ai nostri scrisori, e poi con molto buon senso si dedicarono ad altro. I loro difensori gli erano grati per avergli fatto scoprire un vuoto di tutela dell’ordinamento che dovrebbe interessare anche a chi non è un mendicante rumeno, ma la battaglia a quel punto sarebbe potuta proseguire unicamente attraverso i vari livelli di giurisdizione italiani, senza portar loro alcun beneficio pratico neanche remoto.

 

Successivamente, le energie dedicate dal comune di Firenze alla repressione della mendicità hanno permesso a Gheorghe e Florica, insieme al sottoscritto e a Giacomo Pailli, di osservare un altro esempio di “strategia giuridica evasiva” messa in atto dalle autorità cittadine, questa volta con riferimento alla tutela della privacy. I nostri due amici rumeni in questo caso non avevano subito alcuna materiale vessazione, ma con il loro mandatul ci avevano reso il favore accettando di partecipare a un piccolo esperimento di cause lawyering.

 

La vicenda è peculiare. In un’intervista a un quotidiano molto diffuso i vertici dell’amministrazione cittadina affermavano di aver predisposto un data base dei mendicanti, contenente una serie di informazioni (tra cui le patologie) a tutti note come supertutelate in quanto “sensibili”. Se si prendevano alla lettera le parole messe in bocca agli amministratori dal giornalista, si trattava senza dubbio di un’attività illecita. Da lì il nostro test case. I nostri due amici non potevano a logica essere rimasti fuori da questa ipotetica “schedatura”, e comunque qualche loro dato (non fosse altro per la quantità di verbali di contestazione ricevuti) doveva inevitabilmente essere in possesso dellamministrazione.   Di   conseguenza,   sulla   base   di   un   altro   mandato/mandatul, decidiamo di inviare all’amministrazione una semplicissima richiesta di accesso sulla base della legge sulla privacy, dove la si invitava a comunicare entro trenta giorni quali erano i dati in suo possesso circa Gheorghe e Florica. Un’attività che avrebbe richiesto agli amministratori un breve accesso ai sistemi informatici e la preparazione di una lettera allo studio legale scrivente, e questione chiusa.

 


18 Una theory of legal strategy era stata articolata in uno stimolante articolo dello stesso autore che lanciò negli USA il filone della gypsy law. V. L.M. LoPucki, W.O. Weyrauch, A Theory of Legal Strategy, in Duke Law Journal, 49 (2000), pp. 1405 ss. (la frase citata è a p. 1443).

19 Per i passaggi della vicenda v. A. Simoni, G. Pailli, Begging for Due Process, cit.


 

 

L’amministrazione ha invece, con nostro stupore, scelto anche qui il “muro di gomma”. Il comune non ha infatti mai risposto alla richiesta di accesso, e ha preferito avviare con noi una battaglia ancora in corso ad anni di distanza. Gheorghe e Florica si trovavano ora a parti invertite rispetto alla loro vita ordinaria, attori in un giudizio presso il tribunale di Firenze ai sensi della legge sulla privacy, del quale informiamo anche l’autorità garante per i dati personali. Il comune sarebbe stato ancora in tempo a risparmiare le spese legali decidendosi a mandare questi benedetti dati e dimostrare che non esisteva alcuna “schedatura dei mendicanti”. Preferisce invece resistere, con un costo non irrilevante per le casse cittadine, costringendoci a tutta la trafila del processo.

 

In prima istanza il nostro test case non ottiene l’effetto voluto, con un giudice che respinge le nostre liste di testimoni, in cui erano inevitabilmente finiti nomi che negli ultimi anni hanno assunto rilevanza nazionale, e rigetta la domanda, compensando le spese legali, che quindi sul lato del convenuto rimangono a carico del contribuente. Non è questa la sede per sviscerare gli argomenti di diritto processuale (lo saprebbe fare Giacomo Pailli, non certo io) che mettono in luce un giudice forse lievemente miope rispetto al problema di principio, anche volendo scontare qualche nostro errore di impostazione, visto che col senno di poi forse dovevamo lasciare il problema del data base sullo sfondo, e continuare nell’immediato in una finta ingenuità alla «Gheorghe vuole avere i suoi dati, della schedatura di altri non sa e non gli importa nulla». La difesa del comune ha potuto invece “svicolare” nelle sue repliche mantenendole sul piano «non abbiamo fatto schedature», invece di rispondere semplicemente alla richiesta circa l’esistenza o meno di dati sui due richiedenti, e poi lasciare ad altri valutare se questi erano lecitamente conservati.

