grazie alla segnalazione di Alberto Prunetti ho letto il libro di Joseph Ponthus, tutto in un giorno.
Baptiste Cornet (è il vero nome di Joseph Ponthus) si sposta in Bretagna, a Lorient, con la moglie Krystel, ma il lavoro latita, non può fare l'educatore, il mestiere che sa fare bene, e gli tocca, via agenzia interinale, fare dei lavori al fondo della scala sociale (industria che tratta pesci e crostacei, un'altra che produce tofu, e il mattatoio, non in ufficio, ma sempre alla linea di produzione).
la vita con la compagna ricorda esattamente quella dei due sposi di Italo Calvino.
Baptiste/Joseph purtroppo è morto, a 42 anni, lascia un libro straordinario, scritto in modo originale, in una prosa poetica, e dentro cì sono il duro e alienante (spesso di notte) lavoro, i sogni, l'amore, i suoi amati scrittori e cantanti, più vivi che mai, la solidarietà dei compagni di lavoro, per non parlare del cane, che lo aspetta sempre, devono fare la passeggiata.
vogliatevi bene, cercate il libro di Joseph Ponthus, aveva ragione Alberto Prunetti, è un grande esempio di letteratura working class, ma anche di letteratura senza aggettivi.
qui un'intervista a Joseph Ponthus
…Quando
lo conosco io, è perché ci hanno messo allo stesso tavolo nel festival
letterario Lettres du Monde di Bordeaux, nel novembre del 2019. Città
bellissima, molto altoborghese, con un passato di ombre schiaviste, di teatri e
grand hotel. Come quello che ci ospita e dove io, col mio passo da contadino
rigovernato, entro in piena sindrome dell’impostore. So che mi aspetta un
incontro con gli organizzatori e con questo scrittore che tutti i librai di
Francia mi dicono che devo leggere. Entro nell’atrio del grand hotel come un
cane in chiesa, vedo da lontano un tipo enorme, alto, con barba bionda,
occhiali, pipa e cappello, che si sbraccia e mi fa segno. Poi inizia a cantare,
ad alta voce in italiano: «Triste triste, troppo triste, questa sera, eterna
sera». È una canzone di Ciampi. E ancora: «Alberto, Forza Livorno! Maremma
maiala!». I bravi clienti del grand hotel sono allibiti.
Come potrete immaginare, siamo andati avanti un giorno e
una notte a mangiare, bere, fumare, parlare di moschettieri e del conte di
Montecristo, di Dumas e Stevenson, dei pirati dell’isola del tesoro e
dell’abate Faria, di Bretagna amara e Maremma maiala, di Charles Trenet e Piero
Ciampi, di Guy Debord e Pietro Gori, del nostro comune amico Serge Quadruppani
(sarà lui, commosso, a darmi qualche ora fa la notizia della sua scomparsa)
fino praticamente all’alba, quando ci siamo presentati in condizioni ignobili
alle porte del grand hotel. Notevole il nostro appetito: di fronte a un menù di
cui non capivo nulla, puntellato da prestigiosi vini Bordeaux, Joseph mi
consigliava di mangiare e bere tutto… «perché chissà cosa succede domani,
Alberto, io sarò tornato a squartare animali in fabbrica e tu a pulire i cessi
a Bristol. E addio letteratura e banchetti sontuosi. Sicché mangia!».
La letteratura è rimasta, forse per sempre, ma Joseph dal
banchetto della vita se n’è andato troppo presto, a 42 anni, con un solo libro
di narrativa pubblicato, che vale come un capolavoro. La sua esistenza è stata
breve, ma il suo tempo non è stato perduto, come in À la ligne si
diverte a dire sfrontatamente a Monsieur Proust: «Cher Marcel, ho trovato
quel che tu cercavi. Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo
perduto».
