Voci di un glossario della law in action
Abstract. La storia
di due mendicanti rumeni e delle loro vicissitudini giudiziarie a Firenze sembra suggerire che lo “stato di
diritto” diventa facilmente una scatola vuota quando le istituzioni prendono di mira chi vive in condizione di marginalità nei grandi centri
urbani. Nella prospettiva di questi due osservatori, la macchina della
giustizia italiana, civile
e penale, appare
completamente cieca verso la condizione delle
parti più deboli,
anche se (quasi)
tutti gli attori
coinvolti potranno sostenere di avere correttamente adempiuto ai propri
doveri professionali.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Legalità. –
3. Audiatur et altera pars. – 4.
Certezza della pena.
(Diritto Penale e Uomo (DPU) - Criminal Law and Human Condition | Via T. Salvini, 1o | 20122 MILANO (MI) | redazione@dirittopenaleuomo.org)
1. Premessa.
Per
chi, come il sottoscritto, si è mosso all’interno di questa traccia, il
manifesto giuspolitico dell’access to justice
faceva parte dell’imprinting ricevuto sin dai primi contatti con la comparazione. Quale che
sia l’ordinamento nel quale ci si muove, si avverte immediatamente una spinta
verso la comprensione dei meccanismi giuridici, economici e sociali
che possono trasformare i diritti garantiti
dalla legge o da qualunque
altra fonte in una vuota declamazione, e confermare che «justice
is open to all, like the Ritz
hotel»1. Un riflesso condizionato che non rende
più facile l’indagine, perché individuare le barriere all’effettività delle norme è cosa non meno complessa
della loro interpretazione secondo i canoni ermeneutici consolidati. In questa prospettiva,
era scontata anche l’attenzione alle correnti antiformaliste del pensiero giuridico statunitense, e un’altra
chiava di lettura del fenomeno giuridico era la
distinzione law in books/law in action di
Roscoe Pound, anche prima di leggere
veramente Pound2.
Sono rimasto
fedele a questo
originale imprinting anche quando i miei interessi
di ricerca si sono orientati verso lo studio
della condizione dei rom o di chi è percepito
come tale, magari sotto un’etichetta solo formalmente diversa come
“zingaro” o “nomade”, prima nella prospettiva “diritto rom”3 e
successivamente in quella “il diritto e i rom”. Da entrambe le angolature, occorreva, per non deformare la realtà, assumere una prospettiva
antipositivista. Mentre la costruzione teorica di Santi Romano forniva
l’inquadramento concettuale per spiegare il “diritto rom”, per comprendere i
problemi che sorgono nel momento in cui il diritto statale viene applicato ai
rom (o a chi è classificato come tale) era naturale appoggiarsi alla distinzione law in books/law in action. Questa non risultava tuttavia
pienamente soddisfacente come mappa mentale. Appariva infatti subito chiaro che
il problema non era accettare il fatto che al momento della loro applicazione
alcune norme producano spesso
effetti molto distanti
da quelli desumibili dal loro tenore
letterale, dalla statuizione declamata dall’ordinamento, quanto
piuttosto scoprire che certi “sfasamenti” erano legati primariamente proprio
all’identità dei soggetti nei confronti dei quali la forza dello stato si stava
rivolgendo. Ovviamente, esistono articolati approcci teorici circa
la rilevanza di certi elementi
identitari sull’operare e l’evolversi del diritto, basti pensare alla critical race theory4 negli USA. In Italia, si tratta di un dibattito
che non ha tuttavia “sfondato”, anche per la scarsità di studi empirici e per
l’assenza di uno
*
Il presente scritto è l’adattamento di un lavoro di prossima pubblicazione in Processo e cultura giuridica. Procedure and
Legal Culture. Scritti per gli 80 anni di Vincenzo Varano, Giappichelli,
2020.
1 La
celebre battuta è attribuita a James Matthews, un giudice irlandese di epoca
vittoriana. V. M. Hayes,
Access to Justice,
in Studies. An Irish Quarterly Review,
vol. 99 (no. 393), 2010, p. 29.
2 R.
Pound, Law in Books and Law in Action,
in American Law Review, 12 (1910),
pp. 44 ss.
3 Il lavoro di apertura di questo percorso fu A.Simoni, Il giurista
e gli zingari: lezioni dalla
common law, in Politica del diritto, 1999, pp. 629 ss.,
che contiene una lettura critica del famoso articolo di W. Weyrauch, M.A. Bell,
Autonomous Lawmaking: The Case of the Gypsies, in Yale Law Journal, 103 (1993), pp. 323 ss., integrate da una
prima ricognizione comparatistica di misure legislative volte al controllo della mobilità girovaga
di specifici gruppi.
4 V. al riguardo
K. Thomas, G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli
Stati Uniti, Diabasis, 2005.
spartiacque identitario netto e
risalente come quello razziale, o meglio di una consapevolezza piena circa la
sua esistenza5.
I
meccanismi che operano in Italia sono
più sfuggenti di quelli che negli USA portano alle pesantissime ricadute
giuridiche della subordinazione sociale degli afroamericani, pur se non vanno per questo sottovalutati, perché anche essi nascondono
al loro interno un pericoloso germe antiegualitario. Ho in altre sedi cercato
di analizzare questo problema nella prospettiva dell’antiziganismo6, che non
sarà tuttavia centrale in questo scritto, anche se traspare
in controluce in diversi passaggi.
La narrazione che segue non è centrata
su una specifica identità etnica, ma è volta a suggerire che l’ideale che ancora continua a dominare
l’autorappresentazione dell’ordinamento («La legge è eguale per tutti»), è
spesso sostanzialmente una mistificazione nella prospettiva delle persone che vivono in condizione di marginalità nei grandi centri urbani, e sono considerate portatrici di “degrado”. “Soggetti” da allontanare costruendo strategie di
pressione basate non su esplicite politiche discriminatorie, ma sugli effetti
delle iniquità già presenti nei concreti meccanismi di applicazione delle
norme giuridiche, nella law in action appunto, in vigore in certi settori7.
La formula
scelta è quella
del case study, costruito descrivendo vicende nel corso
delle quali mi trovai a difendere, anche
su fronti inizialmente inattesi, i diritti
di due cittadini rumeni, un uomo e una donna, da anni attivi
nell’“economia di strada”
fiorentina. Si tratta di un’esperienza che nella
sua parte “civilistica” è stata resa
possibile dalla collaborazione con un giovane avvocato e
comparatista fiorentino, Giacomo Pailli8. Nata come “ricerca azione”, è poi
diventata una piccola battaglia a favore di persone che ci sembravano
ingiustamente vessate. Una microstoria che sembra racchiudere un condensato di
problemi strutturali di effettività della tutela di diritti fondamentali sui
quali ci sarebbe molto ancora da studiare e
riflettere.