 

Comunque, con il consenso dei nostri assistiti decidiamo di andare in Cassazione, visto che per i ricorsi in materia di privacy l’appello non è previsto. Ovviamente Gheorghe e Florica hanno capito benissimo che questa storia del recursul în casație era simpatica e un segno di affetto, ma che non portava certo cose utili nel breve periodo. È probabile d’altronde, anzi direi certo, che se ne siano dimenticati, visto che il fascicolo dorme da più di tre anni a Roma negli uffici di piazza Cavour.

 

Certamente, tutto questo a noi ha insegnato molto sui problemi dell’accesso alla giustizia dei marginali, e a Gheorghe e Florica ha confermato che quando provi ad andare contro la polizia municipala comunque sono grane e se ne cava poco, e che questa cosa dello stat de drept è un po’ una fregatura. A noi verrebbe da spiegare che non sono le legile italiene sulla privacy il problema, ma la law in action e la “ragionevole durata del processo”, concetto che mica è semplice da tradurre. Meglio lasciar perdere e ringraziare della loro pazienza.

 

Visto che si parla di law in action, chiudo questa sezione accennando a un altro aspetto che mi ha colpito, ossia il vedere che in queste vicende di cause lawyering ormai il media coverage conta tanto quanto i lawyers. Il nostro test case nasce, come ho detto, da una notizia di stampa, ma nell’immediato decidiamo di non girare ai media la notizia della nostra azione legale. Informiamo però formalmente della nostra richiesta e dell’azione in giudizio il garante della privacy, che non assume alcuna iniziativa per molti mesi. Un silenzio che cessa incredibilmente solo quando la notizia di quanto stavamo facendo esce su un quotidiano. A distanza di pochi giorni, il garante invia una richiesta di chiarimenti al comune, che risponderà anche qui in modo evasivo, giocando sull’ambiguità della distinzione data base/dati individuali. Effettivamente questo dimostrava una certa


 

 

inadeguatezza del nostro approccio esclusivamente giuridico, che guardava sino ad allora con un atteggiamento un filo snob alle “campagne mediatiche”. Campagne che invece sono uno strumento da sempre utilizzato nel mobilitare l’opinione pubblica contro i mendicanti, ingigantendo la loro presenza e i loro guadagni e così indirettamente orientando il law enforcement nei loro confronti20. Una parte di un fenomeno più generale di interazione tra stampa e giustizia che proprio il padre della law in action, Roscoe Pound, aveva studiato insieme a Felix Frankfurter nel pionieristico Criminal Justice in Cleveland21; sono il numero e la gravità delle violazioni della legge “percepite” attraverso i media, non quelle reali, che influenzano il livello di severità dei sistemi repressivi. Un lavoro che sta per compiere un secolo, ma che nell’epoca dei populismi penali andrebbe tradotto in italiano.

 

3.  Audiatur et altera pars.

 

La familiarizzazione di Gheorghe e Florica con la law in action italiana non si è però fermata alle “voci” civilistiche, perché l’ordinamento gli ha concesso anche la possibilità di approfondire la dimensione processualpenalistica. A voler essere precisi, più il “diritto dell’esecuzione penale” che il processo di cognizione. Sì, perché un trial, seppur nella versione italiana, insomma quella “cosa” in cui tu sei davanti a un giudice e un altro, che ha studiato più o meno come il giudice, dice che hai fatto questo e quello e un altro ancora, che anche lui dovrebbe aver studiato e che sta dalla tua parte, invece dice “no, non è così”, quella cosa in cui puoi dire la tua (“audiatur et altera pars”, a chi piace il latino) Gheorghe e Florica non l’hanno mai vista.