…Presentato come “romanzo” in quarta di
copertina, À la ligne è in realtà una sorta di prosimetro in
versi liberi scritto da un autore che viene facile identificare con il suo
protagonista, operaio interinale spedito senza alcuna preparazione prima in uno
stabilimento bretone in cui si lavorano pesci e crostacei poi in un mattatoio…
…Attendendo
con fiducia la versione italiana, anche nella nostra lingua non sarà semplice
conservare la ritmica di un’opera totalmente priva di punteggiatura ma non di
ritmo perché costruita su di un principio di “armonia imitativa” (in senso
lato) con la cadenza dei pensieri in fabbrica del narratore, che si oppone a
quella del lavoro. È bene avere chiara questa distinzione: la prosa poetica di
Ponthus non mima la ripetitività martellante della catena industriale ma
riproduce il modo in cui i pensieri al lavoro si dimenano cercando di
sfuggirlo, di meglio sopportare il tempo che manca alla fine del turno. Tale dispositivo
salvifico è messo in pratica, da un lato, inventando mantra e nonsense come il
memorabile “égoutter du tofu” (sgocciolare il tofu) che accompagnò l’autore per
un’intera notte di lavoro alienante e scrivendo a mente quelli che saranno
prima dei brevi testi pubblicati su Facebook e poi il libro. Dall’altro, per
fare un esempio, con un meccanismo simile a quello raccontato da Aldo Braibanti
nella sua Lettera al compagno Gianfranco caduto nella lotta
clandestina (1945) quando ricordava che, dopo le torture subite in
quanto partigiano dalla famigerata banda Koch-Carità, si ripeteva versi di
Baudelaire: “il ritmo mi leniva la carne e mi staccava dai miei persecutori”.
Così fa Ponthus, stremato fisicamente e mentalmente dalla
fabbrica, rimasticando non casualmente citazioni di quegli Apollinaire, Aragon
o Cendrars che provarono l’esperienza sconvolgente del fronte della grande
guerra, la “Grande Boucherie” (grande macelleria) che fa risonanza con la sua
al mattatoio. E se, da addetto alla lavorazione del pescato, il sapere che “la
première occurrence du mot crevette est chez Rabelais” (la prima occorrenza del
termine gamberetto è in Rabelais) sembra di primo acchito del tutto inutile, è
invece proprio pensare a Rabelais che gli consente di restare se stesso. Così
come rileggere En attendant Godot di Beckett nella lunga
fila d’attesa che si crea alle agenzie interinali o immaginarsi di essere un
novello D’Artagnan alla vigilia di una nuova missione lavorativa. Aggiungendo
poi ai rimandi a René Char (il sottotitolo del libro è un
omaggio evidente ai suoi Feuillets d’Hypnos),
Ronsard, Jean de la Bruyère, Hugo, Sinclair, Perec e persino Franju e Godard,
un’infinità di citazioni tratte da canzoni popolari di grandi autori e vedette
del panorama francese: da Trenet, Brel, Brassens, Léo Ferré, Barbara a Johnny
Hallyday, Vanessa Paradis e Carla Bruni…
…Alla linea, grazie a uno stile notevole e ai tanti rimandi letterari, va al di là della narrativa testimoniale di fabbrica, ma la sua importanza resta soprattutto politica, perché mostra la realtà del lavoro interinale, ossia di quel nuovo “esercito di riserva del capitalismo” sempre pronto a una chiamata quando e dove occorre, ma ormai mutato in una specie operaia isolata e ad alto rischio di perdere il senso della solidarietà. Il romanzo di Ponthus non assomiglia alle opere dei Di Ruscio e Di Ciaula, dove l’esperienza manifatturiera genera una consapevolezza esistenziale. Ponthus entra in fabbrica già pienamente consapevole, è un intellettuale. Ma non è un infiltrato. Non è un Orwell, o una Ehrenreich o un Wallraff. Non va in fabbrica per raccontare quel mondo ai borghesi. Ci va per lavorare e guadagnare. Lo scrittore Alberto Prunetti, che a Ponthus ha dedicato pagine acute, anche nel fresco di stampa Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class(minimum fax), mi spiega: “In Gran Bretagna lo avrebbero definito ‘a person with a working class background’. Ce ne sono molti nelle fabbriche di oggi. Veniva da una famiglia di estrazione popolare, ma, grazie al sistema aperto dell’istruzione francese, si era dotato di una formazione scolastica alta, arrivando addirittura a frequentare una facoltà universitaria di élite. Poi aveva subito una riproletarizzazione, il che accade spesso alle persone istruite e laureate dei ceti non borghesi. Era diventato educatore nelle periferie di Parigi. Era un attivista radicale e militante. Finché non si innamorò di una ragazza bretone e cambiò vita”.
