EUTANASIE - Guido Ceronetti
Qualche tempo fa abbiamo trovato, sotto la pioggia, un gattino, molto
piccolo, che la ruota di una macchina aveva urtato, fracassandogli la spina
dorsale. L’abbiamo asciugato e sfamato, in casa ha dormito una notte in pace, senza
più un lamento. Il giorno dopo arriva il veterinario e visto il suo stato
consiglia subito l’iniezione. Quel gattino, se anche fosse sopravvissuto al
colpo, non avrebbe mai potuto lottare per la sua vita, per la natura era già
morto. L’iniezione è una combinazione fulminante di droga sonnifera e di
stricnina. Appena toccato dall’ago, il gattino è morto. Non abbiamo avuto
rimorsi. Bisogna sapere che può capitare in ogni momento, a tutti, di dover
mettere le mani nella morte.
Non considero i gatti, o qualunque altro animale, come automi cartesiani; circa
l’anima delle bestie sono d’accordo con La Fontaine nella famosa lettera a
Madame de la Sablière. Dunque è come se avessi fatto l’eutanasia a un bambino
neonato ridotto nelle stesse condizioni. Solo, in questo caso, la legge non
avrebbe tollerato la pietà che uccide, il medico si sarebbe adoperato per
prolungare lo strazio. Eppure c’è identità nell’arbitrio: se non posso
arrogarmi il potere di morte per il bambino, non dovrei arrogarmelo per il
gatto. Approfitto soltanto di un’indifferenza del diritto e dell’uso. Ma non si
fa anche un uso arbitrario del potere di vita, quando si strappa alla morte un
bambino che dovrà vivere fracassato?
Le mani nella morte. Quando la guerra si faceva col cavallo, quasi sempre
toccava al cavaliere dare il colpo di grazia (questa parola è pregnante: di
grazia, grazioso è chi lo dà) alla cavalcatura ferita e rantolante. E anche
nella guerra senza cavallo l’eutanasia è una delle poche leggi umane, non
scritte, non dell’Aja, che sopravvivono: si finisce il compagno, l’amico, il
sottoposto che implora l’unica grazia, l’unico atto pietoso di cui ha ancora
bisogno. Se mi mettessi a pensare «Ho diritto di farlo?» lasciando che
inferocisca il dolore, senza soccorsi in vista, sarei una scrupolosa canaglia,
sarei un pio carnefice.
Lascio fuori della discussione, perché non merita di entrarci, l’eutanasia di
Stato, come quella praticata nel Terzo Reich contro i pazzi e i malformati,
nient’altro che un carico d’infamia in più nel quadro di un’unica infamia di
Stato. Neppure è il caso di evocare Sparta, che non abbatteva i malformati per
fanatismo eugenetico ma per distruggere il maleficio che gli esseri deformi
avventavano sulla città, questione che si può risolvere pensando esattamente l’opposto.
Quel che cerco di comprendere è l’eutanasia privata, che è una prova crudele
dell’uomo, difficilissima da giudicare, formidabile pullulare di casi dove non
c’è un punto di bene che non sia imbrattato di male, né un punto di male che
non abbia una striatura di bene. L’eutanasia è un problema barocco, di
chiaroscuri violenti, di crudi contrasti, pieno di ombre pesanti. Come
l’aborto, è una realtà dentro e fuori di qualsiasi legge, è iscritta nel ventre
della vita. Le soluzioni, più che in una scelta morale, sono in mano del Fato.
È inutile dire che non bisogna o non si vorrà mai far questo. Viene un momento
in cui tutto quel che si è detto ammutolisce di colpo di fronte a quel che ci
succede. La negazione di soluzioni e d’interventi straordinari vale finché
tutto è passabilmente normale: mentre stai camminando, trovi insolente che ti
taglino una gamba, benedici chi te ne libera se c’è passato sopra un treno.