 

Non l’hanno mai vista in Italia, ma neanche in Romania, perché che loro sappiano

– nessuno li ha mai accusati di nulla né qui né là. Quindi non possono fare una comparazione italo-rumena. Però insomma una televisione ce l’hanno (in Romania) e cosa fa un giudice per giudicare l’hanno ben visto in qualche film, anche se magari americano. Sanno anche, sentendo di qualche conoscente che qualcosa di non bello pare aver fatto, che se il giudice è stato cattivo e puoi pagare un avvocato è possibile riprovare alla Curte de Apel, e addirittura – se proprio hai molti soldi – alla Curte de Casaţie a Bucarest. Probabilmente non sanno che quella di Bucarest è parente stretta della nostra, con un nome completo un filo anzi ancora più solenne. Non solo Înalta Curte de Casaţie, che sarebbe come la cugina “Suprema” di piazza Cavour a Roma, ma addirittura de Casaţie şi Justiţie, “di cassazione e giustizia”. A “risalire per li rami” poi si scoprono somiglianze di famiglia non da poco, come il fatto che l’unico esempio di precedente storico del nostro art. 111, che costituzionalizza il diritto al giudizio di cassazione, è nella costituzione rumena del 193822. Durata poco, certo, ma se Gheorghe lo sapesse lo farebbe un pochino pesare. La data di istituzione (1909) del suo più risalente antenato23 il CSM rumeno l’ha messa addirittura nel nome del sito ufficiale24.

 

 


20 V. l’interessante K. Segrave, Begging in America 1850-1940. The Needy, the Frauds, the Charities and the Law, McFarland & C., 2011.

21 R. Pound, F. Frankfurter, Criminal Justice in Cleveland. Reports of the Cleveland Foundation Survey of the Administration of Criminal Justice in Cleveland, Ohio, Cleveland Foundation, 1922.

22 Art. 75.3: Dreptul de recurs in casare este de ordin constitutional.

23 Il Consiliul superior al magistraturii, istituito dal titolo XIII della Lege pentru modificarea unor dispoziţiuni din legile relative la organizarea judecătorească din 24 martie 1909.

24 www.csm1909.ro


 

 

Ma Gheorghe e Florica non vogliono studiare il diritto con colte digressioni storiche. A loro interessano gli effetti ultimi, la sanzione, o al limite i provvedimenti che degli effetti ultimi sono l’antefatto, l’avvisaglia.

 

Avvisaglia che arriva attraverso l’Arma dei Carabinieri, che con lodevole efficienza trova Gheorghe nonostante l’assenza di fissa dimora, per notificargli un atto che poi in fondo è un’opportunità, un favore che l’ordinamento offre in ossequio ai principi che conosciamo circa la funzione rieducativa della pena, il carcere come ultima ratio, ecc. Il documento dice che c’è una condanna a sei mesi di reclusione passata in giudicato, e gli prospetta alcune alternative al carcere, dandogli un mesetto per pensarci e scegliere cosa chiedere, nessuna fretta. Il giudicato si è formato d’altronde un anno e mezzo prima, e si sa che queste cose vanno lentamente.

 

Per un attimo la fiducia in Gheorghe ha – confesso traballato. Una condanna a pena detentiva, esecutiva, a “sua insaputa”? Suona male, Gheorghe. Non è noto che in Italia alla fine in prigione è difficile andarci veramente perché i giudici sono buoni e di sinistra? Quindi, qualcosa di serio avrai fatto.

 

Ottenere il fascicolo relativo a un processo per un reato “minore” ormai chiuso non è semplice. Ma gli avvocati del nostro, forti dell’ennesimo mandato, a questo punto si erano incuriositi. Che l’assistito nella causa contro il comune di Firenze, apparentemente perfetto “soggetto vulnerabile” difeso in un test case su un problema di principio, fosse in realtà uno scaltro delinquente? Come principianti della civil rights litigation si iniziava male. Lezione 1: scegliere bene le parti da difendere quando si fa cause lawyering, in modo che non siano attaccabili da altri fronti. In fondo, anche la NAACP aveva preferito Rosa Parks a Claudette Colvin, un’altra ragazza afroamericana alla quale pure era stato chiesto mesi prima di cedere a un bianco il suo posto in autobus, perché non riteneva Claudette ideale per dare visibilità alla propria campagna25.

 

Una volta emerso dagli archivi, il fascicolo riabilita ai nostri occhi Gheorghe, e al tempo stesso ci fa scoprire che anche Florica è nella stessa identica situazione, solo che è in Romania e la longa manus della Benemerita laggiù non arriva per la notifica a un “sfd” (senza fissa dimora).

