Il libro spiega cosa è la letteratura working
class, nella quale la classe lavoratrice (quella dei lavori umili e malpagati),
non solo è oggetto delle narrazioni, ma anche il soggetto che narra fa parte
della working class (almeno come provenienza).
Molte volte sono i primi che hanno "studiato", cioè al contrario dei loro padri sono andati a scuola o anche all'università - come Alberto Prunetti, Francesco Guccini nell'Avvelenata, e tanti dagli anni ’60 - a raccontarsi e sentirsi orgogliosi della loro famiglia working class.
Studiare era possibile con borse di studio, case
dello studente, pasti in mensa a 350 lire, finanziati con l’accumulazione di
risorse del miracolo economico, prodotto dallo sfruttamento dei lavoratori,
che, grazie alle lotte operaie, sopratutto dagli anni sessanta agli anni
ottanta, ha migliorato le condizioni economiche dei lavoratori e delle loro
famiglie.
Alberto Prunetti affronta poi il problema delle case
editrici e dell’industria culturale, che contribuiscono a formare l’immaginario
delle persone. In quelle stanze la working class è vista come oggetto delle
storie, magari un po’ strappalacrime, raramente il punto di vista dei
lavoratori e delle lavoratrici manca, d’altronde chi lavora in quelle stanze,
se pure, per caso, è di provenienza working class, si tratta di intellettuali
che per essere accettati si vergognano delle loro origini e le rinnegano.
Alberto descrive lo stato della letteratura
working class in Italia, in Francia e in Gran Bretagna.
La Gran Bretagna è la maestra della letteratura
working class, l’autore lo dimostra con ricchezza di argomenti e titoli di
romanzi di lingua inglese, e anche la Francia ha tanto da insegnare a chi
volesse imparare qualcosa della scrittura working class.
Infine Alberto racconta di un recente viaggio a
Bristol, città nella quale ha pulito cessi (scusate, era un toilet cleaner)
qualche decennio prima.
Altre due cose sono importanti nel libro, la
visione di un documentario di Jean-Gabriel Périot, intitolato Retour à Reims (Fragments), qui una recensione del film,
e il ritratto
coinvolgente di Joseph Ponthus, morto a soli 42 anni, autore di un libro
impossibile da non leggere, Alla Linea.
Il libro si
conclude con una ricca e necessaria bibliografia sulle scritture working class.*
Una lettura che non annoia mai, un saggio che
fila come un romanzo, promesso.
Ricordo una storia vera, ma non ritrovo chi e
quando: ai tempi dei governi del criminale di guerra Tony Blair, abusivamente laburista,
quando furono introdotte o aumentate di molto le tasse universitarie, un
ministro o parlamentare laburista si dimise perché, disse, lui, figlio di
operaio, aveva potuto studiare solo grazie alla gratuità dell’istruzione
universitaria, e non poteva votare una schifezza così.
Un vero politico working class, no?
*La bibliografia è ricchissima, mi viene in mente
un libro che Alberto non cita, Padre padrone di Gavino Ledda, chissà se ci sta
bene nella sua lista.
e un poeta operaio cinese, QUI le poesie di Xu Lizhi (1990-2014)
Tralasciando il cinema inglese e
francese (solo per non appesantire la lista), ecco otto film, più uno, working
class (in varie accezioni) che arrivano dagli Usa, ma non solo:
Tuta blu, di Paul Schrader
Killer of sheep, di Charles Burnett
El Norte, di Gregory Nava
Oltre il giardino, di Hal Ashby
Wanda, di Barbara Loden
Il sale della Terra, di Herbert J. Biberman
La gabbia dorata, di Diego
Quemada-Díez
Matewan, di John Sayles
The spirit of ’45, di Ken Loach
…Con
questo libro, Alberto Prunetti propone un gesto di verità, consapevole del
fatto che “l’intellettuale
è sempre al bivio tra solitudine e allineamento”, perché finalmente in un testo si mette a nudo
tutto il classismo che aleggia dietro e dentro il mondo del libro. In forma
anfibia, tra indagine sulla letteratura working class, analisi dell’industria
editoriale, racconto in prima persona (“saltando dalla padella alla brace ero
finito a fare il cleaner e il magazziniere a Bristol, senza prendere nessun ascensore
sociale”) e critica letteraria, Prunetti sviluppa il nocciolo concettuale
racchiuso in una nota stilettata di Audre Lorde: “una stanza tutta per sé sarà
pure un requisito per scrivere prosa, ma altrettanto necessarie sono risme di
carta, una macchina da scrivere e grandi quantità di tempo”.