Il
registro scelto è leggero e in parte ironico, e ruota intorno a “voci di
glossario” costruite intorno a lemmi che ritornano di frequente nel dibattito
politico e giuridico, ma per una volta basate sulla prospettiva di persone che
vivono sulla propria pelle la law in
action. Uno stile che mi è venuto spontaneo dopo essermi reso conto che l’evidenza dei meccanismi di discriminazione che emergono è tale che la
loro quieta accettazione da parte delle persone che ne permettono ogni giorno
l’operare (magistrati, avvocati, funzionari
di polizia) produce
effetti lievemente surreali.
Qualcosa, insomma, che ricorda
l’aplomb mantenuto anche
nelle situazioni più
assurde dai personaggi del Fascino
discreto
5 Al
riguardo sono molto interessanti i saggi contenuti nel volume di G. Giuliani (a
cura di), Il colore della nazione, Mondadori-Le Monnier, 2015. Qualche
considerazione in prospettiva fiorentina è stata da me svolta
in Biking while black. Riflessioni a partire dalle recenti circolari
del prefetto di Firenze, in Questione
Giustizia online, 30 novembre 2018.
6 V. i saggi
ora raccolti in A. Simoni,
Rom, antiziganismo e cultura
giuridica, CISU, 2019,
a cui si può aggiungere il recente Dimenticare
i rom? Riflessioni su cultura giuridica e antiziganismo in venti anni che non
hanno lasciato il segno,
in M. Giovannetti, N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi. Trent'anni di politiche e legislazione sull'immigrazione in Italia, Angeli,
2020, pp. 729 ss.
7 Molti di questi
aspetti sono stati
ora approfonditi in G.Pailli, Lo spazio
urbano e la mendicità, in M. Giovannetti,
N.
Zorzella (a cura di), Ius migrandi, cit., pp. 505 ss. Per uno sguardo più
generale su questi problemi in prospettiva
statunitense v. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste
dell’America, Edizioni Gruppo
Abele, 2017. 8 V.
la ricostruzione in A. Simoni,
G. Pailli, Begging for Due Process:
Defending the Rights
of Urban Outcasts in an Italian Town,
in Seattle Law Review, 39 (2016), pp. 1303 ss.
della borghesia di Luis Buñuel. Nell’attesa che «una risata
li seppellisca», non mi pareva quindi il caso di usare un classico registro
accademico.
Naturalmente “Gheorghe” e “Florica” non si chiamano in realtà così,
anche se non avrebbero avuto – credo – nulla in
contrario a prestare le loro vere identità per questo scritto. Per non togliere
colore narrativo ho scelto due nomi di battesimo molto diffusi in Romania. Se il lettore
avverte una certa
vaghezza nella ricostruzione dei fatti, tenga
conto che questa è voluta, per non permettere di risalire troppo facilmente alle persone a vario
titolo coinvolte nella
poco edificante saga
dell’incontro di “Gheorghe” e “Florica” con la città di Firenze e le istituzioni
italiane9.
Tutto quanto narrato è purtroppo vero, e i relativi documenti sono on file with author, come prescrive di dire il famoso Bluebook10.
2. Legalità.
È a questo punto
inevitabile dire qualcosa, senza violarne la privacy, sui nostri due esperti “empirici” di law in action. Si tratta di una coppia ultrasessantenne (anche se i volti
segnati da vite faticose suggerirebbero qualcosa di più), proveniente da una zona rurale
della Romania centro-orientale. La stessa zona dalla quale vengono molte delle
donne rom rumene che con le loro gonne multicolori catturano l’occhio nel
centro di Firenze. Gheorghe e Florica però non avvertono queste donne come
compaesane, ma come “zingare”, classificandole con uno dei tanti nomi
di sottogruppi rom della Romania. Questo non escluderebbe, nel
marasma della galassia
romaní11, che Gheorghe e Florica siano
loro stessi rom. Ma a parte il fastidio verso l’attuale “ossessione
identitaria”12,
il dato era ai nostri fini (miei e di Giacomo Pailli) complessivamente inutile,
qualunque definizione di “rom” si volesse utilizzare. Comunque, oltre a non
utilizzare Florica un abbigliamento femminile “etnicamente caratterizzato”,
entrambi non parlano nessuna variante di romanes, anche se sembrano
conoscere molti termini13.
Quale che sia loro “identità etnica”,
si tratta di componenti di una famiglia
che da almeno dodici
anni, ma forse
di più, si trasferisce a Firenze per una parte
dell’anno, quando non è
impegnata nei lavori agricoli nel luogo di origine. Nei periodi “fiorentini”,
la loro economia è basata primariamente per le donne sulla mendicità, in forma non itinerante e oggettivamente non invasiva, e per gli
uomini sulla musica
di strada e varie forme
di lavoro manuale occasionale. I “modelli abitativi” sono andati variando dalle tende piantate in zone di campagna
dei comuni della
provincia, alla locazione informale presso connazionali, e in alcuni periodi
– come accennerò – all’occupazione di edifici abbandonati, in particolare
capannoni industriali in disuso.
9 Le
vicende descritte hanno in verità coinvolto ben più di due persone, trattandosi
di fatti che toccavano un gruppo familiare esteso.
Per quanto riguarda
in particolare gli aspetti descritti nel secondo paragrafo, la scelta di un
particolare membro della famiglia quale parte processuale era complessivamente
irrilevante, e si è proceduto sulla base di considerazioni pratiche.
10 The
Bluebook: A Uniform
System of Citation, ora alla ventesima edizione a cura
della Harvard Law Review. 11 Sulla difficoltà di delimitare precisamente le categorie “Zingari” e “Rom”, v. l’introduzione di Leonardo Piasere al volume da lui curato Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori,
1995.
12 F.
Remotti, L’ossessione identitaria,
Laterza, 2010.
13 Mi
è stato suggerito che possano appartenere a uno dei tanti gruppi di incerta
classificazione, i cosiddetti “Rudari”, ma non ho ritenuto
opportuno fare le domande giuste.
Sui Rudari v. S. Tosi Cambini, Da un villaggio
del sud della Romania a una città del centro Italia. Alcuni
elementi di riflessione intorno al tempo, allo spazio
e al senso nella
migrazione di una
rete di famiglie
di rudari, in S. Pontrandolfo, L. Piasere (a cura di),
Italia Romaní, vol. 6, Le migrazioni dei rom romeni
in Italia, CISU, 2016, pp. 159 ss.
