Ho letto le mille pagine del libro, ci ho messo più del solito, perché rallentavo, e a volte rileggevo.
Non
capita spesso, ma quando capita e arrivi alla fine, dici: già finito?.
Impossibile
raccontare di cosa parla un libro, questo libro, e chi lo facesse lo farebbe
male.
Solo
una cosa posso dire, i tre fratelli si chiamano Ivan, Aleksej e Dmitrij, spero di non
aver anticipato troppo.
Provate
a raccontare una musica di Mozart o Beethoven, o a raccontare un quadro di
Picasso, provateci e poi mi dite cosa capisce chi ascolta.
Tutto
succede in pochi giorni e succede tutto quello che può capitare all’animo
umano.
Quasi
tutte le pagine da sole valgono un libro intero e tante pagine così
emozionanti, coinvolgenti, sorprendenti costruiscono un libro immenso.
Se
vi volete male non pensate neanche di prendere in mano I
fratelli Karamazov, ci sono così tante cose peggiori da fare, ma se ci
provate e arrivate alla fine vi accorgerete quanto tempo avete speso in
attività inutili nella vita.
Il maestro Manzi direbbe che non è mai troppo tardi.
Ascoltatelo.
Buona indimenticabile lettura.
Ps:
ho trovato in rete una lettera di Dostoevskij al
fratello, scritta in prigione, prima di partire per quattro anni di lavori forzati in
Siberia, eccola qui
I fratelli Karamazov è il titolo di uno sceneggiato televisivo diretto da Sandro Bolchi e trasmesso dal Programma Nazionale della RAI nel 1969 – si può guardare su Raiplay (qui qualche link)
Tutto è già stato scritto, tutto già commentato a proposito
di questa opera grandiosa e solenne. Diventa pertanto complicato scrivere una
recensione senza risultare banali o annoiare, ma a conclusione di una lettura
così imponente, dopo una mese passato in compagnia dei fratelli Karamazov, si
sente forse questa esigenza di raccogliere qualche idea in proposito e
lasciarla su queste pagine. Più che un romanzo si può forse considerare
“un’opera omnia”, perché Dostoevskij affronta una serie di tematiche, di
questioni esistenziali nelle quali l’intera umanità si riconosce, riscontrabili
nell’operato dei quattro fratelli K., che emblematicamente, assumono una
portata simbolica. Citando le parole pronunciate dal procuratore durante la
requisitoria, nel dibattimento processuale a carico di Dmitrij accusato di
parricidio, si capisce che i Karamazov sono “creature vaste…capaci di mescolare
tra loro tutte le possibili contraddizioni e in un colpo solo contemplare
entrambi gli abissi, l’abisso che sta sopra di noi, quello degli ideali
superiori e l’abisso che sta sotto di noi, quello del degrado più basso e
fetido”. I quattro fratelli sono eroi tipicamente Dostoevskiani che si fanno
carico di quella dicotomia bene-male così evidente in tante opere dell’autore.
A partire da Alesa (o Aleksej), il fratello
buono e puro per antonomasia, evidente portatore di bene, assoluto credente. La
fede e la bontà sono ingredienti di cui questo libro è colmo ed i messaggi di
amore verso il prossimo riecheggiano frequentemente scorrendo le tante pagine,
distribuiti dall’autore nelle mani (e nella bocca) non solo di Alesa ma anche
dello Starec Zosima, figura monacale intrisa di santità, quasi una personificazione
di Cristo sulla terra: “ Amatevi gli uni con gli altri….Amate il popolo di
Dio…Non abbiate paura del vostro peccato, persino quando l’avrete riconosciuto,
purchè vi sia il pentimento”…
…I fratelli Karamàzov è l'ultimo romanzo scritto da Fëdor
Dostoevskij: nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto essere il primo
capitolo di una trilogia, ma la morte lo colse quattro mesi dopo la
pubblicazione del romanzo, avvenuta come spessissimo succedeva nel XIX secolo a
puntate su di un periodico politico (la rivista “Russkij Vestnik”, per la
precisione) prima che in volume. Oggetto di numerose riduzioni cinematografiche
e teatrali, indicato da tanti intellettuali e artisti del '900 come libro
preferito e persino citato da Papa Benedetto XVI in una enciclica, I
fratelli Karamàzov è al tempo stesso una saga familiare, un affresco
storico-politico, un pamphlet sulla religione e un noir. Non mancano i
riferimenti autobiografici: nel 1878 la morte per una crisi epilettica di
Alyosha, il figlio di 3 anni di Dostoevskij, lo condusse al monastero di Optina
e lo indusse a profonde riflessioni di natura religiosa. Il protagonista del
