Soltanto nel corso degli ultimi decenni la persecuzione e lo sterminio
nazi-fascisti della popolazione romaní (rom, sinti e caminanti) sono divenuti
oggetto di studi e di commemorazioni in occasione del Giorno della
Memoria (27 gennaio). D’altronde, basta dire che nel corso
dello stesso Processo di Norimberga ai superstiti del Porajmos (traducibile
dalla lingua romaní come “grande divoramento” o “devastazione”) fu
rifiutata la costituzione quale parte civile.
Eppure a esserne vittime furono centinaia di migliaia di loro. Alcune/i studiose/i
− in particolare il rom Ian Hancock, ottimo linguista ma anche strenuo
attivista, nonché direttore del Romani Archives and Documentation
Center, presso l’Università del Texas − sostengono si tratti di un
numero che si aggirerebbe tra le 500mila e il milione e mezzo di martiri, se si
comprendono coloro che perirono nel corso delle fucilazioni di massa in tutte
le aree occupate dai nazisti, in particolare nei paesi baltici e balcanici, a
opera non solo dei nazisti, ma anche dei collaborazionisti locali.
Quanto all’Italia fascista, già nel 1926 il ministero dell’Interno emanò
una circolare volta a “epurare” il territorio nazionale dalla presenza di una
minoranza considerata pericolosa “per la sicurezza e l’igiene pubblica” nonché
per lo stile di vita: degli “eterni randagi privi di senso morale“,
come li avrebbe definiti Guido Landra, tra i più noti firmatari del Manifesto
della Razza.
Con le leggi per “la difesa della razza” e l’entrata in guerra dell’Italia,
si passò rapidamente dalle pratiche di schedatura, detenzione ed espulsione a
quelle di persecuzione e di deportazione, preceduta dall’internamento in lager
riservati agli “zingari”: ve ne furono nei comuni di Agnone, Berra, Bojano,
Chieti, Fontecchio negli Abruzzi, Gonars, Prignano sulla Secchia, Torino di
Sangro, Tossicia, ma anche nelle isole Tremiti…
Il regime hitleriano, com’è ben noto, portò alle estreme
conseguenze l’anti-ziganismo, che era assai diffuso, anche in forma
istituzionale, perfino nella democratica Repubblica di Weimar: per fare un
solo esempio, nel 1929 un centro di studi e controllo su questa minoranza, fu
rinominato e convertito in Ufficio centrale per la lotta contro la
piaga zingara. Subito dopo l’avvento del Terzo Reich, nel 1933, fu
promulgata la legge Per la prevenzione di progenie affetta da malattie
ereditarie, che introdusse la pratica della sterilizzazione forzata
anche per rom e sinti, perfino per donne incinte e ragazze/i, con esiti in non
pochi casi letali.
Nel 1935 si aggiunsero le leggi razziste di Norimberga, che privarono la
minoranza romanì della nazionalità e di qualsiasi pur elementare diritto. Tre
anni dopo, una circolare emanata da Heinrich Himmler faceva riferimento
alla “soluzione finale della questione zingara“ e
ordinava la schedatura di tutti gli “zingari”, che fossero nomadi o stanziali.
Già a partire da dicembre del 1941 cinquemila “zingari”,
provenienti dal ghetto di Łódź, furono gasati nel campo di sterminio di
Chelmno, al pari degli ebrei. Infine, il 16 dicembre 1942, Himmler
firmò l’ordine d’internamento dei rom e dei sinti tedeschi nello Zigeunerlager del
campo di Auschwitz-Birkenau, un lager nel lager. Qui anche
dei bambini “zingari”, oltre a quelli ebrei, sarebbero stati
selezionati per essere sottoposti agli orrendi esperimenti pseudo-scientifici
di Josef Mengele.
Nondimeno gli “zingari” vendettero assai cara la pelle. Furono loro gli
attori dell’unico episodio di resistenza compiuto in un lager. Il 16 maggio del
1944, avuta notizia dello sterminio imminente, un folto gruppo d’internati
nello Zigeunerlager, armato di pietre e bastoni, riuscì a tenere
testa alle SS, tanto da ucciderne undici e ferirne un buon numero. La
loro rivolta durerà ben tre mesi, fino alla “soluzione finale”. Lì furono in
19.300 a perdere la vita: 5.600 finirono gasati; 13.700 morirono per fame, per
malattie, per gli esiti delle sperimentazioni compiute dall’Angelo della
Morte.
Ciò nonostante nei processi di Norimberga neppure si citò lo
sterminio di rom, sinti e caminanti e nessun testimone “zingaro” fu chiamato a
deporre.
Tuttora, specialmente in Italia, rom, sinti e caminanti, sbrigativamente
chiamati “zingari”, costituiscono la minoranza più disprezzata e stigmatizzata,
discriminata ed emarginata, addirittura segregata: sono, si potrebbe dire,
le vittime strutturali del razzismo. Si tenga conto
che l’ordinamento italiano non contempla alcuna norma che riconosca
questa popolazione quale minoranza etnico-linguistica, in quanto tale titolare
di diritti poiché tutelata, tra l’altro, dall’art. 6 della Costituzione
repubblicana.
Si aggiunga che l’Italia è il solo Paese in Europa ad aver elevato
a vero e proprio sistema i cosiddetti campi-nomadi: materializzazione perfetta
della discriminazione nonché del pregiudizio che vuole che essi siano nomadi
per natura e vocazione. Si tratta di un sistema di ghetti, per lo più
degradati e collocati in periferie urbane estreme, esse stesse degradate, che
viene organizzato e sostenuto pubblicamente allo scopo di segregare gli
“zingari”, privandoli della possibilità di lavorare, partecipare alla vita
italiana, avere contatti e rapporti con la società maggioritaria.
