Abbiamo la cattiva abitudine di occuparci di pace quando cadono le bombe, ma a quel punto è troppo tardi. Le guerre vanno prevenute e si prevengono costruendo attivamente la pace attraverso iniziative di giustizia, diplomazia, disarmo.
Tre percorsi inseparabili fra loro, perché non può esserci diplomazia senza
giustizia e non può esserci disarmo senza diplomazia.
Non si può pretendere di avere rapporti pacifici se c’è chi vive di
prepotenza e se le disuguaglianze restano radicate. Sinora le guerre moderne
sono state per il controllo di combustibili fossili e di minerali per la
siderurgia, da qui in avanti saranno sempre di più per l’acqua, per i minerali
rari, per le terre agricole, per la biodiversità, per il controllo delle catene
di fornitura in settori chiave come semiconduttori, robotica, farmaceutica.
La prepotenza provoca risentimento, rancore, diffidenza, stati d’animo che
preparano la strada all’inimicizia e al desiderio di vendetta, con esiti
imprevedibili per l’estensione e la forma che possono assumere.
L’alternativa è la politica del rispetto, la capacità di intrattenere
rapporti commerciali equi che tengono conto dei diritti e delle esigenze di
tutti, fino a sapere abbandonare la logica della convenienza per adottare
quella della solidarietà.
Un passaggio quasi inconcepibile per la dominante mentalità materialista
secondo la quale le relazioni economiche non possono mai concludersi con
perdite monetarie. Ma è la visione miope di chi continua a non capire che le
rinunce economiche sono spesso compensate da guadagni su altri piani: la
concordia, la riconoscenza, la fiducia, ingredienti fondamentali di quei
rapporti di amicizia che garantiscono la pace.
Il che dimostra che c’è una stretta correlazione fra modello di sviluppo e
pace, avvalorando la tesi di chi sostiene che la pace, al pari dell’ecologia, è
un concetto di tipo integrale.
Accanto a condizioni di equità, l’umanità deve anche dotarsi di sedi e vie
diplomatiche per la composizione pacifica dei conflitti. Un’esigenza che i
nostri costituenti avevano ben chiara quando nell’articolo 11 precisarono che
l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo».
Parole che dovremmo intendere in senso estensivo, facendo assumere
all’Italia il ruolo di negoziatore attivo per la risoluzione dei conflitti
internazionali. Ma anche quello di grillo parlante in seno all’Unione Europea affinché
venga attuato l’articolo 21 del Trattato Ue: «L’Unione definisce e attua
politiche comuni (…) al fine di preservare la pace, prevenire i conflitti e
rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai
principi della Carta delle Nazioni Unite».
La sensazione è che non imboccheremo mai la strada della diplomazia finché
non ci crederemo. Parliamo di pace, ma prepariamo la guerra, parliamo di
diplomazia, ma rafforziamo le armi.
Le alleanze militari a questo sono vocate. Non a caso, recentemente la Nato
ha chiesto a tutti i suoi membri di innalzare la propria spesa militare al 2%
del Pil. Una pericolosa escalation. L’alternativa è ridurre la spesa
militare cominciando a costruire percorsi di difesa non armata. Nella storia si
sono avuti vari casi di eserciti messi in difficoltà da popolazioni che hanno
attuato la non collaborazione.
Maestri come Gandhi, Martin Luther King, Tolstoj, don Lorenzo Milani, ci
hanno insegnato che nessun potere può sopravvivere di fronte a popolazioni che
in nome dei propri valori attuano la non collaborazione tramite la
disobbedienza civile.
Papa Francesco definisce la guerra una follia e lo è ancora di più alla
luce del fatto che la difesa popolare e nonviolenta è possibile, purché ci si
investa. Per questo la Rete Pace e Disarmo chiede al Parlamento il varo
una legge per l’“Istituzione del Dipartimento della Difesa Civile non armata e
nonviolenta”.
Una proposta di legge che tra l’altro contiene anche la così detta opzione
fiscale, ossia la possibilità per i contribuenti di destinare al previsto
Dipartimento il sei per mille della propria Irpef. Ed è proprio riprendendo
questa idea che varie personalità, fra cui Alex Zanotelli, Luigi Ciotti, Moni
Ovadia, oltre a chi scrive, hanno lanciato una campagna denominata “Sei
per la pace, sei per mille”, chiedendo a chiunque la condivide
di agire come se l’opzione fiscale fosse già realtà, versando il sei per mille
della propria imposta Irpef alla Tesoreria Centrale per la Protezione Civile o
altra realtà che persegue finalità coerenti con la difesa civile non armata e nonviolenta.
Inoltre chiede di accompagnare tale scelta con una richiesta di rimborso
all’Agenzia delle Entrate, in modo da creare un caso politico che costringa
Governo e Parlamento a occuparsi del tema. Chiunque voglia dare la propria
adesione, per dimostrare che in Italia esiste un popolo della pace, è invitato
a iscriversi sulla piattaforma https://peacelink.it/seipermille.
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