Ci sono dolori che possono calmare soltanto dosi molto elevate, così elevate da
risultare mortali, di stupefacenti. Chi le pretende, per sé o per qualcuno che
ama, ha certo più ragione di chi gliele nega. Per il medico ci sono infinite
opportunità di abbreviare o troncare una pena senza speranza, e c’è anche il
trapanante dovere di non trascurarle. Avrei paura di affidarmi a un medico che
cercasse unicamente, fanaticamente, di prolungare ad ogni costo i giorni
miserabili dei suoi morenti. Perciò sono particolarmente temibili le grandi
organizzazioni sanitarie, gli ospedali dove, per latitanza della pietà e della
legge, non è concesso di morire. Bisogna lottare, lottare strenuamente, per
morire in casa, con medici e familiari che capiscano il nostro diritto di
morire quando è l’ora di morire.
In fatto di eutanasia mi rallentano di più le riserve filosofiche, delle
morali. E tuttavia ritengo che un’etica medica che per umanità le respinga sia
un’etica buona. Il medico ha di fronte il dolore, non il mistero dell’essere,
non un enigma teologico insolubile. (Ne sarebbe schiacciato sempre). Quel che
forse è da temere è che il dolore inconsumato e inconcluso possa causare altra
pena, altro dolore: qual è il momento giusto per tagliare la radice? È anche il
massimo problema metafisico del suicidio. Il to be or not to be vale anche per
l’eutanasia agonica. Non conosceremo mai tutte le conseguenze di un atto.
Però l’atto da compiere va compiuto.
Se una legge ha da esserci, riguarda esclusivamente la professione medica.
L’eutanasia familiare violenta non può certo godere di tolleranza legale, ha
solo diritto a un’intelligente clemenza, caso per caso. Un soffio la separa dal
crimine, un soffio che vale una voragine, ma non è che un soffio. Chi la compie
si fascia di tragico, e il tragico isola da qualsiasi legge.
Il caso della pediatra di Bologna è dei più complicati; lo ricordo qui per la
sua attualità, non per proporre soluzioni. Il padre e una sorella soppressi
(valium e luminal, incisione dei polsi), un proposito di suicidio non attuato.
Se i morti fossero stati tre, il cerchio della tragedia era chiuso; adesso c’è
questa donna sola, sotto giudizio (chissà quando), in mano a suore e a periti.
Si vorrà farne una pazza, perché lo squilibrio mentale ne risucchi la colpa e
la sua eutanasia diventi un tranquillizzante raptus omicida, ma la donna,
dall’asilo, grida eutanasia, cioè ragione e non demenza. Come pediatra non
sembra essere stata affatto una squilibrata. Sarà decenza ascoltarla come un
essere cosciente, esaminando con umanità se in quell’eutanasia il soffio che la
separa dal delitto esista o no; l’ipotesi della follia dovrebbe farsi solo se
non si vedessero abbastanza ragioni per una soppressione pietosa. Ma si può
chiamare follia una ragione diversa, impenetrata? Le garze e il cotone disposti
da Giacomina Allocca perché l’atto fosse meno vistosamente sporco, non hanno
niente di demenziale: sono dovute all’abitudine professionale, a un supplemento
di pietà; non voleva che quella sembrasse la camera di un delitto.
Quel che rende il gesto dell’Allocca più vicino all’omicidio, è la mancanza del
consenso dei beneficiari della sua pietà: né il padre né la sorella (questa,
malata di mente) avevano chiesto quel definitivo sollievo. Ci può essere stato
un errore nell’interpretazione dei loro segnali…
Non è sempre vera la massima di La Rochefoucauld: «Siamo tutti abbastanza forti
per sopportare i mali degli altri». Il bisogno di sollievo personale ha la sua
parte, anche torbida, nelle eutanasie. Come si fa a giudicare se prevale questo
bisogno o la pietà dell’altro? Esiste una pietà pura? Forse i casi più limpidi
sono quelli dei vecchi coniugi malati, che si sopprimono mutuamente, e per loro
non è difficile una comprensione perfetta.
Nel novembre 1962, a Liegi, il processo Vandeput fu un caso mondiale. Corinne,
una bambina focomelica, nata il 22 maggio, era stata uccisa dalla madre,
Suzanne Vandeput, con una dose mortale di sonnifero prescritta dal dottor
Jacques Casters, una settimana dopo. Suzanne aveva agito col pieno appoggio
della sorella e della madre. Dietro, c’era una delle maggiori stragi compiute
dall’industria chimica, l’affare della talidomide.