Oggi le istituzioni, a loro dire, mirano alla chiusura e al superamento dei
“campi-nomadi”. Ma, a giudicare dalle azioni effettivamente intraprese, l’esito
è quello di chiudere i campi cacciando via gli “zingari”, senza alcuna
iniziativa che ne favorisca l’inclusione nello spazio urbano.
Il repertorio di pregiudizi, atti discriminatori, violazioni di diritti
umani fondamentali, minacce e aggressioni ai danni di rom, sinti e caminanti,
fino all’incitamento al linciaggio da parte di alcuni soggetti istituzionali e
rappresentanti di partiti politici, è talmente vasto che non basterebbero
alcuni tomi a contenerlo.
Fra le altre cose, eventi abituali nella vita dei rom, dei sinti e dei
caminanti sono le irruzioni nei “campi-nomadi” delle forze di polizia, condotte
con metodi tanto brutali da somigliare a rastrellamenti, nonché gli sgomberi
forzati, la sistematica distruzione dei loro insediamenti e delle loro cose,
spesso seguita dalla deportazione.
In Italia da alcuni anni la politica istituzionale anti-zigana, basata su
sgomberi e deportazioni, si compie attraverso la periodica decretazione dello
stato di emergenza, una misura che dovrebbe essere riservata solo ai casi
di gravi calamità naturali quali i terremoti. L’”emergenza-nomadi” è in
sostanza una misura che assimila a una catastrofe la presenza di poche
migliaia di “indesiderabili”: basta pensare che i rom presenti a Roma, città
che s’illustra per questo genere di politica, sono poco più di 4.500 persone su
2.874.605 abitanti residenti, vale a dire circa l’1,5 per mille della popolazione.
Pochi dati fanno risaltare, per contrasto, di quante dicerie e leggende si
nutrano la discriminazione e segregazione dei rom, sinti e caminanti, a
cominciare dal mito del nomadismo: l’80% dei cosiddetti zingari dopo il
XVIsecolo non si sono mai allontanati dal proprio paese europeo di residenza;
in alcune regioni italiane essi sono stanziali almeno dal XV secolo.
Secondo dati recenti, sarebbero tra le 110mila e le 170mila le persone che
s’identificano come rom, sinti o caminanti. Di loro circa 70mila sono di
nazionalità italiana, per lo più discendenti da famiglie giunte in Italia nel
tardo Medioevo. Gli altri provengono in gran parte da paesi dell’Est-Europa,
soprattutto dalla Romania, quindi in quanto tali “regolari” e inespellibili.
Checché ne pensi Beppe Grillo, che già nel 2007 definiva “una bomba a tempo” i rom di
nazionalità romena e proponeva d’interdire loro la libera circolazione nell’Ue,
onde salvaguardare “i sacri confini della Patria”.
A vivere nei campi sono in 26mila, dei quali 10mila in campi non
autorizzati. Più della metà di loro è costituita da bambini/e e ragazzi/e
al di sotto dei 16 anni. La fame, il freddo, l’emarginazione, le malattie,
i roghi, la discriminazione negano loro il diritto di invecchiare: solo
il 2% raggiunge i 60 anni di età.
Eppure la gran parte di questa minoranza, come ho detto, è parte integrante
della popolazione e della storia italiane. Per limitarci a un dato relativo
alla storia contemporanea, basta ricordare che numerosi rom e sinti
parteciparono alla Resistenza contro il nazifascismo. Fra i pochi dei
quali conosciamo le biografie, si può citare il sinto piemontese Amilcare
Debar, detto Taro, scomparso il 12 dicembre 2010.
A soli diciassette anni Taro fu staffetta partigiana; poi, sfuggito
fortunosamente alla fucilazione, divenne partigiano combattente nelle Langhe e
militò, con il nome di “Corsaro”, nel battaglione “Dante di Nanni” della 48ma
Brigata Garibaldi, al comando di Pompeo Colajanni. Rastrellato dai nazisti nel
1944, fu deportato a Mathausen e ad Auschwitz e liberato nel 1945.
Nel dopoguerra egli fu rappresentante del suo popolo alle Nazioni Unite, a
Ginevra.
Benché onorato e pluridecorato, Taro, al pari di altri rom, sinti e
caminanti sopravvissuti ai campi di sterminio, visse fino alla fine dei suoi
giorni in un “campo-nomadi”.
Nel 2008 (ministro dell’Interno Maroni), nel corso di una vasta campagna
istituzionale mirante alla schedatura “etnica” di massa, con rilevamento delle
impronte digitali, dei rom, sinti e caminanti presenti sul territorio italiano,
compresi i bambini, furono schedati: anche ex-deportati ed ex-internati nei
lager fascisti e nazisti.
Oggi, niente di buono per loro c’è da aspettarsi dal governo decisamente di
destra che si profila. Basta ricordare che, appena insediatosi, Matteo
Salvini, annunciando un censimento “etnico” alla maniera di Maroni, ne
sparò una delle sue: “Se gli stranieri irregolari vanno espulsi, i rom
italiani purtroppo te li devi tenere a casa”. Quanto alla
famigerata legge sulla sicurezza, da lui fermamente voluta, rafforzando
ed estendendo il “Daspo urbano” e altri dispositivi repressivi,
essa ancor più ha esposto la minoranza romaní a soprusi,
discriminazioni, deportazioni.
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