 

Il faldone ci mette in mano un piccolo studio in vitro su come la macchina della “giustizia minore” possa diventare un tritacarne, sostanzialmente cieco rispetto ai destini individuali, in virtù di difetti e iniquità tanto evidenti da non lasciare altra alternativa che pensare che la sostanziale acquiescenza nella quale essa opera sia dovuta al disinteresse della maggior parte di avvocati e magistrati per i destini di chi vive ai margini della società. Mutatis mutandis, quanto avvenuto a Gheorghe e Florica non sembra mostrare un particolare progresso rispetto al 1916 quando il giovane Gramsci, «caduto per caso nell’aula di un tribunale», dopo aver assistito a una serie di “direttissime” pubblica nell’edizione torinese dell’Avanti! un articolo dal titolo «Pregiudicati», nel quale dichiara di non aver simpatia per gli scrittori alla Victor Hugo, ma ciò nonostante esprime la speranza che «uno di quei grandi retori, di quei feticisti del “popolo” inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività

 


25 V. P. Hoose, Claudette Colvin: Twice Toward Justice, Kroupa Books, 2009.


 

 

possa davvero essere difesa da loro. Perché pensiamo che noi non possiamo subito dare una sanzione punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice memoria»26.

 

Oggi i meccanismi sono solo lievemente più raffinati.

 

Il fascicolo emerso ci rivela l’instaurazione di un procedimento penale per violazione dell’articolo 633 c.p., invasione di terreni o edifici. In effetti, quattro anni prima la famiglia si era installata in un capannone in disuso. Di nessun interesse per la persona che lo aveva in comodato, ma non abbastanza distante dagli occhi degli abitanti della zona, che richiamano l’attenzione di chi di queste cose si occupa presso il reparto “antidegrado” della polizia municipale. Si tratta di un reato perseguibile solo a querela di parte, ma il comodatario si convince, nel dialogo con i funzionari, che certo è meglio tutelarsi. Le autorità preposte danno seguito, e provvedono allo sgombero (che gli atti ci dicono pacificamente accettato dagli occupanti), notificando la denuncia per il reato e contestualmente chiedendo a Gheorghe, Florica e agli altri nove soggiornanti di eleggere domicilio presso un difensore di fiducia. Se non hanno il nome di un avvocato (come era ovvio) nessun problema. Esiste un sistema che un difensore d’ufficio te lo individua all’impronta, pescandolo da apposita lista. Per ognuno degli occupanti un iscritto all’albo quindi viene regolarmente assegnato dal sistema. La forma è salva.

 

Trascorso il tempo che deve trascorrere, l’udienza arriva nel modernissimo palazzo di giustizia adiacente al nostro dipartimento. Si tratta certo di quei procedimenti oggi considerati, come scriveva Giuseppe Battarino commentando il pezzo di Gramsci appena citato, “giustizia minore”, “casi semplici” per i quali le risorse vanno risparmiate. La machinery of justice italiana non si presenta quindi all’udienza con la sua guardia imperiale. Onorario il pubblico ministero, onorario il giudice. Però come parità delle armi il colpo d’occhio non doveva essere male, undici avvocati, dei quali però nessuno aveva mai visto o sentito gli assistiti.

 

Un sussulto di due process, a onor del vero, l’avvocato di Florica lì per lì ce l’ha, chiedendo se le parti conoscono l’italiano. La risposta del funzionario di polizia municipale chiamato a deporre è assolutamente affermativa, e soddisfa la corte. Non avranno il data base, ma certo buona memoria. Citandone il cognome, l’ispettore dell’antidegrado ricorda che sono «i musicisti» e «l’italiano lo sanno bene». In realtà almeno per quanto riguarda Gheorghe le sue conoscenze dell’italiano sono ridottissime, e ogni dialogo anche semplice con noi si è dovuto svolgere con l’assistenza di qualcuno che parlasse rumeno. Ma evidentemente nella law in action della “giustizia minore” le conoscenze linguistiche sono valutate “a pacchetto”, per nucleo familiare sulla base di dichiarazioni di terzi.

