venerdì 4 novembre 2022

Israele: vincono sempre occupazione e apartheid

 


articoli di Breaking the Silence, Antonio de Lellis, Amira Hass, Richard Falk, Hani al-Masri, Ilan Pappè, Gideon Levy, Yuval Abraham, Marwan Bishara, Hagar Shezaf, Jonathan Kuttab, Alex Levac, Hagai El-Ad, Quds Network, Ramzy Baroud



Quando visiti la Palestina – Antonio de Lellis

 

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi un istante di dramma inconsolabile, di una ingiustizia tagliente, di una speranza attiva. Vivi nel racconto carico di forza di chi sta soffrendo, nel sorriso acceso delle donne, negli occhi neri e profondi dei bambini e delle bambine, nella simpatia di chi lotta. Vivi l’accoglienza di un popolo fiero e antico, di uno sguardo stanco e mai arreso, nell’operositá di donne colme di dignità.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi la lotta nonviolenta nell’orgoglio di generazioni che guardano al cielo, che hanno mani ruvide e del colore rossastro della terra, perseveranti come la roccia, ovunque presente, come il vento che ti frusta il volto. Vivi la sprezzante presunzione di chi occupa la terra, condizionando il giorno e la notte nella umiliazione e nel sangue. Vivi lo stato di occupazione, i militari dappertutto, le assurde costruzioni di coloni aggressivi e potenti.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi la poesia e le parole fatte di pietre e di sconfinata tenerezza, Vivi, senza comprendere, il senso di quella segregazione e mutilazione, sociale, economica e politica. Vivi quel muro alto e irragionevole che delimita il diritto dall’anarchia statale di chi impone e occupa, vivi il muro come un mostro incombente, come una cesura e rottura, come un coltello tagliente, come un fuoco che soffia solo da una parte. Vivi i giovani che lottano stanchi e delusi, privati di diritti e ricchi di povertà, miseria, visioni possibili e azioni concrete, dentro una economia subordinata, dipendente e asimmetrica.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi il fastidio dei controlli, della sicurezza idolatrata, dei mitra esposti, dei soldati troppo giovani per avere quel potere. Vivi l’ostinazione e l’amore di un popolo laborioso che costruisce una economia di pace, una società della cura, di chi non vuole avere nemici, di chi studia azioni nonviolente, ma che comprende la resistenza limitata, nonché la più diffusa resistenza popolare civile nonviolenta. Vivi il cibo offerto, semplice e autentico, di persone al servizio dello sviluppo di un paese che ti entra dentro e prende il posto di un muro osceno e barbaro che non può resistere all’ardore di una popolazione che ha il diritto di resistere e esistere.

Quando visiti la Palestina, un popolo coraggioso ti entra dentro.

https://comune-info.net/quando-visiti-la-palestina/

 

La distruzione dello spazio palestinese – Amira Hass

Da decenni Israele porta avanti un piano per appropriarsi della terra palestinese. I suoi strumenti sono gli insediamenti coloniali, la violenza e la sottomissione

Questa è la madre di tutte le escalation, su cui i diplomatici europei o statunitensi a Gerusalemme ricevono regolari aggiornamenti. Ma, sulle bocche dei loro capi in patria, si traduce in cliché come “sosteniamo il diritto di Israele a difendersi”. Anche il cinismo diplomatico sta aumentando.

I mezzi d’informazione israeliani sono ossessionati da questioni minori e transitorie, come l’ultimo sondaggio elettorale, e ripetono fino alla nausea il ritornello dei militari e dei coloni sull’aumento delle violenze a Jenin. La loro missione è evitare di occuparsi di quello che è veramente importante: la pianificata frammentazione territoriale che molti israeliani portano avanti con fredda, giuridica, chirurgica efficienza, avvolta in una sofisticata propaganda e in una religiosità affamata di possesso attentamente calcolata. La mutilazione geografica, demografica ed estetica dello spazio palestinese avviene alla luce del sole.

L’israelizzazione procede a gonfie vele. Lussuosi sobborghi immersi nel verde, annunci di case unifamiliari a prezzi accessibili, rotonde e centri commerciali che vantano un’atmosfera familiare hanno trasformato le comunità palestinesi in uno scenario bidimensionale. O le hanno nascoste dietro cancelli di ferro, bypass roads(strade costruite da Israele per collegare le colonie tra loro), vie bloccate e cartelli in ebraico che proibiscono l’accesso agli israeliani. La pianificazione territoriale di Israele vuole rendere i palestinesi un’entità ridondante e affermare l’inattaccabile superiorità degli abitanti delle colonie ebraiche, ora e in futuro.

Ogni tanto, Haaretz o il sito +972 Magazine denunciano atti di questo stupro dello spazio. Ma due o tre articoli al mese, o anche alla settimana, non riflettono la portata, il ritmo e la natura seriale del fenomeno. Per capire quanto possa essere distruttiva la pianificazione e la disciplina con cui Israele fa a pezzi il territorio palestinese, bisogna continuare a ridisegnare le linee che collegano migliaia (ho detto migliaia? sono milioni) di punti: i fatti sul campo creati da tutti i governi israeliani negli anni.