All’epoca del processo ero convintamente assoluzionista. Non lo sono più, pur
restando persuaso che per una bambina, oltre che bruciata negli arti, così
implacabilmente rifiutata, non ci sarebbe stato neppure un tiepido limbo,
un’obliqua apparenza di vita nella casa dei Vandeput. Se Suzanne avesse
arretrato, per orrore dell’atto, persistendo però nel rifiuto, il suo
comportamento verso la figlia sarebbe stato più crudele, l’avrebbe punita di
essere nata deforme facendola vivere senza amore.
È impressionante la volontà di morte che ha dominato, fin dal primo momento,
già nella clinica, le tre donne disperate. (Fu un affare di donne, il padre era
un abulico dedito alle partite di calcio). Non pensavano che a dare la morte
alla neonata, ossessivamente, freneticamente. Era proprio la pietà a renderle
così impazienti? Forse volevano soltanto lavare la vergogna di quella
malformazione. Colpisce anche l’assunzione collettiva della colpa, per
annullarla, da parte di una città intera, che premeva sui giurati con la sua
sinistra voce, perché assolvessero tutti. Lo riferiva Nello Ajello
sull’«Espresso», in una sua corrispondenza amara da Liegi, che adesso,
riflettendo meglio, condivido. Quell’assoluzione completa strappata a furor di
popolo toglieva il marchio dell’infanticidio a gente che non aveva abbastanza
cinismo per sopportarlo, né abbastanza merito tragico perché gli fosse tolto.
I Vandeput e il medico che, coperti di fiori e di applausi, brindano nel
tripudio generale, sono un’immagine piuttosto ripugnante d’insensibilità umana.
Avrebbero dovuto liquefarsi subito, sparire in un proprio buio di mezzogiorno.
Bisogna però tenere conto di Liegi: la città fattasi capro espiatorio li aveva
completamente liberati da ogni senso di colpa.
Così finisco per imputargli sopratutto lo squallore, esterno, interiore, e per
punire idealmente soltanto le loro facce. Perché il loro delitto ora si vede
chiaro, ora non si vede. Certamente, nelle loro coscienze, il caso è
felicemente risolto. Non può esserlo nelle nostre.
Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca
La ballata dell'angelo ferito - Guido Ceronetti
Urlate urlate urlate urlate.
Non voglio lacrime. Urlate.
Idolo e vittima di opachi riti
Nutrita a forza in corpo che giace
Io Eluana grido per non darvi pace
Diciassette di coma che m'impietra
Gli anni di stupro mio che non ha fine.
Una marea di sangue repentina
Angelica mi venne e fu menzogna
Resto attaccata alla loro vergogna
Ero troppo felice? Mi ha ghermita
Triste fato una notte e non finita.
Gloria a te Medicina che mi hai rinata
Da naso a stomaco una sonda ficcata
Priva di morte e orfana di vita
Ho bussato alla porta del Gran Prete
Benedetto: Santità fammi morire!
Il papa è immerso in teologica fumata
Mi ha detto da una finestra un Cardinale
Bevi il tuo calice finché sia secco
Ti saluta Sua Santità con tanto affetto
Ho bussato alla porta del Dalai Lama.
Tu il Riverito dai gioghi tibetani
Tu che il male conosci e l'oppressura
Accendimi Nirvana e i tubi oscura
Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama
Ho bussato alla porta del Tribunale
E il Giudice mi ha detto sei prosciolta
La legge oggi ti libera ma tu domani
Andrai tra di altri giudici le mani.
Iniquità che predichi io gemo senza gola
Bandiera persa qui nel gelo sola
Ho bussato alla porta del Signore
Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare
Chiamami in cielo o dove mai ti pare
Soffia questa candela d'innocente
Ma il Signore non dice e non fa niente
Ho bussato alla porta del padre mio
Lui sì risponde! Figlia ti so capire
Dolcissimo io vorrei darti morire
Ma c'è una bieca Italia di congiura
Che mi sentenzia che non è natura
E il mio papà piangeva da fontana
Me tra ganasce di sorte puttana.
Cittadini, di tanta inferta offesa
Venga alla vostra bocca il sale amaro.
Pensate a me Eluana Englaro
(28 dicembre 2008)
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