 

L’esito del processo è una condanna per tutti a sei mesi di reclusione, e sappiamo che qui le porte del carcere nella law in action non si dovrebbero di norma aprire, ma il passato di Gheorghe e Florica effettivamente un altro attacco alla società lo nasconde. Un singolo precedente uno, dice il sistema informativo del casellario, ma non da poco. Una tenda piantata dieci (10) anni fa in un campo incolto di un comune a sud di Firenze, lo


26 L’articolo è leggibile in G. Battarino, Una lezione (attuale) di Gramsci sugli affari penali semplici, in Questione Giustizia 2/2014 (ora nuovamente pubblicato in Questione Giustizia online, 27 aprile 2018).


 

 

stesso dove abitavo io. Pure lì rapido sgombero, processo in assenza, ma “attenuanti prevalenti su aggravanti” e settanta euro di multa. Ma tanto basta per essere di fronte a una “recidiva specifica infraquinquennale”. Al raggiungimento dei cinque anni non mancava poi molto, ma con il metodo usato nel calcolo di queste cose (dalla condanna, non dal fatto, che con i tempi della giustizia non sono proprio noccioline), non ci si arrivava e questo (almeno per il giudice onorario) escludeva l’applicazione della condizionale.

 

Di tutto questo arrabattarsi della giustizia italiana sui casi loro Gheorghe e Florica nulla sapevano. Non hanno neanche capito che il loro day in court l’ordinamento lo avrebbe garantito. Ma perché non vi è stato, e la condanna è diventata definitiva? Ribellione all’ordinamento? Evidenza della loro appartenenza a una «Gente vagabonda in lotta con le leggi»27? Banale convinzione di farla franca? Per avere la risposta in questo caso basta ribaltare la prospettiva, praticando non “empatia emotiva”, da alcuni giustamente criticata28 come base di decisioni in tema di diritti, ma una minima “empatia cognitiva”, ossia comprendere come la realtà si pone agli occhi dell’altro.

 

Ho sfiorato la questione delle barriere linguistiche, ma il problema è ancora più concreto, se si riflette circa le forme che prende in casi come questi quella che viene chiamata “instaurazione del contradditorio”. Tutto si gioca sulla comprensione di un foglio fitto di termini giuridici o comunque complessi in una lingua straniera messo in mano durante uno sgombero a una persona sostanzialmente analfabeta. Un foglio il cui aspetto non ha nulla che lo distingua da un qualunque verbale di violazione amministrativa, e che è consegnato a chi immediatamente dopo dovrà trovare un altro riparo per la notte e risolvere le mille incombenze della vita di un marginale urbano. Vedremo quali effetti finali ha prodotto questa barriera comunicativa iniziale, in termini di sottoutilizzazione delle tutele che l’ordinamento, la law in books, concretamente avrebbe offerto, visto che non siamo più ai tempi di Gramsci. Una sottoutilizzazione che, va notato, plausibilmente non si sarebbe verificata se le persone coinvolte avessero avuto un’effettiva precedente familiarità con la giustizia penale, se avessero commesso insomma “altri reati” (vedremo oltre il perché delle virgolette), e quindi fossero state in contatto stabile con un avvocato di riferimento come la maggior parte dei “delinquenti veri”.

 

 

4.  Certezza della pena.

 

Per l’ultimo capitolo della storia di Gheorghe e Florica ho scelto un termine che in senso stretto come sappiamo non fa parte del lessico tecnico-giuridico, ma che negli ultimi anni ha grande successo nel linguaggio della politica. Generalmente è utilizzato affermandone l’assenza o debolezza in Italia, ma senza articolarne precisamente il contenuto, ed è diventato uno dei cavalli di battaglia dialettici del populismo.

 

Che contenuto si potrebbe dare alla locuzione “certezza della pena” per costruire il glossarietto di Gheorghe e Florica? Senza timore di approssimazione, credo di interpretare correttamente il pensiero dominante nelle populiste menti proponendo «Sicurezza che chi


27 Era il titolo di un libro del 1914 sugli zingari il cui contenuto è analizzato in A. Simoni, I giuristi e il «problema di una gente vagabonda»: considerazioni intorno a un libro di inizio ‘900 nato da un incontro con i Rom meridionali, in S. Pontrandolfo e L. Piasere (a cura di), Italia Romaní III, CISU, 2002, pp. 265 ss.