L’incontro con questa famiglia
è avvenuto per caso, quando mi è stato chiesto
da una persona che li conosceva se potevo interessarmi a un loro
problema “legale”, che nell’immediato aveva l’aspetto moderatamente minaccioso
di un “verbale di accertamento e contestazione” della polizia municipale di
Firenze. Un pezzo di carta sbiadito redatto con grafia poco leggibile nel quale si contestava la violazione di un articolo del regolamento di polizia
urbana, sostenendo che uno di loro nell’atto di mendicare
«arrecava
fastidio» o «intralciava il flusso pedonale».
Non vale
qui la pena di entrare
nel dettaglio tecnico
della contestazione, anche
per un motivo molto semplice, ossia che quel foglio era solo una delle tessere
di un mosaico che apparirà solo dopo aver messo insieme (con tutte le
difficoltà di comunicazione del caso) altri pezzetti
della vita di Gheorghe e Florica, e soprattutto il loro rapporto
con quelle che noi chiamiamo “norme”
e “istituzioni”, in particolare quelle cittadine.
L’immagine composta
dal mosaico è nitida, e rappresenta la battaglia di una città decisa ad allontanarli, considerando la loro presenza
incompatibile con una certa visione del “decoro”. Queste battaglie non
sono nuove per Firenze. Alcune le descrisse con efficacia nel
1999 Antonio Tabucchi
nel suo pamphlet, di recente ripubblicato, dal titolo Gli zingari e il rinascimento14, e tutti
ricordano la famosa campagna del 2007 contro i “lavavetri”15, che fu il laboratorio di molte strategie successive.
Nel momento
in cui Gheorghe e Florica
cominciano la loro migrazione stagionale a Firenze, l’amministrazione
cittadina ha ormai definito la sua priorità repressiva: la mendicità in tutte
le sue forme, considerata uno dei principali segni di “degrado”. La modalità
scelta per rimuoverla dal paesaggio urbano consiste nel rivolgere contro le
persone che la praticano ogni strumento che l’ordinamento mette a disposizione,
senza curarsi troppo della
sua effettiva sostenibilità giuridica e soprattutto senza distinguere tra posizioni individuali. Una scelta in
gran parte spiegabile con il fatto che in una lettura giuridica “ingenua” i mendicanti, che
piacessero o no,
sembravano essere in una posizione abbastanza solida.
Tra il 1995 e il 1999 Corte
costituzionale e legislatore avevano in due passaggi reso irrilevante la
mendicità degli adulti; un’irrilevanza che rimarrà
sino al secondo dei due decreti sicurezza promossi da Matteo Salvini con l’endorsement di Giuseppe Conte16, che
sostanzialmente reintroduce il reato di mendicità “invasiva” depenalizzato nel 1999. Essendo
poi buona parte
dei mendicanti cittadini rumeni, e quindi dell’UE, il diritto dell’immigrazione non soccorreva a compensare l’arretramento di quello penale. Se non si poteva più punire, non si poteva
più neanche espellere, o minacciare di farlo.
E
qui il nostro sguardo e quello di Gheorghe e Florica iniziano inevitabilmente a
divergere. Per un giurista, che ci sia o meno una “fattispecie di reato” non è cosa da poco. Ma
per Gheorghe la distinzione reato/illecito amministrativo non è così netta, e il criptico
14 A. Tabucchi, Gli Zingari
e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze, Feltrinelli, 1999, ora nella
nuova edizione per i tipi di Piagge, 2019, con prefazione di Salvatore Settis.
15 V. A. Simoni,
Lavavetri, rom, stato di diritto e altri fastidi, in Diritto,
Immigrazione e Cittadinanza, 3/2007, pp. 85 ss. e F. Giunta, Lavavetri e legalità, Idem, pp. 81 ss.
16 V. per l’evoluzione dell’ordinamento in tema di mendicità prima del decreto
Salvini-Conte il mio A. Simoni, La mendicità, gli zingari e la cultura
giuridica italiana: uno schizzo di tappe e problemi, in Polis. Ricerche e studi
su società e politica in Italia, 2000, pp. 371 ss. Per il panorama
più recente v. G. Pailli,
Lo spazio urbano e la
mendicità, cit.
foglio consegnato dalla polizia municipala non
aiuta, specialmente se hai alle spalle solo qualche anno di scuola elementare
ancora quando un altro Gheorghe, Gheorghe Gheorghiu-Dej, predecessore del Conducător Nicolae Ceaușescu, era al
potere in Romania.
Nella
relazione diseguale tra mendicanti come Gheorghe e Florica e le polizie di
qualunque genere, locali
o nazionali, il messaggio che passa attraverso i fogli con
i “verbali di contestazione”
è essenzialmente un messaggio di minaccia, che vuole evocare la possibilità di sanzioni più severe. Ovviamente questo è noto
alle autorità cittadine, che non pensano certo
a questi verbali
come a un mezzo per rimpinguare le casse comunali, scopo come noto invece
non secondario dei verbali per violazione del codice della
strada elevati verso cittadini mainstream, titolari di beni sui quali in un modo
o nell’altro ci si può rivalere.
I verbali per violazione del regolamento di polizia urbana sono invece un altro
genus, e l’idea che vi è dietro la loro consegna
è quella della deterrenza
psicologica, secondo una scuola di pensiero, che potremmo
definire quella degli effetti “sperati e voluti”, già esplicitata in occasione
delle ordinanze sui lavavetri del 200717. Una deterrenza che è perseguita
pervicacemente con una tecnica molto semplice, ossia contestare a ogni
possibile occasione supposte
violazioni, utilizzando disposizioni che fanno riferimento al “fastidio” o a simili concetti
“gommosi”. Gheorghe, Florica
e le altre persone nelle stesse
condizioni rapidamente si trovano con un ammontare complessivo di sanzioni
pecuniarie a loro carico ragguardevole, e certamente al di là delle loro possibilità.
Sino
a questo punto, si potrebbe obbiettare, siamo comunque nella perfetta legalità, e ovviamente la mia personale
convinzione che nella
mendicità dei due anziani
signori rumeni non vi fosse niente di “fastidioso” o “invasivo” non vale di più
del convincimento di un qualunque agente di polizia municipale. Questa tensione
tra due opposte visioni circa la liceità di un comportamento che un’autorità
pubblica vuole sanzionare sarebbe, va da sé, fisiologicamente destinata a
essere risolta con una delle infinite microrepliche dell’idea
di fondo di “stato di diritto”. Un’idea
che l’amministrazione
cittadina assolutamente non rinnega. Anzi, è molto attenta a sottolineare che
l’azione di lotta al degrado
è un’azione volta al recupero della “legalità”. Il verbale prevede
d’altronde la possibilità di produrre “scritti
difensivi” entro trenta
giorni, e se andasse male sarebbe
comunque possibile, al momento della successiva emissione dell’ordinanza-ingiunzione di
pagamento, andare di fronte a un giudice.
