Ha proiettato un prisma di luci e ombre sulle vicende quotidiane del nostro
novecento esistenzialista. Abile nel romanzo come nel testo teatrale e nella
pièce radiofonica, lo svizzero Friedrich Dürrenmatt (5 gennaio
1921 – 14 dicembre 1990), ci ha lasciato una poetica tra assurdo quotidiano e
giallo filosofico, in cui sovente la giustizia, asfissiata dalla logica, fa
fatica a trovare la luce nel contraddittorio mondo degli uomini. E se talvolta
pare che il ragionare stia diradando le nebbie ecco che inaspettatamente la logica
va in blocco: è arrivato, inatteso, il caso, come poi nel cinema di Krzysztof
Kieślowski, a risolvere tutto con un finale accettabile ma illogico (La
promessa, romanzo del 1957).
Dalla contestazione al successo
Ad una gioventù affidata alla contestazione, con alcol e droghe, e ad un
forte impegno politico, farà seguito, per il giovane intellettuale svizzero,
una brillante laurea in filosofia, il ritiro dalla scena pubblica, e la
prorompente passione per la scrittura, con cui riuscirà a mantenersi. Due
romanzi ricevono una accoglienza entusiasta: Il giudice e il suo boia (1950)
e La promessa (1957). Anche le sue pièces teatrali s’impongono
tra il pubblico e la critica, tanto da divenire uno degli autori più
rappresentati sin negli anni sessanta. I suoi testi (La panne, I
fisici, Operazione Vega, ed altri) che raccontano vicende
logicamente illogiche lo hanno fatto porre, dallo studioso Martin
Esslin, accanto ai grandi autori del teatro dell’assurdo (Samuel Beckett, Harold
Pinter, Eugène Ionesco, Arthur Adamov).
Trasposizioni dei suoi romanzi in film, a partire dagli anni settanta, lo hanno
reso ancora più conosciuto tra il pubblico. A completare il felice eclettismo
di Dürrenmatt va aggiunto che è stato pittore e, occasionalmente, sceneggiatore
e attore di cinema.
Il giudice e il suo boia (Der Richter und sein Henker,
1950): dal romanzo al film
Se il “teatro dell’assurdo”, come lo definì Martin Esslin nel
1962, si fa iniziare con l’opera teatrale La cantatrice calva (1950)
di Eugène Ionesco, tale primato, a nostro parere, andrebbe condiviso, sul
versante della “narrativa dell’assurdo”, con il romanzo Der Richter und
sein Henker (1950) di Dürrenmatt: un romanzo pienamente kafkiano, nel
senso più letterale del termine. Scovare l’assassino di un giovane
vicecommissario Schmidt, sarà il compito del vecchio e malato commissario
Barlach. Investigatore che, nel film-tv Rai del 1972, Il giudice e il
suo boia (Daniele D’Anza) è un calmo e raziocinante Paolo
Stoppa (memore della recitazione in Il Gattopardo, 1963,
di Luchino Visconti, 1963). Il film accolto positivamente dal
pubblico di allora, oggi, naturalmente, mostra i limiti delle molte riprese in
interni (il budget degli “originali televisivi” era limitato). Il racconto, si
fa, però, più plastico negli esterni, Berna e la provincia montana, grazie al
ricorso a panoramiche e zoom, come l’estetica del decennio richiedeva.
Decisamente più cinematografica e coinvolgente nel ritmo (anche grazie al
colore e ai brevi esterni girati in Turchia) è Il giudice e il suo boia (1975)
di Maximilian Schell. Qui Barlach è un eccellente, introverso e
aristotelico, Martin Ritt (anche a lui si ispirerà Jack
Nicholson); il giovane poliziotto assassino è l’antipatico Jon
Voigt, mentre la fidanzata vedova di Schmidt è Jacqueline Bisset,
disinvolta nell’elaborare il lutto in camera da letto con l’assassino del suo
uomo. La sceneggiatura è firmata anche da Friedrich Dürrenmatt: egli si riserva
una bella scena. È il professore di storia medievale presso cui si reca il
commissario Barlach per le sue indagini. Sta giocando a scacchi da solo, con
“un altro da me che si sente superiore a me”. Nello studio del professore (è
quello di Dürrenmatt), alle pareti si possono ammirare suoi grandi dipinti
espressionisti.