28 P. Bloom, Against Empathy. The Case for Rational Compassion, 2016 (tr. it. Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Liberilibri, 2019).


 

 

ha commesso un reato sconti sempre e comunque la pena carceraria prevista nel codice, senza che questa venga ridotta per effetto di altre norme di qualsiasi genere, anche collegate a cosiddette garanzie processuali». Si tratta di una locuzione che delinea una giustizia penale in verità inesistente anche nei paesi considerati modelli di harsh justice29, semplicemente perché insostenibile, ma che ha una carica simbolica molto potente.

 

Nella limitatissima prospettiva di Gheorghe e Florica, la “certezza della pena” in questi termini invece è una calzante descrizione empirica del sistemul penal italian, e anzi tutto sommato si può pensare che gli è andata bene, perché uno dei decreti sicurezza di Salvini e Conte ha elevato la pena edittale per l’invasione di terreni ed edifici, e qualche anno dopo i sei mesi potevano quindi diventare anche di più30. Se non era per il casuale incontro con il sottoscritto avvenuto ormai alle “porte con i sassi” come si dice a Firenze

– il fluire della giustizia penale contro la coppia ultrasessantenne poteva riflettere il libro dei sogni del ministro Bonafede, e non essere bloccato neanche per pochi mesi da inutili arzigogoli.

 

L’arzigogolo di più immediato uso sarebbe stato ovviamente un bel ricorso in appello, seguito da sprechiamoci uno in Cassazione se andava male pure lì. Visto che gli ermellini custodivano il faldone della privacy da anni, si poteva sperare che come inconsapevole indennizzo si tenessero a frollare anche il fascicolo penale, così da raggiungere l’aborrito termine di prescrizione. D’altronde, come si dice in un’altra espressione del vernacolo fiorentino, «poggio e buca fa pari». Non tutti i ritardi della giustizia vengono per nuocere.

 

A leggere le carte, questo dovrebbe essere l’esito della vicenda per la maggior parte degli altri membri della famiglia e dei conoscenti che dormivano nello stesso capannone, i cui avvocati non hanno pure loro mai avuto contatti con gli assistiti, ma hanno comunque depositato dei ricorsi in appello con argomenti difensivi ben articolati. Mi dicono – ma non so se sia vero – che spesso queste cose vengono affidate a fini formativi a praticanti, che quindi ci mettono impegno.

 

Gheorghe e Florica però sembrano essere stati sfortunati. Rintraccio i loro due avvocati per capire cosa sia avvenuto. Il problema non sembra essere stato la mancanza di praticanti. In un caso il professionista, mostrando (o simulando con buona efficacia scenica) una sorpresa costernazione, confessa che proprio non si ricorda chi se ne dovesse occupare all’interno dello studio, e che quindi effettivamente se lo erano proprio dimenticato. Nell’altro caso invece il “collega” non sembra essere stato roso da dubbi. Non so se lo posso dire, ma me ne assumo la responsabilità. L’avvocato al telefono mi spiega che «la pena gli sembrava congrua» e che d’altronde «sono rumeni, e commettono altri reati». Ergo, niente appello in tutti e due i casi, e le sentenze erano passate in giudicato.

 

Assunta la difesa di tutti e due, dal punto di vista tecnico quello che vi era da fare era decisamente nei limiti delle capacità anche di un non-penalista come il sottoscritto, con l’aiuto di qualche consiglio di persone competenti. Nell’immediato, nulla di più che chiedere entro il termine una misura alternativa. Ma per l’affidamento in prova occorre un


29 È il titolo dell’illuminante libro di J.Q. Whitman, Harsh Justice. Criminal Punishment and the Widening Divide between America and Europe, Oxford University Press, 2003.

30 D.l. 4 ottobre 2018 n. 113, conv. con modif. dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132, art. 30, c. 1.


 

 

domicilio, e per la detenzione domiciliare lo dice la parola stessa… Inevitabilmente predisporre le richieste dava un senso di amara vertigine, vista la realtà delle vicende e delle vite che andavano riassunte all’Illustrissimo Tribunale di Sorveglianza. Le vite di due persone i cui certificati di “ricerca ristretto” emessi dal DAP attestano che “a far data dal 1990, non è mai stato detenuto”, e che sarebbero state però “ristrette” in carcere per aver dormito in un capannone in disuso.