Certamente, per persone nella
condizione di Gheorghe
e Florica, un problema di accesso alla giustizia esiste anche
per simili minute procedure, ma sembrerebbe qui risolto dal caso, visto il loro
incontro con dei giuristi pronti ad assisterli pro bono. Con fiducia nella rule of law provvediamo quindi a farci
rilasciare il necessario mandato, che abbiamo preparato addirittura in una versione bilingue, mandato/mandatul, e a sottoporre
“scritti difensivi” con argomenti che ci sembravano di un certo
spessore.
L’evoluzione successiva ci ha mostrato
però come la law in action sia influenzata non solo da possibili
differenze nell’interpretazione delle norme, ma anche da strategie giuridiche, dove le potenziali parti di un processo a
volte mirano a «deprive the judge of
17 L’espressione “sperati
e voluti” è tratta da una dichiarazione del Sindaco Leonardo
Domenici. V. i riferimenti
in A. Simoni, Rom, stato di diritto e altri fastidi, cit.
any say at all
in the outcome of the case»18. Il
comune di Firenze, infatti, non ha mai risposto a nessuno degli scritti
difensivi sottoposti, né tanto meno dato seguito con un’ingiunzione di
pagamento al procedimento sanzionatorio. Una situazione solo apparentemente
soddisfacente in quanto, per un orientamento giurisprudenziale consolidato, a
differenza delle sanzioni della circolazione stradale non è possibile fare
ricorso presso un giudice contro
il verbale di accertamento, ma solo contro
l’ingiunzione di pagamento quando questa sia emessa. La legal strategy del “muro di gomma”
lascia quindi la spada
di Damocle della
riscossione pendente sino
al decorrere della
prescrizione quinquennale, e più in generale
blocca ogni verifica
giurisdizionale, anche indiretta, sulla legittimità delle sanzioni
per i comportamenti considerati “fastidiosi”.
Nella loro
prospettiva esperienziale di stat de drept
in versione Florenţa, Gheorghe e Florica hanno quindi potuto
verificare una peculiare doppia velocità, dove alla sollecitudine nel contestare le supposte violazioni faceva da contraltare l’immobilismo di
fronte agli “scritti difensivi”19. In un paio di occasioni chiesero con tono
incuriosito se la polizia municipala avesse
risposto ai nostri scrisori, e poi
con molto buon senso si dedicarono ad altro. I loro difensori gli erano grati
per avergli fatto scoprire un vuoto di tutela dell’ordinamento che dovrebbe
interessare anche a chi non è un mendicante rumeno, ma la battaglia
a quel punto sarebbe potuta
proseguire unicamente attraverso i vari livelli di giurisdizione italiani, senza portar loro
alcun beneficio pratico neanche remoto.
Successivamente, le energie dedicate
dal comune di Firenze alla
repressione della mendicità
hanno permesso a Gheorghe e Florica, insieme al sottoscritto e a Giacomo
Pailli, di osservare un altro esempio di “strategia giuridica evasiva” messa in
atto dalle autorità cittadine, questa
volta con riferimento alla tutela della privacy. I nostri due amici
rumeni in questo caso non avevano subito alcuna materiale vessazione, ma con il
loro mandatul ci avevano reso il favore
accettando di partecipare a un piccolo
esperimento di cause lawyering.
La
vicenda è peculiare. In un’intervista a un quotidiano molto diffuso i vertici
dell’amministrazione cittadina affermavano di aver predisposto un data base dei
mendicanti, contenente una serie di informazioni (tra cui le patologie) a tutti
note come supertutelate in quanto
“sensibili”. Se si prendevano alla lettera le parole messe in bocca agli amministratori dal giornalista,
si trattava senza dubbio di un’attività illecita. Da lì il nostro test case. I nostri due amici non
potevano a logica essere rimasti fuori da questa ipotetica “schedatura”, e
comunque qualche loro dato (non fosse altro per la quantità di verbali di
contestazione ricevuti) doveva inevitabilmente essere in possesso dell’amministrazione. Di conseguenza, sulla base di un altro mandato/mandatul, decidiamo di
inviare all’amministrazione una semplicissima richiesta di accesso sulla base
della legge sulla privacy, dove la si
invitava a comunicare entro trenta giorni quali erano i dati in suo possesso
circa Gheorghe e Florica. Un’attività che avrebbe richiesto agli amministratori un breve
accesso ai sistemi
informatici e la preparazione di una lettera
allo studio legale scrivente, e questione chiusa.
18 Una
theory of legal strategy era stata
articolata in uno stimolante articolo dello stesso autore che lanciò negli USA il filone della gypsy law.
V. L.M. LoPucki, W.O. Weyrauch,
A
Theory of Legal
Strategy, in Duke Law Journal, 49 (2000), pp. 1405 ss. (la frase citata è a p. 1443).
19 Per
i passaggi della vicenda v. A. Simoni, G. Pailli, Begging for Due Process, cit.
L’amministrazione
ha invece, con nostro stupore, scelto anche qui il “muro di gomma”. Il comune
non ha infatti mai risposto alla richiesta di accesso, e ha preferito avviare
con noi una battaglia ancora in corso ad anni di distanza. Gheorghe e Florica
si trovavano ora a parti invertite
rispetto alla loro vita ordinaria, attori in un giudizio presso il
tribunale di Firenze ai sensi
della legge sulla
privacy, del
quale informiamo anche
l’autorità garante per i dati personali. Il comune sarebbe stato ancora
in tempo a risparmiare le spese legali decidendosi a mandare questi
benedetti dati e dimostrare che non esisteva alcuna “schedatura dei
mendicanti”. Preferisce invece resistere, con un costo non irrilevante per le casse cittadine, costringendoci a tutta la trafila del processo.
In prima istanza il nostro test case non ottiene
l’effetto voluto, con un giudice
che respinge le nostre
liste di testimoni, in cui erano
inevitabilmente finiti nomi che negli ultimi
anni hanno assunto rilevanza nazionale, e rigetta la domanda, compensando le
spese legali, che quindi
sul lato del convenuto rimangono a carico del
contribuente. Non è questa
la sede per sviscerare gli argomenti di diritto processuale (lo saprebbe fare Giacomo Pailli, non certo io) che mettono in luce un giudice forse
lievemente miope rispetto
al problema di principio, anche volendo scontare
qualche nostro errore di impostazione, visto che col senno
di poi forse dovevamo lasciare
il problema del data base sullo sfondo,
e continuare nell’immediato in
una finta ingenuità alla «Gheorghe vuole avere i suoi dati, della schedatura di altri non sa e non gli importa nulla».
