Scrive Publio Terenzio
Afro “Sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me”.
Probabilmente
già pensava a Ivan Illich, cittadino del mondo.
Quanto
questo sia vero lo capirà chi legge Una fiamma nel buio, pubblicato alla fine del
2020 da elèuthera.
Il
libro è un’intervista, meglio una serie di conversazioni, come giustamente dice
il titolo.
La
lettura di Una fiamma nel buio è una scoperta e un’avventura intellettuale per chi non conosce ancora
Ivan Illich, ma anche per chi ha già letto le sue opere, 250
pagine che non potranno non lasciarti la curiosità di (ri)leggere almeno
qualcuno dei suoi libri.
Si
capisce che Ivan Illich spesso è stato un grillo parlante, denunciando
sempre i poteri, con ragionamenti pieni di coraggio, di cultura, senza
scorciatoie, senza paura.
Si
spazia dalla scuola alla chiesa, dalla politica al femminismo, dai testi
medioevali al colonialismo del volontariato, dai suoi libri agli incontri
importanti della sua vita, da Michel Foucault a Ugo di San Vittore, tralasciando
le migliaia di altri argomenti e citazioni.
Vogliatevi
bene, leggete Una fiamma nel buio, nessuno se ne pentirà.
(QUI l’introduzione
al libro, di Giacomo Borella, tratta da
Gli asini, che nel numero 81 del 2020 della rivista dedica tanto
spazio a Ivan Illich)
leggere alcune citazioni dalle sue opere
è un invito a leggere i suoi libri, quanto mai di attualità.
La scuola è l’agenzia
pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è.
Il vocabolo crisi indica
oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di
vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i
malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne
ha voluto dire «scelta» o «punto di svolta», ora sta a significare: «Guidatore,
dacci dentro!». […]
Ma «crisi» non ha necessariamente questo significato. Non comporta
necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare
l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso
si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di
vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta,
di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero.
Noi dobbiamo e, grazie al
progresso scientifico, possiamo edificare una società post-industriale in
maniera che l’esercizio della creatività di una persona non imponga mai ad
altri un lavoro, un sapere o un tipo di consumo obbligatori.
L’uomo arriva a diffidare della
parola, pende da un sapere presunto. Il voto rimpiazza la discussione, la
cabina elettorale il tavolino del caffè. Il cittadino si siede dinanzi allo
schermo e tace.
Già nella scuola materna il
bambino viene preso in carico da tutto un gruppo di specialisti: l’allergista,
il foniatra, il pediatra, lo psicologo dell’infanzia, l’assistente sociale,
l’esperto di educazione psicomotoria, la maestra. Costituendo questa équipe
pedocratica, i numerosi e vari professionisti tentano di dividersi quel tempo
che è diventato il principale limite all’attribuzione di ulteriori bisogni.
La prevenzione della malattia
mediante l’intervento di terzi professionisti è diventata una moda. La sua
domanda cresce. Donne incinte, bambini sani, operai, vecchi, tutti si
sottopongono a periodici check-up e a esami diagnostici sempre più complessi.
Per questa via, ci si rafforza nella convinzione di essere macchine la cui
durata dipende da un piano sociale. Le risultanze d’un paio di dozzine di studi
attestano che questi esami non hanno alcuna influenza sull’andamento della
mortalità e della morbilità. In realtà essi trasformano persone sane in
pazienti angosciati, e i rischi per la salute che si accompagnano a queste
campagne di diagnosi automatizzata sopravanzano i benefici teorici. Per ironia
della sorte, i disturbi asintomatici gravi che si possono scoprire soltanto con
questo tipo d’indagine sono spesso malattie inguaribili, nelle quali una cura
precoce aggrava la condizione patologica del paziente.
Recentemente ho visto un rapporto
affidabile secondo il quale 350 persone guadagnano, da sole, quanto guadagna il
65% degli appartenenti ai ceti più deboli. Ora, non è questo che soprattutto mi
preoccupa. Sono molto più preoccupato del fatto che il 65% degli appartenenti
ai ceti più deboli, che guadagnano, tutti insieme, meno di quanto guadagnano le
350 persone più ricche del mondo, trent’anni fa sarebbero stati capaci di
vivere senza far ricorso al denaro. Molte cose, allora, non erano ancora
monetizzate. L’economia di sussistenza funzionava ancora. Oggi, invece, non
possono spostarsi senza pagare il biglietto dell’autobus. Non possono accendere
il fuoco in cucina raccogliendo la legna, ma debbono comprare elettricità. Come
spiegare questo male straordinario che non si è visto in altre società, ma solo
là dove è stata importata la società occidentale?
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