 

Sarebbe ingiusto attribuire al personale del tribunale di sorveglianza ulteriore accanimento rispetto a quello già generato dal sistema. È giusto invece ricordare che un funzionario della segreteria si prodigò oltre i propri doveri d’ufficio, e che mi vennero informalmente prospettate tutte le soluzioni astrattamente possibili. Ma il quadro di fondo della law in action (ma anche in books in questo caso), una volta che la pena è esecutiva è quello che è. Il fatto che chi non disponga di domicilio debba andare in carcere anche se la condanna permetterebbe una misura alternativa, in una sorta di supplemento di pena per la “colpa” della povertà, è pacificamente accettato.

 

All’udienza della sorveglianza, il giudice fu cortesissimo, ascoltò senza interrompere per trenta secondi la narrazione degli antefatti che spiegavano perché eravamo lì, prima di ricordarmi quello che già sapevo, ossia che tutto ciò non era, purtroppo, rilevante in quella sede.

 

Mi colpì il modo in cui il pubblico ministero esalò un «Contrario!», con il quale riteneva assolto il boulot della giornata. D’altronde oggettivamente la fila di avvocati che premeva per il proprio turno era lunga, come da foglio manoscritto appeso alla porta con lo scotch. Probabilmente, come il pubblico ministero dell’articolo di Gramsci, anche per questo «Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre», e d’altronde la formulazione lapidaria gli poteva essere perdonata, visto che in questo caso, tecnicamente, la condanna vi era già stata, e si discuteva “solo” se andare in carcere. Non inaspettatamente, la richiesta di misure alternative di Gheorghe viene rigettata, mentre quella di Florica invece (anche se identica, copy-paste, misteri degli uffici…) viene addirittura dichiarata irricevibile per mancata indicazione di un domicilio idoneo.

 

Alla fine, la polizia municipale ha vinto, e la rimozione di Gheorghe e Florica è avvenuta in ossequio a una “legalità” che a qualunque osservatore apparirà caricaturale, ma a molti basta per considerare le regole rispettate. Dove sono ora Gheorghe e Florica? Non vi è stata occasione di saluti, comprensibilmente si sentono obbligati a informarmi circa i loro whereabouts. Mi sembra inevitabile pensarli in Romania, dopo aver cancellato l’Italia dal proprio futuro. Stanno “fuggendo dalla giustizia”, come direbbero i corifei della “certezza della pena”? Lascio cadere l’interrogativo, e concludo con questo passo del Macbeth, che sembra scritto apposta per loro:

 

«Questa freccia mortale ora scoccata ancora non s'è scaricata a terra, e la via più sicura per noi due di scansarci dalla sua gittata.

Perciò a cavallo! E senza preoccuparci dei soliti congedi. Via, furtivi: non c'è furto nell'involar se stessi quando non c'è garanzia di pietà»31.


31 Macbeth, III.II: «This murderous shaft that's shot Hath not yet lighted; and our safest way

Is to avoid the aim. Therefore, to horse,


 

 

 

 

 

 

Bibliografia.

 

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F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2010.


And let us not be dainty of leave-taking

But shift away. There's warrant in that theft Which steals itself when there's no mercy left».

Ho scelto, perché mi sembrava particolarmente adeguata al contesto di questo scritto, la traduzione di Goffredo Raponi, liberamente accessibile in rete (www.liberliber.it). Sulla peculiarità e lo stile di questo traduttore di Shakespeare, che ha messo a disposizione di tutti il frutto del suo lavoro, v. D. Artico, William Shakespeare nelle traduzioni italiane di Goffredo Raponi, in Romanica Wratislaviensia, 2008, 55, pp. 99 ss.


 

 

 

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Id., Biking while black. Riflessioni a partire dalle recenti circolari del prefetto di Firenze, in

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Id., Dimenticare i rom? Riflessioni su cultura giuridica e antiziganismo in venti anni che non hanno lasciato il segno, in M. Giovannetti, N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi. Trent'anni di politiche e legislazione sull'immigrazione in Italia, Angeli, 2020, pp. 729 ss.

 

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 da qui

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