La difesa del comune ha potuto invece “svicolare” nelle sue repliche
mantenendole sul piano «non abbiamo fatto schedature», invece di rispondere semplicemente alla richiesta circa
l’esistenza o meno di dati sui due richiedenti, e poi lasciare
ad altri valutare
se questi erano lecitamente conservati.
Comunque, con
il consenso dei nostri assistiti decidiamo di andare
in Cassazione, visto che per i ricorsi in materia di privacy l’appello non è previsto.
Ovviamente Gheorghe e Florica
hanno capito benissimo che questa storia
del recursul în casație
era simpatica e un segno di affetto, ma che non portava
certo cose utili nel breve periodo. È probabile d’altronde, anzi direi certo,
che se ne siano dimenticati, visto che il fascicolo dorme da più di
tre anni a Roma negli uffici di piazza Cavour.
Certamente,
tutto questo a noi ha insegnato molto sui problemi dell’accesso alla giustizia dei marginali, e a Gheorghe e Florica ha confermato che quando provi
ad andare contro la polizia municipala comunque sono grane e se ne cava poco,
e che questa cosa dello stat de drept è
un po’ una fregatura. A noi verrebbe
da spiegare che non sono le legile
italiene sulla privacy il
problema, ma la law in action
e la “ragionevole durata del processo”, concetto che mica è semplice da tradurre. Meglio
lasciar perdere e ringraziare della loro
pazienza.
Visto
che si parla di law in action, chiudo
questa sezione accennando a un altro aspetto
che mi ha colpito, ossia
il vedere che in queste
vicende di cause lawyering ormai il media coverage conta
tanto quanto i lawyers. Il nostro test case nasce, come ho detto, da una notizia di stampa, ma
nell’immediato decidiamo di non girare ai media la notizia della nostra azione
legale. Informiamo però formalmente della nostra richiesta e dell’azione in giudizio il garante della
privacy, che non assume
alcuna iniziativa per molti
mesi. Un silenzio che cessa incredibilmente solo quando la notizia di quanto
stavamo facendo esce su un quotidiano. A distanza di pochi giorni,
il garante invia una richiesta
di chiarimenti al comune,
che risponderà anche qui in modo
evasivo, giocando sull’ambiguità della distinzione data
base/dati individuali. Effettivamente questo dimostrava una certa
inadeguatezza del nostro approccio esclusivamente giuridico, che guardava sino ad allora con un atteggiamento un filo snob
alle “campagne mediatiche”. Campagne che invece sono uno strumento da sempre
utilizzato nel mobilitare l’opinione pubblica contro i mendicanti, ingigantendo
la loro presenza e i loro guadagni e così indirettamente orientando il law enforcement nei
loro confronti20. Una parte di un fenomeno
più generale di interazione tra stampa e giustizia che proprio il padre della
law in action, Roscoe
Pound, aveva studiato insieme
a Felix Frankfurter nel pionieristico Criminal Justice
in Cleveland21; sono il numero e la gravità
delle violazioni della legge “percepite” attraverso i media,
non quelle reali, che influenzano il livello di severità dei sistemi repressivi. Un lavoro che sta per compiere un secolo, ma che nell’epoca dei populismi penali andrebbe tradotto
in italiano.
3.
Audiatur et altera
pars.
La familiarizzazione di Gheorghe e Florica con la law in action italiana non si è però
fermata alle “voci” civilistiche, perché
l’ordinamento gli ha concesso anche
la possibilità di approfondire la dimensione
processualpenalistica. A voler essere precisi, più il “diritto dell’esecuzione
penale” che il processo di cognizione. Sì, perché un trial, seppur nella versione italiana, insomma
quella “cosa” in cui tu sei davanti
a un giudice e un altro, che ha studiato
più o meno come il giudice, dice
che hai fatto
questo e quello
e un altro ancora, che anche
lui dovrebbe aver studiato e che sta dalla tua parte, invece
dice “no, non è così”, quella cosa lì in cui puoi dire la tua (“audiatur et altera pars”, a chi piace il latino)
Gheorghe e Florica non l’hanno mai vista.
Non l’hanno
mai vista in Italia, ma neanche in Romania, perché
– che loro sappiano
– nessuno li ha
mai accusati di nulla né qui né là. Quindi non possono fare una comparazione italo-rumena. Però insomma una televisione ce l’hanno (in Romania) e cosa
fa un giudice per giudicare l’hanno ben visto in qualche
film, anche se magari
americano. Sanno anche, sentendo
di qualche conoscente che qualcosa di non bello pare aver fatto,
che se il giudice è stato cattivo
e puoi pagare un avvocato
è possibile riprovare alla Curte de Apel, e addirittura – se
proprio hai molti soldi – alla Curte de
Casaţie a Bucarest. Probabilmente non sanno che quella di Bucarest è
parente stretta della nostra, con un nome completo un filo anzi ancora più
solenne. Non solo Înalta Curte de
Casaţie, che sarebbe come
la cugina “Suprema” di piazza Cavour
a Roma, ma addirittura de Casaţie
şi Justiţie, “di cassazione e giustizia”. A “risalire per li rami”
poi si scoprono somiglianze di famiglia non da poco, come il fatto che l’unico
esempio di precedente storico del nostro art. 111, che costituzionalizza il
diritto al giudizio di cassazione, è nella costituzione rumena del 193822. Durata
poco, certo, ma se Gheorghe
lo sapesse lo farebbe un pochino
pesare. La data di istituzione (1909) del suo più risalente antenato23 il CSM
rumeno l’ha messa addirittura nel nome del sito ufficiale24.
20 V. l’interessante K. Segrave, Begging in America 1850-1940. The Needy, the Frauds, the Charities and the Law, McFarland & C., 2011.
21 R. Pound,
F. Frankfurter, Criminal Justice
in Cleveland. Reports
of the Cleveland Foundation Survey
of the Administration of Criminal Justice
in Cleveland, Ohio,
Cleveland Foundation, 1922.
22 Art. 75.3: Dreptul de recurs in casare este de ordin
constitutional.
23 Il Consiliul superior
al magistraturii, istituito dal titolo XIII della Lege pentru
modificarea unor dispoziţiuni din legile relative la organizarea judecătorească din 24 martie
1909.