Si
tratta di riconoscere dunque che chi dispone di tempo – per formarsi, leggere,
e scrivere di sé – può farlo solo perché qualcun altro non può (“Loro
inventano mondi perché siamo noi a pulire i loro piatti”); e chi del tempo viene derubato sembrerebbe
destinato a fare la sua vita senza passare dal via dell’autorappresentazione:
Persone che non riescono a raccontare la propria storia
perché troppo occupate a fare tre lavori […] Persone che puliscono le case
delle persone che scrivono libri o che pubblicano libri.
E
se chi ha il tempo di scrivere parla del proprio ambiente, chi si prenderà
l’incarico di mettere giù le storie di quelle persone che non hanno tempo? È
piuttosto probabile che la mancanza di rappresentazione di alcune istanze
sociali allontani chi in quelle condizioni ci vive quotidianamente, e se, per
quanto riguarda le questioni di “genere” e “razza” comincia a essere pacifica
l’idea che dentro un libro o una serie tv il primato del protagonista maschio
bianco eterosessuale è in crisi, non la stessa attenzione viene concessa alle
storie working class. E non perché un asse di oppressione debba prevalere sugli
altri: “Mettendo race e gender contro class,
si corre il rischio di far passare l’idea che la working class sia solo bianca
e maschile”: basta guardare alla composizione tanto dei ceti creativi e
culturali oggi quanto dei settori cosiddetti a basso valore aggiunto per
rendersi conto di quanto razza e genere siano fondamentali; il lavoro sfruttato
si è “femminilizzato” ed “etnizzato” e bisogna tenere insieme tutte e tre le
dimensioni se si vuole dar conto delle condizioni della classe lavoratrice
odierna…
…“È working class la scrittura che ruota attorno al
tema del lavoro, salariato o domestico, e di una accurata, ma non
necessariamente realistica, rappresentazione della vita working class, della
sua cultura e resistenza al potere”, scritta dall’”interno”, meglio da chi non
vuole uscire dalla miseria individualmente, “lasciando gli altri indietro, a
salvarsi il culo da soli: vogliamo combattere la miseria e lo sfruttamento e
‘sortirne tutti insieme, che è la politica’, contro il privilegio, che è
‘sortirne da soli’”. I capitoli hanno densità e pregnanza, cognizione e rigore,
che sorprendono. Dialogano con ricerche affini, come quella di Valerio
Evangelisti e dei Wu Ming (interessante la dialettica con il volumetto
sulla New Italian Epic*, che ormai ha oltre quindici anni).
Hanno come bussola L’orda d’oro, di
Nanni Balestrini e Primo Moroni. È un libro per tutti, benché in alcuni
capitoli si parli di teorie letterarie, anche perché è scritto volutamente
rispettando il “test del babbo” e la lezione del metodo della scuola di
Barbiana. È un libro che sa alternare racconto e saggio. E riesce a rendere il
libro avvincente. Che definizione, avvincente, per un saggio! Ma è proprio
così. Se anche la “bibliografia (o inventario dell’armadio delle scritture
working class)” finale è utilissima, è necessario segnalare le appendici: il
bruciante “Piccolo manifesto personale di scrittura working class” e gli
importanti dialoghi con tre scrittori: Anelli Jordhal, svedese; Kike Ferrari,
argentino; Anthony Cartwright, britannico; che dimostrano l’estensione
planetaria della nuova sensibilità working class e la “causa comune che
accorcia le distanze”…
scrive
Alberto Prunetti:
Chiudo questa appendice con tre
consigli per aspiranti scrittrici e scrittori working class. Lasciano il tempo
che trovano e non prendetemi per il grillo parlante. Se non vi convincono,
tirateli ai maiali. Prima però vi racconto la storia di una scrittrice working
class americana.
Probabilmente avrete visto Maid,
la serie Netflix, ma il memoir di Stephanie Land a cui si ispira è ancora più
bello. Al contrario di quel che succede nella serie Netflix, nel racconto di
Land nessuna donna ricca ed etnicamente caratterizzata salva la protagonista.