La promessa (Das Versprechen, 1957): dal romanzo al
cinema
Das Veshprechen irrompe sulla scena della letteratura di lingua tedesca due anni prima
di Il tamburo di latta del berlinese Günther Grass,
ma non ottenne la stessa eco. Solo anni dopo il romanzo di Dürrenmatt verrà
considerato un capolavoro, alla stregua del romanzo di Grass, pur essendo
confinato nel sottogenere del “giallo esistenzialista”. Alla fine degli anni
settanta contribuisce a una rivalutazione piena del testo il film-tv
italiano La promessa (1979) di Alberto Negrin,
sotto silenzio il primo adattamento, Il mostro di Mägendord (1958),
del bravo Ladislavo Vajda (quello di Marcellino pane e
vino, 1955). Con la terza trasposizione, piuttosto libera, firmata da Sean
Penn (The Pledge, 2001), con Jack Nicholson, le copie
disponibili in libreria del romanzo andranno a ruba in pochi giorni. Il film di
Negrin, fedele al romanzo, gode di un adattamento letterario sincopato nei
tempi a firma dello sceneggiatore Gianfranco Calligarich.
Negrin alterna esterni ed interni con i giusti tempi; la ricostruzione
della trama nel paesaggio alpino trasporta lo spettatore tra i boschi, nelle
locande di montagna, e contestualizza il passato e il presente con accenni
preziosi tramite comparse, figuranti e la musica. Eccellente la direzione della
bambina, Anna Maria, l’eventuale vittima del maniaco, soprattutto quando è
pressata dall’improvviso interrogatorio di Matthäi e del procuratore. La
promessa deve la sua felice trasposizione soprattutto alla superba prova
di Rossano Brazzi. Restituisce in pieno il personaggio profondo,
riflessivo e misterioso, creato da Dürrenmatt. Ci pare che Sean Penn, nella sua
versione, abbia tenuto conto del film di Negrin. Infatti, Nicholson mantiene lo
sguardo indagatore e, a volte, perduto nel vuoto, di Brazzi; purtroppo, in
alcuni momenti, in accordo con lo stile recitativo hollywoodiano, l’attore
accentua il lato psicologico a discapito di quello esistenziale. Avremmo voluto
vederci, nella parte, Clint Eastwood, che ha vissuto in Europa.
L’assurdo del teatro
L’assurdo teatrale di Dürrenmat, come anticipato, di altissima resa
narrativa e scenica, da esser paragonato al teatro di Beckett, Ionesco e
Pinter, sarà messo in scena in diversi paesi. Qui ci limitiamo a
ricordare I fisici (Die fisiker, 1963) e In
panne (1956, prima racconto e poi radiodramma). Nel primo dramma
abbiamo la storia di Jobam Möbius, fisico, che si rifiuta di rivelare la sua
scoperta a chi ne farebbe un cattivo uso, e, fingendosi matto, si fa ricoverare
in un manicomio. Ma lì è inseguito, segretamente, da due spie, anch’esse si
fingono folli: qui c’è tutto il dadaismo svizzero e il surrealismo di un Luis
Buñuel. Esilarante la scena in cui Jobam Möbius riceve in manicomio la
moglie: la donna gli presenta il suo nuovo marito, un pastore, felice di
allevare i tre figli di Möbius, più i suoi tre, senza che Möbius fosse a
conoscenza di aver subito un divorzio.
Nella pièce La panne, Traps, un agente di vendita in
viaggio di lavoro, ha un problema con l’auto, mentre attraversa un villaggio
alpino. Deve lasciare la vettura. Qualcuno gli propone di accompagnarlo alla
stazione, ma decide di prendersi un po’ di svago, e accetta l’ospitalità in una
signorile casa da parte di un rispettabile anziano proprietario. Più tardi
sopraggiungono due amici dell’ospite: i tre, giudici in pensione, giocano a
inscenare processi storici (a Gesù, a Marx, ecc.). La loro teoria è dimostrare,
attraverso un logico dibattimento, che tutti siamo colpevoli. Così, per gioco,
Traps (in inglese significa “trappole”) si ritrova a recitare l’imputato,
sicuro della propria innocenza. Pian piano, riconoscerà una colpa morale nei
confronti del suo capo, e, andato nella sua stanza, anche annebbiato
dall’alcol, si impiccherà. Il tema squisitamente kafkiano è reso con perfetta
originalità nella trama e nei tempi narrativi. Ettore Scola,
con Alberto Sordi, nei panni del malcapitato, ne trasse un film, purtroppo
non all’altezza del testo dürrenmattiano: La più bella serata della mia
vita (1972).
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