era una lotta impari, da soli, poi, senza aiuti esterni, ma era necessario, e intanto, racconta Marek Edelman, tutti quegli ebrei polacchi ebrei vivevano, quella era la loro vita.
e questo è un ricordo per noi - franz
«C’è uno spreco e un cattivo uso delle parole e delle
analogie, quando si parla della Shoah: un impiego della retorica che privilegia
la metafora a scapito della vita e delle vite. Si dimentica, o si ignora, che
anche nel ghetto ci si innamorava, si litigava, si faceva politica, si sognava.
Si sperava in un avvenire, addirittura. Si dimentica quello che Marek Edelman,
un uomo che ha visto andare verso la morte quasi 500.000 persone, ama ripetere:
la vita viene prima di ogni altra cosa. Ecco: il ghetto che cos’era?
L’anticamera della morte? Certo, anche. Ma era, in condizioni davvero disumane,
anche una vita supplementare, una prosecuzione della vita che gli ebrei
conducevano prima della guerra, in Polonia.
«Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish. Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas “come le pecore al macello”. Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. I medici cercarono di lavorare negli ospedali del ghetto; gli scrittori di scrivere i loro libri; gli storici di registrare le cronache perché le future generazioni potessero fare la storia; gli insegnanti di fare scuola in clandestinità con i ragazzi. E i militanti dei partiti organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. E tutto questo può e deve essere descritto e raccontato. Ecco perché dove c’era la vita c’era anche l’amore».
(Dalla Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri)
«Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish. Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas “come le pecore al macello”. Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. I medici cercarono di lavorare negli ospedali del ghetto; gli scrittori di scrivere i loro libri; gli storici di registrare le cronache perché le future generazioni potessero fare la storia; gli insegnanti di fare scuola in clandestinità con i ragazzi. E i militanti dei partiti organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. E tutto questo può e deve essere descritto e raccontato. Ecco perché dove c’era la vita c’era anche l’amore».
(Dalla Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri)
Edelman ricostruisce tante piccole storie
d'amore nate tra persone che conosceva o che, comunque, aveva notato attorno a
lui. Quasi tutte hanno epiloghi dolorosi, eppure è quasi rasserenante l'idea
che, almeno per qualche tempo, all'interno del ghetto, chi ha provato amore è
stato felice. In un luogo e in un momento in cui la vita di tanti ebrei era
letteralmente appesa ad un filo, poter provare un sentimento profondo,
coinvolgente ed appassionato ha dato sicuramente a molti una ragione di vita.
Anche solo per pochissimi istanti.
D'altro canto la vita nel ghetto è spesso fatta di gesti legati alla vita e alla sua perpetuazione: dai medici e le infermiere che hanno continuato a curare persone prossime alla fine, dai maestri che hanno mantenuto attive le loro classi, dalle persone che giorno dopo giorno hanno lavorato, scritto, parlato, cantato, recitato, sognato e sperato.
Edelman non è uno scrittore perché non ha mai pensato né voluto esserlo. "C'era l'amore nel ghetto", infatti, raccoglie una serie di memorie tramandate oralmente e dell'oralità mantiene tutto il fascino e il delicato disordine. I testi, come spiega la Sawicka nella nota posta al termine del libro, sono nati tra il gennaio e il novembre del 2008. Marek parlava e lei ascoltava e scriveva. Leggendo questo libro, infatti, si ha la sensazione di ascoltare un uomo che rammenta e parla. E il suo racconto è una mescolanza costante di vita e di morte, quasi come un gigantesco paradosso.
da quiD'altro canto la vita nel ghetto è spesso fatta di gesti legati alla vita e alla sua perpetuazione: dai medici e le infermiere che hanno continuato a curare persone prossime alla fine, dai maestri che hanno mantenuto attive le loro classi, dalle persone che giorno dopo giorno hanno lavorato, scritto, parlato, cantato, recitato, sognato e sperato.
Edelman non è uno scrittore perché non ha mai pensato né voluto esserlo. "C'era l'amore nel ghetto", infatti, raccoglie una serie di memorie tramandate oralmente e dell'oralità mantiene tutto il fascino e il delicato disordine. I testi, come spiega la Sawicka nella nota posta al termine del libro, sono nati tra il gennaio e il novembre del 2008. Marek parlava e lei ascoltava e scriveva. Leggendo questo libro, infatti, si ha la sensazione di ascoltare un uomo che rammenta e parla. E il suo racconto è una mescolanza costante di vita e di morte, quasi come un gigantesco paradosso.
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