Ma
Gheorghe e Florica non vogliono studiare il diritto con colte digressioni
storiche. A loro interessano gli effetti ultimi, la sanzione, o al limite i
provvedimenti che degli effetti ultimi sono l’antefatto, l’avvisaglia.
Avvisaglia che
arriva attraverso l’Arma
dei Carabinieri, che con lodevole
efficienza trova Gheorghe nonostante l’assenza di fissa dimora, per
notificargli un atto che poi in fondo è un’opportunità, un favore che
l’ordinamento offre in ossequio ai principi che conosciamo circa la funzione
rieducativa della pena, il carcere come ultima ratio, ecc. Il documento dice che c’è una condanna
a sei mesi di reclusione passata in giudicato, e gli prospetta alcune
alternative al carcere, dandogli un mesetto
per pensarci e scegliere cosa chiedere, nessuna fretta. Il giudicato si è formato
d’altronde un anno e mezzo prima, e si
sa che queste cose vanno lentamente.
Per un attimo la fiducia in Gheorghe ha – confesso – traballato. Una condanna a pena detentiva, esecutiva, a “sua
insaputa”? Suona male, Gheorghe. Non è noto che in Italia alla fine in prigione
è difficile andarci veramente perché i giudici sono buoni e di sinistra? Quindi,
qualcosa di serio
avrai fatto.
Ottenere il fascicolo relativo
a un processo per un reato “minore”
ormai chiuso non è semplice. Ma gli avvocati del
nostro, forti dell’ennesimo mandato, a questo punto si erano incuriositi. Che l’assistito nella
causa contro il comune di Firenze, apparentemente perfetto “soggetto
vulnerabile” difeso in un test case su un problema di principio, fosse in
realtà uno scaltro delinquente? Come
principianti della civil rights
litigation si iniziava male. Lezione 1: scegliere
bene le parti da difendere quando si fa cause lawyering, in modo che non
siano attaccabili da altri fronti.
In fondo, anche la NAACP aveva preferito Rosa Parks a Claudette Colvin, un’altra ragazza
afroamericana alla quale pure era stato chiesto
mesi prima di cedere
a un bianco il suo posto in autobus, perché
non riteneva Claudette
ideale per dare visibilità alla propria campagna25.
Una
volta emerso dagli archivi, il fascicolo riabilita ai nostri occhi Gheorghe, e
al tempo stesso ci fa scoprire
che anche Florica
è nella stessa identica situazione, solo che è in Romania e la longa
manus della Benemerita laggiù non arriva
per la notifica a un “sfd”
(senza fissa dimora).
Il
faldone ci mette in mano un piccolo studio in vitro su come la macchina della
“giustizia minore” possa
diventare un tritacarne, sostanzialmente cieco rispetto
ai destini individuali, in
virtù di difetti e iniquità tanto evidenti da non lasciare altra alternativa
che pensare che la sostanziale acquiescenza nella quale essa
opera sia dovuta
al disinteresse della maggior
parte di avvocati
e magistrati per i destini
di chi vive ai margini
della società. Mutatis
mutandis, quanto avvenuto a Gheorghe e Florica non sembra mostrare un
particolare progresso rispetto al 1916 quando il giovane Gramsci, «caduto per
caso nell’aula di un tribunale», dopo aver assistito a una serie di
“direttissime” pubblica nell’edizione torinese dell’Avanti! un articolo dal titolo «Pregiudicati», nel quale dichiara
di non aver simpatia per gli scrittori alla Victor Hugo,
ma ciò nonostante esprime la speranza
che «uno di quei grandi retori, di quei feticisti del “popolo” inchiodasse alla
gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori
del diritto, di questi irresponsabili che vengono
assunti alla cattedra
seguendo il pregiudizio che la collettività
25 V. P. Hoose, Claudette Colvin: Twice Toward Justice,
Kroupa Books, 2009.
possa davvero
essere difesa da loro. Perché
pensiamo che noi non possiamo
subito dare una sanzione
punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che
la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi
commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice
memoria»26.
Oggi i meccanismi sono solo lievemente
più raffinati.
Il
fascicolo emerso ci rivela l’instaurazione di un procedimento penale per
violazione dell’articolo 633 c.p., invasione
di terreni o edifici. In effetti, quattro
anni prima la famiglia
si era installata in un capannone in disuso. Di nessun interesse per la persona che lo aveva in comodato, ma non
abbastanza distante dagli occhi degli abitanti della zona, che richiamano
l’attenzione di chi di queste cose si occupa presso il reparto “antidegrado” della
polizia municipale. Si tratta di un reato perseguibile solo a querela
di parte, ma il comodatario si convince, nel dialogo con i funzionari, che – certo – è meglio tutelarsi. Le autorità preposte
danno seguito, e provvedono allo sgombero (che gli atti ci
dicono pacificamente accettato dagli occupanti), notificando la denuncia per il
reato e contestualmente chiedendo a Gheorghe, Florica
e agli altri nove soggiornanti di eleggere domicilio presso
un difensore di fiducia. Se non hanno
il nome di un avvocato
(come era ovvio) nessun
problema. Esiste un sistema che un difensore d’ufficio te lo individua
all’impronta, pescandolo da apposita lista.
Per ognuno degli occupanti un iscritto all’albo quindi viene regolarmente assegnato
dal sistema. La forma è salva.
Trascorso
il tempo che deve trascorrere, l’udienza arriva nel modernissimo palazzo di
giustizia adiacente al nostro dipartimento. Si tratta certo di quei
procedimenti oggi considerati, come scriveva Giuseppe Battarino commentando il
pezzo di Gramsci appena citato, “giustizia minore”, “casi semplici” per i quali
le risorse vanno
risparmiate. La machinery of justice italiana non si
presenta quindi all’udienza con la sua guardia imperiale. Onorario
il pubblico ministero, onorario il giudice.
Però come parità
delle armi il colpo
d’occhio non doveva
essere male, undici
avvocati, dei quali
però nessuno aveva
mai visto o sentito gli assistiti.
Un
sussulto di due process, a onor del
vero, l’avvocato di Florica lì per lì ce l’ha, chiedendo se le parti
conoscono l’italiano. La risposta del funzionario di polizia municipale chiamato a deporre è assolutamente affermativa, e soddisfa la corte. Non avranno il data
base, ma certo buona memoria. Citandone il cognome,
l’ispettore dell’antidegrado ricorda che sono «i musicisti» e «l’italiano lo sanno bene».