romanzo (o almeno quello così definito dal narratore) Alekséj è l'uomo che
l'autore avrebbe voluto il suo piccolo sfortunato Alyosha divenisse, e la
figura del “santo” Zosìma è ricalcata su quella di Elder Leonid, un monaco
venerato a Optina. Secondo l'interpretazione della maggior parte della critica letteraria
- su I fratelli Karamàzov sono stati scritti una quantità
incredibile di saggi - l'odioso capofamiglia Fëdor Pávlovič Karamàzov
rappresenterebbe la Russia zarista corrotta e decaduta, che può riscattarsi
(come del resto tutti noi, suggerisce Dostoevskji) solo attraverso la
sofferenza e l'amore, affidando il suo futuro all'innocenza dei bambini, delle
nuove generazioni che condurranno verosimilmente la nazione alla gloria
internazionale. In effetti pochi decenni dopo l'avvento di Lenin prima e di Stalin
poi (e la rivoluzione non è forse anche un parricidio?) avrebbero creato il
gigante sovietico, per 70 anni circa alla guida di mezzo mondo, ma
verosimilmente lo scrittore russo immaginava qualcosa di un po' diverso.
Rigettando le istanze socialiste e il nichilismo secondo lui già sin troppo
radicato nella cultura arcaica russa, Dostoevskij riscopre l'anelito religioso
e indica nella spiritualità la chiave dell'esistenza: non è però una
conversione banale e senile, bensì una visione complessa (e anche
contraddittoria) e molto moderna. Furioso per le accuse di moralismo ricevute
dal romanzo, egli stesso scriveva poche settimane prima di morire: “Non è come
un imbecille qualsiasi (fanatico) che io credo in Dio. E quelli là vogliono
insegnare a me e ridono della mia arretratezza!”. Di qualsiasi fede si tratti,
quella espressa ne I fratelli Karamàzov è fatta più di
domande che di risposte, più di dubbi che di certezze, più di ricerca nevrotica
che di serenità. Come tutt'altro che serene sono le traiettorie di vita dei
personaggi, inzuppati fino in fondo all'anima di rancore e disprezzo, coinvolti
in vicende losche e degradate (stupri, ricatti, prostituzione), travolti da una
vicenda giudiziaria angosciante che non riesce a fare luce su un parricidio che
ha molto di simbolico. È come se Dostoevskij avesse voluto scrivere un romanzo
per donare una luce ai suoi lettori e invece avesse finito per rendere ancora
più scuro il buio che incombe su tutti noi.
…I Fratelli Karamazov segna uno dei vertici della
letteratura moderna e non solo moderna, sia sul piano formale che su quello
contenutistico, piani entrambi vincolati a quel legame indissolubile con
l’analisi dell’uomo e del mondo intorno. La sua importanza, dunque, come vero e
proprio mito, non può non protrarsi nella sua significanza odierna, e la sua
letterarietà non resta di certo appannata dalla sua connotazione
storico-geografica che, seppur importante, vitale, necessaria, non drena la
potenza espressiva e contenutistica di questa mirabile opera d’arte. Tutta
russa, certamente, ma anche incredibilmente occidentale per natura, e non solo
per conseguenza. Come forse solo nell'”Edipo Re”, nella “Commedia”,
nell'”Amleto” e in poco altro, si può facilmente trascendere il contesto e
vederlo come la coscienza dell’uomo occidentale. E quest’uomo, seppur non si
chiamerà necessariamente così, avrà dentro di lui il nome Karamazov. Le sue colpe,
le sue brame, la sua forza…
…In Herman Hesse, estremo estimatore dell’autore, si può
leggere come, per leggere Dostoevskij, si debba essere “nel momento in cui,
soli e paralizzati in mezzo allo squallore, volgiamo lo sguardo alla vita e non
la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più
sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e
magnifico poeta“. Proprio nella stessa battaglia titanica contro Dio (che
sarà quella romantica di capolavori come “Moby Dick”), contro il Padre stesso,
l’origine, e contro quindi se stessi che la trinità (non certo a caso dei figli
principali di Fëdor Pavlovič: Ivan, Aleksej e Dmitrij) diventa pluralità, che
l’assassino, il reo, il colpevole non possa essere uno, che il modo di vedere
il tutto come manifestazione del singolo possa essere inequivocabile. Karamazov
non è un tipo di uomo, non è solo il romantico, l’illuminista,
l’inetto, il russo, il ricco, il povero, il dissoluto. Karamazov è l’ogni-uomo,
perfino l’oltre-uomo in potenza (per usare termini cari al vicinissimo
Nietzsche). La coscienza stessa della stirpe di Caino, di Cesare e del Cristo.