Sarebbe meraviglioso se Alla linea replicasse in Italia il successo francese. Ma perché ha avuto tanto successo? Forse perché ricorre a parole e sentimenti che ogni lettore, quale che sia la sua estrazione sociale, potrebbe usare e provare. Forse perché racconta la fabbrica come un’esperienza che potrebbe capitare a tutti. L’esperienza del lavoro, la parola lavoro: nel 1948 Lucien Febvre dedicò un breve e illuminante saggio all’evoluzione del termine (è stato ripubblicato in Lavoro e storia, Donzelli 2020). In quel testo il grande studioso ricostruiva “una strana avventura, quella della parola (“travail”, ndr) che, muovendo dal significato di torturare, ‘tripaliare’, cioè torturare col ‘tripalium’”, implicò a lungo nell’età moderna un senso di “afflizione, spossatezza, sofferenza e anche umiliazione”. A partire dall’Ottocento, ad esempio nell’utopia di Fourier, quel vocabolo si capovolse nel sogno del “lavoro-gioia” e in un tempo nuovo nel quale “finalmente le classi lavoratrici conquistarono il diritto alla storia perché operaie, non più perché miserabili”. Per Febvre nulla avrebbe impedito all’uomo “di lottare” perché il lavoro diventasse “un giorno la dolce legge del mondo”. Lo sfortunato Ponthus ci racconta che non è andata così: “Al mattatoio / Ci crediamo / Però / Un giorno / Alla scomparsa del lavoro / Ma quando cazzo / Ma quando”.
Dalle nostre parti se ne è scritto, ma non abbastanza. Ha venduto, ma con cifre assai lontane da quelle dell’edizione originale, uscita in Francia nel 2019. Un successo straordinario, quello di À la ligne in terra transalpina: centomila copie vendute, cinque premi vinti, tradotto in più di dieci Paesi. Italia compresa, una manciata di mesi fa, quando Bompiani ha pubblicato Alla linea di Joseph Ponthus, sottotitolo Fogli di fabbrica (250 pagine, 17 euro, traduzione, mai come in questo caso importante, di Ileana Zagaglia).
Un romanzo? Non propriamente. Un romanzo – poesia in versi liberi, per descrivere, poeticamente cosa voglia dire lavorare in un mattatoio. Romanzo – poesia di assoluta verità, perché racconto in prima persona (memoir per chi ama le etichette) della vita vera dell’autore, operaio interinale nella Bretagna operaia e industriale.
E se è duro il romanzo – poesia («E ho sentito che il mattatoio paga bene / Vedremo / E poi ci si abitua / Tutto qua/ E voglio credere che la mia guerra è bella / Un ammezzato sotto il macello / A pulire merda e mammelle») è duro aggiungere che del successo editoriale (semmai gli fosse importato, e c’è da dubitarne) l’operaio scrittore Joseph ha potuto ben poco gioire. Era nato nel 1978 ed è morto nel 2021. Non era il suo vero nome: aveva scelto Joseph come omaggio a san Giuseppe, patrono dei lavoratori mentre Ponthus voleva essere riferimento ad un poeta cinquecentesco, un certo Pontus de Tyard. Lui, in realtà, si chiamava Baptiste Cornet: grazie a una borsa di studio si era laureato in una università francese d’élite, destinazione lavoro nei quadri alti delle classi dirigenti. Ma niente carriera per Joseph: da buon anarchico, era andato nelle banlieue a fare educazione popolare. Poi aveva smesso di insegnare e si era trasferito in Bretagna. Non trovando un posto di lavoro nell’insegnamento, aveva cominciato a lavorare come operaio nell’industria agroalimentare e nei mattatoi…
…straordinaria
in quest’opera, dove la letteratura e l’esistenza si mescolano fino a diventare
un unico flusso, è la forma scelta da Ponthus che appartiene tanto al regime
della poesia quanto a quello della prosa, con un andamento frammentato che
sembra obbedire ai ritmi della linea di produzione, all’obbligatoria
cancellazione di ogni tentennamento e di ogni pausa, un testo quindi che si
costituisce per sua natura oltrepassando ogni confine di genere perché si basa su
un dio ulteriore, sulla necessità del racconto e della testimonianza di una
violenza che il corpo e la mente subiscono. Per questo, pur essendo imbevuto di
ricercati e mai didascalici riferimenti letterari (da Apollinaire, i cui versi
danno il titolo alle varie sezioni, a Blaise Cendrars, richiamato, lui che
perse un braccio durante la Prima Guerra Mondiale, per riflettere sugli
infortuni sul lavoro, fino al poeta Thierry Metz del Diario di un
manovale, opera straordinaria in italiano tradotta dalle Edizioni degli
Animali, di cui scrive: «Solo l’essenziale / Questa lingua / Ciò verso cui
vorrei tendere»), Alla linea oltrepassa la letteratura e si
impone come un’opera assoluta dove la prosa si sgretola e si frammenta per
giungere alla natura più profonda di ciò che racconta…
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