Stephanie si fa il culo da sola e si salva con l’aiuto di qualche persona
amichevole e una borsa di studio per studenti poveri (quanto sono importanti le
borse di studio!). Al massimo dai ricchi ottiene qualche piccolo regalo,
qualche atto di gentilezza, ma sono i poveri quelli che più l’aiutano. Il
centro di assistenza per donne vittime di violenza nella serie Netflix è un
posto paradisiaco, la signora anziana e nera che lo gestisce è una figura che
offre sicurezza e la musica della colonna sonora ogni volta che lei compare
sullo schermo si eleva su un timbro quasi spirituale. Nel romanzo invece
Stephanie parla di un posto piccolo e sudicio in cui il fatto di essere povera
la espone a controlli notturni polizieschi sulle proprie urine (se sei povera
devi essere per forza anche alcolista e tossica).
Leggetelo, quel libro. Stephanie
Land racconta cosa significa essere una donna povera nell’America dei nostri
giorni. Racconta cosa significa prendersi cura delle case dei ricchi senza
riuscire ad avere una casa per sé che non sia un monolocale muffoso. Cosa
significa non poter dedicare attenzioni alla propria figlia e tirarla su da
sola perdendosi nei mille ricatti dei programmi di assistenza sociale e di
workfare. Ne esce. Come, nel libro lo capiamo poco. La solidarietà di altre
donne povere conta. L’amore per sua figlia le fa fare sforzi disumani. La
scrittura l’aiuta. Oggi è una scrittrice working class nota in tutto il mondo,
grazie soprattutto al successo della serie Maid. Ma quando era
povera se provava a leggere un libro le persone middleclass la guardavano male,
perché quelle come lei che non hanno i soldi per curare l’otite della figlia e
fanno la spesa con gli aiuti sociali non si meritano di leggere libri.
Figurarsi se possono scrivere e pubblicarli. Ecco come ricorda quei giorni:
Era come se certi membri della
società cercassero l’occasione buona per giudicare e rimproverare i poveri per
quello che, a parere loro, non si meritavano. […] Di sicuro qualcuno teneva
d’occhio quel che facevo io. A volte avevo l’impressione che lo facessero anche
in quella che doveva essere l’intimità della mia casa. […] Era come se starmene
seduta volesse dire che non stavo facendo abbastanza, la pigra beneficiaria di
sussidi pubblici che si presumeva fossi. Poltrire a leggere un libro sembrava
una concessione eccessiva; come se un tale lusso fosse riservato a un’altra
classe sociale. Io dovevo lavorare di continuo.
Stephanie scrive il suo libro
rubando le ore al sonno, piena di ibuprofene per non sentire i dolori alla
schiena causati dai turni estenuanti di pulizie di cessi. Racconta la durezza
della sua vita e quanto sono stronzi i padroni delle case che pulisce. Oggi
quel libro è un capolavoro working class. Chiamatelo anche in Italia col suo
nome. Un fottuto bestseller di letteratura working class.
Detto questo, il primo consiglio è
fare quello che ha fatto lei: leggete nonostante tutto. Leggete tantissimo.
Leggete nel bus mentre andate al lavoro. Chiudetevi nel cesso simulando una
diarrea e leggete. Leggete a lavoro se capite che stanno per licenziarvi.
Leggete sempre, prima di scrivere. Assumerete per osmosi le strutture del
racconto. E, soprattutto, leggete la letteratura working class. Nel corso degli
ultimi anni ho accumulato una serie di titoli in svariate lingue, assieme ad
alcuni saggi sulla letteratura di classe lavoratrice. Queste opere hanno
occupato un’intera libreria, che ho chiamato l’armadio dei libri working class.
Alcuni titoli li avete già incontrati nei capitoli precedenti, ma li
ritroverete tutti, insieme a molti altri, nelle prossime pagine, in cui faccio
l’inventario di quell’armadio, senza preoccuparmi troppo di discernere tra le
lingue in cui le opere sono state scritte o dividere tra saggi critici e opere
letterarie o tra monografie, riviste, antologie eccetera. Ho aggiunto alcuni
titoli che pur non essendo letteratura working class mi hanno fornito degli
attrezzi utili a scandagliare il fondo della mia ricerca. Quell’armadio è
l’impalcatura su cui ho cstruito una buona parte del mio lavoro ed è a vostra
disposizione. Prendete da lì e cominciate a leggere.