L’umanità Karamazov. La sua coscienza stessa resa manifesta, fatta carne e
nominata col nome del Padre.
…leggendo I fratelli Karamazov,
oltre a riconoscere, come ci insegna Freud, un percorso al parricidio,
scopriamo interrogativi portanti, non nella risposta ma in sé. Dalla presenza
di Dio al ruolo della bontà, dall’egoismo al vero significato dell’amore. Cos’è
la crudeltà? E il peccato? Ci ritroviamo, mediate le parole di Dostoevskij, in
un presente all’apparenza distante. Interrogativi che sbattono contro un muro.
Quello della vita, un mistero di domande. Esiste risposta, c’è una soluzione?
Beh, per scoprirla dobbiamo leggere, non è così aprioristico ribattere. Ma
affrontando I fratelli Karamazov vedremo
dilaniata la nostra coscienza e ragione. Ci ritroveremo eretici, nevrotici,
passionali, altruisti. Ci ritroveremo nella ricca personalità dell’autore, in
cui Freud distingue “lo scrittore, il nevrotico, il
moralista e il peccatore” e aggiunge “Come raccapezzarsi in questa sconcertante
complessità?”. Appunto, come venire a capo di un
capolavoro? Non si può, perché, avrebbe detto Wilde, ci
vuole un altro artista, non la critica. Quindi cosa fare? Nient’altro che
l’abbandono a chi ci ha superato e preceduto, a chi rappresenta uno dei più
grandi maestri della letteratura. Chapeau, prima di sfogliare le pagine de I fratelli Karamazov. Prima di cambiare vita,
prima del nostro nuovo altrove letterario.
I fratelli Karamazov di
Fëdor Dostoevskij è un libro necessario, come pochi altri nella
storia della letteratura. Necessario per chiunque senta il bisogno – atavico,
primordiale come sottolinea Leopardi nel Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia [1], e invece sempre più raro nella nostra epoca
vuota, dominata dall’apparenza, dalla stupidità, la Grande Stupidità di
manniana memoria [2], dall’ignoranza, dall’incoscienza, dall’inautenticità in
sostanza, dalla rettorica, del male come del bene – di non arrestarsi alla
superficie, ma di penetrare in profondità, fino a decifrare, o almeno tentare
di decifrare, il «mistero» uomo [3]. E nell’ultimo e più grande romanzo dello
scrittore russo (in realtà, come ho già scritto altrove, d’accordo con Freud
reputo I fratelli Karamazov non solo il più grande romanzo
di Dostoevskij, ma il più grande romanzo dell’intera storia della letteratura)
arte, filosofia e morale, i tre parametri boiniani ai quali ho sempre fatto
riferimento nella valutazione di un testo, interagiscono e si fondono in un’opera
monumentale che ha il supremo valore del «libro sacro» [4].
La creazione di un libro totale, definitivo,
che contenga e veicoli l’ultima, estrema, severa parola, dopo il quale poter
morire più o meno serenamente, in pace con se stessi e in accordo con la
propria missione, senza dover temere o rimpiangere di non essere riusciti a
dire tutto ciò che doveva essere detto, tutto ciò che era necessario fosse
detto, è un’idea fissa per molti scrittori, soprattutto per quegli scrittori
che alla vocazione letteraria abbinano una spiccata vocazione filosofica e
morale. Alcuni di essi falliscono, altri invece riescono, e tra questi vi è
Dostoevskij, che, giunto alla fase conclusiva della sua tormentata e romanzesca
esistenza, crea I fratelli Karamazov, il suo libro totale,
definitivo, veicolo della sua ultima, estrema, severa parola, ideale sintesi
artistico-letteraria del suo pensiero [5]…
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