In realtà almeno
per quanto riguarda Gheorghe le sue conoscenze dell’italiano sono ridottissime, e ogni dialogo
anche semplice con noi si è
dovuto svolgere con l’assistenza di qualcuno che parlasse rumeno. Ma
evidentemente nella law in action della “giustizia minore” le conoscenze linguistiche sono valutate “a pacchetto”, per nucleo familiare
sulla base di dichiarazioni di terzi.
L’esito del processo è una condanna per tutti a sei mesi di reclusione, e sappiamo che qui le porte
del carcere nella
law in action non
si dovrebbero di norma aprire,
ma il passato di Gheorghe e Florica effettivamente un altro attacco
alla società lo nasconde.
Un singolo
precedente uno, dice
il sistema informativo del casellario, ma non da poco. Una tenda piantata dieci (10) anni fa in un campo incolto di un comune a sud di Firenze,
lo
26 L’articolo è leggibile in G. Battarino, Una lezione
(attuale) di Gramsci
sugli affari penali
semplici, in Questione
Giustizia 2/2014 (ora nuovamente pubblicato in Questione
Giustizia online, 27 aprile 2018).
stesso dove
abitavo io. Pure lì rapido sgombero, processo in assenza, ma “attenuanti
prevalenti su aggravanti” e settanta euro di multa. Ma tanto basta per essere
di fronte a una “recidiva specifica infraquinquennale”. Al raggiungimento dei
cinque anni non mancava poi molto,
ma con il metodo usato nel calcolo di queste cose (dalla condanna, non dal fatto, che con i tempi
della giustizia non sono proprio
noccioline), non ci si arrivava e questo (almeno per il giudice
onorario) escludeva l’applicazione della condizionale.
Di tutto questo arrabattarsi della giustizia italiana
sui casi loro Gheorghe e Florica
nulla sapevano. Non
hanno neanche capito
che il loro day in court l’ordinamento lo avrebbe
garantito. Ma perché non vi è stato, e la condanna è diventata definitiva?
Ribellione all’ordinamento? Evidenza della
loro appartenenza a una «Gente
vagabonda in lotta
con le leggi»27? Banale
convinzione di farla franca? Per avere la risposta in questo caso basta
ribaltare la prospettiva, praticando non “empatia emotiva”, da alcuni
giustamente criticata28 come base di decisioni in tema di diritti, ma una minima
“empatia cognitiva”, ossia comprendere come la realtà
si pone agli occhi dell’altro.
Ho
sfiorato la questione delle barriere linguistiche, ma il problema è ancora più
concreto, se si riflette circa le forme che prende in casi come questi quella
che viene chiamata “instaurazione del contradditorio”. Tutto
si gioca sulla
comprensione di un foglio
fitto di termini giuridici o comunque complessi in una lingua straniera messo
in mano durante uno sgombero
a una persona sostanzialmente analfabeta. Un foglio il cui aspetto non ha nulla che lo distingua da un qualunque verbale di violazione amministrativa, e che è
consegnato a chi immediatamente dopo dovrà trovare un altro riparo per la notte
e risolvere le mille
incombenze della vita
di un marginale urbano. Vedremo
quali effetti finali ha prodotto questa barriera
comunicativa iniziale, in termini di sottoutilizzazione delle tutele che
l’ordinamento, la law in books,
concretamente avrebbe offerto, visto che non siamo più ai tempi di Gramsci.
Una sottoutilizzazione che, va notato,
plausibilmente non si sarebbe
verificata se le persone coinvolte avessero avuto un’effettiva precedente
familiarità con la giustizia penale,
se avessero commesso
insomma “altri reati” (vedremo
oltre il perché delle virgolette), e quindi fossero
state in contatto
stabile con un avvocato
di riferimento come la maggior
parte dei “delinquenti veri”.
4. Certezza della pena.
Per l’ultimo
capitolo della storia
di Gheorghe e Florica ho scelto un termine che in
senso stretto – come sappiamo
– non fa parte del lessico tecnico-giuridico, ma che negli ultimi anni ha grande successo nel
linguaggio della politica. Generalmente è utilizzato affermandone l’assenza o
debolezza in Italia, ma senza articolarne precisamente il contenuto, ed è diventato uno dei cavalli
di battaglia dialettici del populismo.
Che contenuto si potrebbe dare alla locuzione “certezza della pena”
per costruire il
glossarietto di Gheorghe
e Florica? Senza
timore di approssimazione, credo di interpretare correttamente il pensiero dominante nelle populiste menti
proponendo «Sicurezza che
chi
27 Era il titolo
di un libro del 1914 sugli zingari
il cui contenuto è analizzato in A. Simoni,
I
giuristi e il «problema
di una gente vagabonda»: considerazioni intorno a un libro di inizio ‘900 nato
da un incontro con i Rom meridionali, in S. Pontrandolfo e L. Piasere
(a cura di), Italia Romaní III,
CISU, 2002, pp. 265 ss.
28 P. Bloom, Against Empathy.
The Case for Rational Compassion, 2016 (tr. it. Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, Liberilibri, 2019).
ha commesso
un reato sconti sempre e comunque la pena carceraria prevista nel codice, senza che questa venga ridotta per
effetto di altre norme di qualsiasi genere, anche collegate a cosiddette
garanzie processuali». Si tratta di una locuzione che delinea una giustizia penale
in verità inesistente anche nei paesi considerati modelli
di harsh justice29,
semplicemente perché insostenibile, ma che ha una carica
simbolica molto potente.
Nella limitatissima prospettiva di Gheorghe e Florica, la “certezza della
pena” in questi termini
invece è una calzante descrizione empirica del sistemul penal
italian, e anzi tutto sommato
si può pensare
che gli è andata bene,
perché uno dei
decreti sicurezza di Salvini e Conte ha elevato la pena edittale
per l’invasione di terreni ed edifici, e qualche
anno dopo i sei mesi potevano quindi
diventare anche di più30. Se non era per il casuale incontro con il sottoscritto – avvenuto ormai
alle “porte con i sassi”
come si dice a Firenze
– il fluire
della giustizia penale contro la coppia ultrasessantenne poteva riflettere il
libro dei sogni del ministro Bonafede,
e non essere bloccato neanche
per pochi mesi da inutili arzigogoli.
L’arzigogolo
di più immediato uso sarebbe stato ovviamente un bel ricorso in appello, seguito
da – sprechiamoci – uno in Cassazione se andava male pure lì. Visto che gli ermellini custodivano il faldone
della privacy da anni, si poteva
sperare che come inconsapevole indennizzo si tenessero a frollare anche il
fascicolo penale, così da raggiungere l’aborrito termine di prescrizione.