Secondo consiglio: oltre a leggere
tantissimo, dovete fare qualcosa di importante. Non credete alle stronzate
romantiche che i ricchi si sono inventati sugli scrittori poveri chiusi in una
camera d’albergo a immaginare mondi di fantasia. Cazzate. Neanche gli scrittori
fighetti di classe media stanno chiusi nella torre d’avorio a fare i vati,
ormai. Per scrivere dovete tenere il naso e il culo nel mondo. E dovrete aprirvi
al mondo. Facile a dirsi, lo so, per chi non se ne sta murato vivo in un
ristorante. Purtroppo in certi lavori il mondo non entra. Nelle cucine ad
esempio, che sono carceri coi fornelli e la lavastoviglie. Sforzatevi però di
frequentare sindacati, centri sociali, associazioni di base. Andate alle
manifestazioni, fate attivismo. Leggete i giornali. Sono cose che servono per
stare coi piedi dentro la realtà. È lì che troverete l’ingrediente che manca
alle vostre storie di fame e di rabbia. Serve il lievito della ribellione e
della solidarietà a far sollevare le nostre storie.
Detto questo, facciamo due conti:
lavorate dieci ore al giorno. E vi ho appena detto che per scrivere un libro
dovete leggere tanto, e pure fare attivismo, e ancora a scrivere non avete cominciato.
È un macello. È questa una delle ragioni per cui siamo fuori dai giochi della
narrativa. Però se riuscite a rubare ore al sonno, si può fare. Tutta questa
fatica, questa rabbia, questa dedizione vi torneranno indietro. Infine, non
vergognatevi di scrivere. Ci hanno raccontato che scrivere è roba da iniziati
(ossia da privilegiati), ma in realtà gestire una cucina in linea con trecento
persone in sala è difficile tanto quanto scrivere un racconto breve. Mandate un
qualsiasi scrittore laureato il sabato sera nella cucina di un ristorante e
getterà la spugna dopo cinque minuti. Scrivere è più facile che spedire dieci
comande in sala in tempi da cucina express. Quindi non abbattetevi e provate,
provate, provate. Scrivete non per vanità, ma per fare il culo al capo. O alla
professoressa snob che vi umiliava. O al fighetto con la villa che andava in
settimana bianca che vi bullizzava a scuola. Ce la farete. I piedi nella
realtà, il culo sulla sedia, la penna sulla carta. Dategliene secche.
Stephanie Land, mentre ancora
lavorava come donna delle pulizie, se l’era tatuato sulle dita della mano
destra: «s-o-w-r-i-t-e», «E allora scrivi», lettera per lettera, una per ogni
dito. Therry White, scrittrice working class britannica, lo dice così: «I’ve
read and heard a lot of writing advice over the years, and the only advice that
actually makes any real sense/works is just write the fucking thing». Tradotto:
scrivi quel cazzo di libro, maremmacane! E ha ragione lei: è l’unico consiglio
che conta.
scrive
Alberto Prunetti:
1. Niente
approcci vittimari
Con le nostre
storie working class non vogliamo che il lettore ci venga a battere lacrimevoli
pacche sulle spalle. Niente autocommiserazione. Rappresentiamo i proletari di
rado come vittime, piuttosto come attori e protagonisti di movimenti sociali,
di un periodo storico, di cambiamenti e trasformazioni radicali. Più che
l’alienazione, raccontiamo l’orgoglio e la strafottenza di appartenere alla
working class. Al tono dolente, contrapporre l’esuberanza turbolenta dei
subalterni, di chi finalmente riesce a raccontare la propria storia senza farsi
raccontare dagli altri. Occhio però a non brandire l’abuso patito come una
clava, cercando la zona di comfort della vittima e alla fine depoliticizzando
il trauma: bisogna saper guardare ai traumi degli altri più che ai propri, per
fare scritture working class degne di questo nome.
2.
Umorismo di contrasto
Se facciamo
commuovere i lettori, non bastano le loro lacrime. Se li facciamo ridere, non è
perché vogliamo intrattenerli. Mescolare tragedia e commedia, l’umorismo e la
tensione emotiva del dramma. Usare l’ironia per ribaltare i contesti, per
smontare le pesantezze retoriche dell’ideologia, per fare il sì dov’era
il no. Quando la classe lavoratrice è raccontata dall’esterno,
emergono la tristezza, l’alienazione, la sofferenza. Dall’interno, bisogna
raccontare le zone d’ombra e quelle di luce. E non aver paura di legare gli
opposti con l’umorismo, che è il brodo di cultura popolare in cui siamo
immersi. La vita operaia è fatta di opposti e serve tutta la forza di un
saldatore per tenerli assieme. Questa è anche una tecnica di lotta. Pensate ad
Alì contro Foreman. Vi faccio venire sotto. Vi lancio un aneddoto, ridete. Vi
siete scoperti: destro d’incontro con legnata emotiva al fegato. Accusate il
colpo, incassate a fatica. Cambiate di guardia, fingo con un’altra battuta e vi
lancio a sorpresa un rapido job di sociologia: siete rimasti sguarniti da lato
del materialismo storico. Andate a terra. Se cadete knock-out, è perché siete
ancora vivi. Quel dolore è la vostra umanità.
3.
Responsabilità
Se parliamo di noi
e delle nostre famiglie, non è narcisismo. Quello che per alcuni è narcisismo,
per altri è autorappresentazione. Così le storie personali di chi sta nei coni
d’ombra della narrativa diventano storie esemplari. Se diciamo «io», non è per
culto della personalità, ma per un’assunzione di responsabilità su quel che
raccontiamo. Quando usiamo la prima persona, lo facciamo per asserire che noi
siamo dentro al racconto, dentro alla classe, al lavoro, allo sfruttamento. La
terza persona serve al narratore esterno che sceglie uno sguardo più oggettivo.
Noi però stiamo dentro all’enunciazione e all’enunciato, al racconto e al
vissuto. Solo speriamo che quella prima persona da soggettività singolare si
faccia plurale: dov’è l’io, fare il noi.
[…]
5. Meglio
le narrazioni ibride…
…che il
romanzo-romanzo. Del resto il romanzo è stata la forma espressiva in cui la
borghesia si è rappresentata, da Defoe in avanti. Ma è anche una forma
elastica, che nasce già ibrida (penso a Laurence Sterne) e che può essere usata
in forme diverse da quelle scelte dal canone letterario consolidato o anche
solo dal mainstream editoriale degli ultimi anni. Intrecciamo quindi opere di
finzione con memoir, autofiction, etnografia della classe, inchiesta operaia,
diari e materiali d’archivio. Moltiplichiamo non solo i registri e i generi ma
anche le forme dell’esposizione (descrittiva, di invettiva, poetica). E infine
diamo forza perlocutiva ai nostri scritti: usiamoli per fare cose nella realtà,
per trasformare il mondo.
[…]
8.
Mimetismo e sperimentazione
Al solito: i
borghesi possono prendersi il lusso della sperimentazione, dell’espressionismo,
del gioco formale, dell’avanguardia. Ai poveracci tocca replicare
cacofonicamente le loro sfighe. Ritengo invece che per restituire al meglio la
complessità del linguaggio e delle esperienze delle persone di classe operaia
sia necessario suonare registri distinti, dosare un complesso impasto
linguistico, ricorrere a sperimentazioni, spingere l’acceleratore del
simbolismo e dell’allegoria. Fare del testo un cantiere aperto, replicando in
narrativa il lavoro della carpenteria industriale. Bisogna ibridare, non come
un artista, ma come un saldatore che da sempre assembla strutture non omogenee
per creare architetture di carpenteria sedimentate e stratificate. Da qui deriva
anche la tensione verso l’iperrealistico, il caricaturale, il grottesco. Senza
fare i fighetti che se la menano col postmodernismo: se vogliamo essere capiti
dai pensionati del circolo Arci, dovremo allora essere pronti a tornare su una
lingua piana. Dipende cosa vogliamo dire e a chi vogliamo parlare.
Molto spesso però
il realismo rischia di diventare una catena che ci imbriglia, una zona di
confino.[i]
[…]
12. Uso
del linguaggio tecnico dell’industria
Il linguaggio
tecnico e settoriale del lavoro industriale può essere una delle
caratteristiche della narrativa working class. Contrariamente a quel che si
pensa, molti lavori operai richiedono competenze, sapere, studi: l’immagine
dell’operaio dequalificato, che compie solo mansioni semplici e frammentate, è
fuorviante. Per costruire il lessico tecnico del lavoro serve esperienza sul
campo. Faccio una semplice osservazione. Quando una persona comune, magari con
laurea, entra in un ferramenta, spesso si trova priva di parole per designare
gli oggetti. Sono tutte cose che cosando cosano. Per fortuna
l’addetto alle vendite è spesso un buon semiologo (anche se ha fatto l’Iti o il
professionale) e cercherà di tradurre quella richiesta generica in un oggetto
specifico. Al contrario, un operaio in ferramenta si trova nella propria zona
di comfort. Ogni cosa su quegli scaffali ha un nome e una misura specifici. E
lui li conosce. Adesso portiamo questa competenza linguistica dal banco della
ferramenta in narrativa. Prendiamo Inox, il romanzo di Eugenio
Raspi che racconta il lavoro nelle acciaierie di Terni. Qui il linguaggio
tecnico diventa davvero il punto di forza della narrazione. Ci sono storie operaie
che non si possono raccontare senza le parole del gergo tecnico. E questo
racconto può farlo decentemente solo un operaio.