D’altronde, come si dice in un’altra espressione del vernacolo fiorentino,
«poggio e buca fa pari». Non tutti i ritardi della giustizia vengono per nuocere.
A
leggere le carte, questo dovrebbe essere l’esito della vicenda per la maggior
parte degli altri membri della famiglia e dei conoscenti che dormivano nello
stesso capannone, i cui avvocati non hanno pure loro mai avuto contatti con gli
assistiti, ma hanno comunque depositato dei ricorsi in appello con argomenti
difensivi ben articolati. Mi dicono – ma non so se sia vero – che spesso queste
cose vengono affidate a fini formativi a praticanti, che quindi ci mettono
impegno.
Gheorghe
e Florica però sembrano essere stati sfortunati. Rintraccio i loro due avvocati per capire cosa sia avvenuto.
Il problema non sembra essere
stato la mancanza di praticanti. In un caso il
professionista, mostrando (o simulando con buona efficacia scenica) una
sorpresa costernazione, confessa che proprio non si ricorda chi se ne dovesse occupare all’interno dello studio,
e che quindi sì effettivamente se lo erano
proprio dimenticato. Nell’altro caso invece il “collega” non sembra essere
stato roso da dubbi. Non so
se lo posso dire, ma me ne assumo la responsabilità. L’avvocato al telefono mi spiega
che «la pena gli sembrava congrua» e che d’altronde «sono rumeni, e commettono
altri reati». Ergo, niente
appello in tutti
e due i casi, e le sentenze
erano passate in giudicato.
Assunta la difesa di tutti e due, dal punto di vista tecnico
quello che vi era da fare
era decisamente nei limiti delle capacità anche di un non-penalista come il
sottoscritto, con l’aiuto di qualche consiglio di persone competenti.
Nell’immediato, nulla di più che chiedere entro il termine una misura alternativa. Ma per l’affidamento in prova occorre
un
29 È il titolo dell’illuminante libro di J.Q. Whitman, Harsh Justice.
Criminal Punishment and the Widening
Divide between America and Europe, Oxford
University Press, 2003.
30 D.l. 4 ottobre 2018 n.
113, conv. con modif. dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132, art. 30, c. 1.
domicilio, e per
la detenzione domiciliare lo dice la parola stessa… Inevitabilmente predisporre
le richieste dava un senso di amara vertigine, vista la realtà delle vicende e
delle vite che andavano riassunte all’Illustrissimo Tribunale di Sorveglianza. Le vite di due
persone i cui certificati di “ricerca ristretto” emessi dal DAP attestano che
“a far data dal 1990, non è mai stato
detenuto”, e che sarebbero state però “ristrette” in carcere per aver
dormito in un capannone in disuso.
Sarebbe
ingiusto attribuire al personale del tribunale di sorveglianza ulteriore
accanimento rispetto a quello già generato dal sistema. È giusto invece
ricordare che un funzionario della segreteria si prodigò
oltre i propri doveri d’ufficio, e che mi vennero informalmente prospettate tutte le soluzioni
astrattamente possibili. Ma il quadro di fondo della law in action (ma
anche in books in
questo caso), una volta che la pena è esecutiva è quello che è. Il fatto che chi non disponga
di domicilio debba
andare in carcere
anche se la condanna
permetterebbe una misura alternativa, in una sorta di supplemento di pena per la “colpa” della povertà, è pacificamente accettato.
All’udienza
della sorveglianza, il giudice fu cortesissimo, ascoltò senza interrompere per
trenta secondi la narrazione degli antefatti che spiegavano perché eravamo lì,
prima di ricordarmi quello che già sapevo, ossia che tutto ciò non era, purtroppo,
rilevante in quella sede.
Mi
colpì il modo in cui il pubblico ministero esalò un «Contrario!», con il quale
riteneva assolto il boulot della giornata. D’altronde oggettivamente la fila di avvocati che premeva per il proprio
turno era lunga,
come da foglio
manoscritto appeso alla porta con lo
scotch. Probabilmente, come il pubblico ministero dell’articolo di Gramsci,
anche per questo «Il suo
dovere, secondo lui,
è di condannare sempre», e d’altronde la formulazione
lapidaria gli poteva
essere perdonata, visto
che in questo
caso, tecnicamente, la condanna
vi era già stata, e si discuteva “solo” se andare in carcere. Non
inaspettatamente, la richiesta di misure
alternative di Gheorghe
viene rigettata, mentre
quella di Florica
invece (anche se identica, copy-paste, misteri
degli uffici…) viene
addirittura dichiarata irricevibile per mancata indicazione di un domicilio
idoneo.
Alla
fine, la polizia municipale ha vinto, e la rimozione di Gheorghe e Florica è
avvenuta in ossequio a una “legalità” che a qualunque
osservatore apparirà caricaturale, ma a molti basta
per considerare le regole rispettate. Dove sono ora Gheorghe e Florica?
Non vi è stata occasione di saluti, né comprensibilmente si sentono obbligati a informarmi circa i loro whereabouts. Mi sembra inevitabile pensarli in Romania,
dopo aver cancellato l’Italia dal proprio futuro.
Stanno “fuggendo dalla giustizia”, come direbbero i corifei della “certezza della pena”? Lascio
cadere l’interrogativo, e concludo con questo passo del Macbeth, che sembra scritto
apposta per loro:
«Questa freccia
mortale ora scoccata
ancora non s'è scaricata a terra,
e la
via più sicura
per noi due è di scansarci dalla
sua gittata.
Perciò a cavallo! E senza preoccuparci dei soliti congedi.
Via, furtivi: non c'è
furto nell'involar se stessi quando
non c'è garanzia di pietà»31.
31 Macbeth, III.II:
«This murderous shaft that's
shot Hath not yet lighted; and our safest way
Is to avoid the aim. Therefore, to horse,
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And let us not be dainty of
leave-taking
But shift away. There's warrant in
that theft Which steals itself
when there's no mercy left».
Ho
scelto, perché mi sembrava particolarmente adeguata al contesto di questo
scritto, la traduzione di Goffredo Raponi, liberamente accessibile in rete
(www.liberliber.it). Sulla peculiarità e lo stile di questo traduttore di
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(a cura di), Italia Romani
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Id., Lavavetri, rom, stato di diritto e altri
fastidi, in Diritto, Immigrazione e
Cittadinanza, 3/2007, pp. 85 ss.
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Riflessioni a partire
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Giustizia online,
30 novembre 2018.
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Id., Dimenticare i rom? Riflessioni su cultura giuridica e antiziganismo in venti anni
che non hanno lasciato
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Ius migrandi. Trent'anni di politiche e legislazione sull'immigrazione in Italia, Angeli,
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