13.
Raccontare il disastro industriale e ambientale
Bisogna anche far
convergere le lotte. E quelle operaie devono essere legate a quelle ambientali,
che a loro volta devono essere connesse alle lotte per la salute sul posto di
lavoro. La classe operaia ha lavorato a rischio per decenni. Sull’orlo della
malattia professionale e dell’incidente, sul baratro della nocività, a un passo
dal disastro industriale e ambientale. Il lavoro a rischio va raccontato fino
alle sue estreme conseguenze: dagli infortuni personali fino ai disastri
ambientali e industriali. Senza logiche vittimarie: prima che vittime, i vecchi
operai sono testimoni di un abuso patito sulla propria pelle. Da Taranto a
Bhopal, da Marcinelle a Casale Monferrato, bisogna raccontare i disastri
imposti dalle logiche del profitto alla salute e all’ambiente, bisogna mettere
sotto la lente della scrittura il lavoro nocivo e la deindustrializzazione
selvaggia che si lasciano alle spalle inquinamento e bonifiche mai realizzate.
Uno storytelling del disastro che metta assieme questioni ambientali e
questioni di classe, chiedendo la giustizia climatica accanto a quella sociale,
laddove le retoriche mainstream tendono a separare i temi per meglio
imbrigliarli, spingendo poi i lavoratori con le spalle al muro, a scegliere tra
occupazione o inquinamento. Ossia a non scegliere ma a subire politiche
industriali devastanti e fallimentari.
Tra le retoriche
che infestano il discorso pubblico, c’è quella che dipinge l’ambientalismo come
un lusso per ricchi. In realtà, le prime vittime dei disastri industriali sono
sempre le persone comuni. I poveri sono i primi a pagare la crisi climatica creata
dall’industrialismo, i cui vantaggi finiscono come profitti nelle tasche della
classe dei super-ricchi. È interesse degli operai, esposti per primi alle
nocività industriali, lottare per ottenere il pane e le rose, entrambi non
avvelenati, senza polveri sottili e benzopirene. Di qui la necessità di lottare
(e scrivere) unendo le rivendicazioni sul lavoro e quelle sull’ambiente.
Bisogna far convergere i punti di vista: unire le rivendicazioni in una
prospettiva di ambientalismo working class. […] Lo storytelling dal basso può
servire a smontare le logiche delle retoriche tossiche imposte dall’alto, che
finiscono per spingere i lavoratori a scegliere tra pane e salute: una finta
scelta, un arrocco imposto dal padrone che ha già messo sotto scacco i lavoratori
nel momento in cui distrugge i cavalli operai dell’immaginario e spinge in
avanti le torri della ristrutturazione industriale, con la classe media che fa
da peoni e i sindacati che a volte non si capisce da che parte giochino.
[i] […] Prendiamo Bryan Stanley
Johnson, l’autore di In balia di una sorte avversa. B.S. Johnson
ha tutte le carte in regola per essere un working-class hero della
letteratura: nato nelle Midlands inglesi, impegnato nel sindacato, scrive
spesso di lavoratori e di conflitti sociali con prospettive di sinistra. Pare
abbia anche un caratteraccio. Ma … ma è troppo sperimentale! Il romanzo del
1969 di B.S. Johnson gioca con le forme espressive come farebbe un autore del
Nouveau Roman: è formato da ventisette capitoli rinchiusi in una scatola il cui
ordine viene liberamente deciso dal lettore. Una cosa del genere non può averla
fatta uno sfigato o un poveraccio. La narrativa operaia deve essere inchiodata
al realismo. I proletari non possono essere modernisti, o espressionisti, o
lanciarsi nella sperimentazione avanguardistica. Lo sanno tutti: sono dei bruti
che scrivono di maschi che fanno a cornate fuori dal pub! Su Bryan Starnley
Johnson consiglio la biografia scritta da Jonathan Coe: Come un
furioso elefante. La vita di B.S. Johnson in 160 frammenti.
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