Unire i punti

Tutto comincia nel 1971 con un ordine militare che abolisce l’autorità di pianificazione delle città palestinesi (l’ordine è ancora oggi valido in circa il sessanta per cento della Cisgiordania). Si continua con l’espropriazione di terre per scopi militari e il loro successivo trasferimento agli insediamenti, in violazione del diritto internazionale; il divieto di costruzione e sviluppo per i palestinesi; strade che divorano l’ambiente; terreni agricoli confiscati (“per necessità pubbliche”) a beneficio degli insediamenti isolati; autostrade in stile californiano che collegano gli insediamenti a Israele; nuove vie asfaltate scintillanti per unire il cuore di ogni insediamento con i suoi nuovi quartieri e avamposti a diversi chilometri di distanza, che inghiottiscono altre terre dei vicini villaggi palestinesi, le loro riserve e i loro pascoli; il divieto per i palestinesi di costruire vicino a questi passaggi; e non dimentichiamo la strada di sicurezza che circonda ogni insediamento.

Si va ancora oltre impedendo ai palestinesi di accedere alle loro terre per anni, con pretesti e mezzi vari; limitando la quantità d’acqua che gli è assegnata e le trivellazioni per trovarne altra; dichiarando centinaia di ettari di campi palestinesi “terra dello stato”; assegnando gli appezzamenti solo ai coloni ebrei; creando zone di tiro per le esercitazioni militari in modo da bloccare il naturale sviluppo rurale dei palestinesi; comprando terreni con documenti falsi; trasformando case mobili in ville permanenti; bloccando le uscite dai villaggi palestinesi vicini; piantando i vigneti degli avamposti agricoli su terre palestinesi apparentemente “abbandonate”; e lasciando che gli avamposti con le greggi, ora molto di moda, divorino altra terra palestinese.

E infine ci sono le decisioni del governo di legalizzare tutto questo, e il muro di separazione, che imprigiona ampie fasce di terra palestinese fertile a ovest, dalla parte di Israele. I proprietari di questi campi possono ottenere i permessi per accedervi in determinati momenti e con grande difficoltà, ma qualsiasi israeliano può attraversarli a suo piacimento, e a volte perfino appropriarsene.

Ognuno di questi fatti deve essere collegato a tutti gli altri. Altrimenti è impossibile capirne fino in fondo il significato e le implicazioni. Sennò non si può vedere il mostro nella sua interezza.

Si possono calcolare gli ettari di terra occupati dagli avamposti di pastorizia. Si può dire quanti ettari sono stati espropriati dalle aree palestinesi, de iure o de facto. Si possono descrivere i denti dei bulldozer che sradicano uliveti antichi e nuovi. E si può misurare quasi al centimetro quanti terreni agricoli chiaramente palestinesi, con antichi pozzi e sorgenti gorgoglianti, sono stati convertiti, o stanno per esserlo, in un tesoro immobiliare per coloni ebrei o in polmoni verdi senza arabi (tranne quelli che ci lavorano). Ma bisogna continuare a unire tutti questi fatti per capire come la terra sia stata riempita di insediamenti: il blocco di Shiloh, quelli di Etzion a est, a ovest e a nord, il blocco di Reihan, l’enclave di Latrun, il blocco di Talmonim, di Ariel, di Rimonim, il blocco formato dalla città vecchia di Hebron e Kiryat Arba. A questi si aggiungeranno presto quelli della valle del Giordano settentrionale, di Shima nelle colline sudoccidentali di Hebron e il blocco di Susya nella Cisgiordania sudorientale. La lunga mano di Israele è ancora tesa.

Non c’è dubbio che la speranza (il piano) del premier Yitzhak Rabin si sia realizzato. Un mese prima di essere ucciso, nel 1995 Rabin disse alla knesset, il parlamento israeliano, che una delle basi di qualsiasi accordo sarebbe stata “la creazione di blocchi di insediamento come Gush Katif anche in Cisgiordania”.

Gush Katif, nella Striscia di Gaza, è stato smantellato. Ma al suo posto sono nati o stanno nascendo altri insediamenti e metastasi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, innumerevoli come i granelli di sabbia su una spiaggia.

Oltre ai resoconti della stampa palestinese, organizzazioni israeliane come Kerem navot, Bimkom, Ir amim, Peace now, Emek shaveh, B’Tselem e Yesh din, nonché l’Arij, l’Istituto palestinese di ricerca applicata di Gerusalemme, forniscono una grande quantità di informazioni, segnalazioni in tempo reale e analisi approfondite. Tuttavia, chiunque non abbia vissuto questo processo o non l’abbia visto con i suoi occhi avrà difficoltà a comprendere la sua violenza distruttrice.

Avvocati, sia per conto proprio sia in organizzazioni come Haqel, l’Associazione per i diritti civili in Israele e il Centro per la difesa dell’individuo Hamoked, insieme ad attivisti palestinesi e israeliani, cercano di fermare questo stupro seriale, o almeno di lanciare allarmi. Ma queste organizzazioni sono poche e piccole, e sono sempre più perseguitate ed emarginate.

I mezzi d’informazione di destra e gli organi di comunicazione dei coloni pubblicano spesso resoconti vittoriosi su nuove conquiste immobiliari divinamente sioniste. Chi legge queste notizie considera la triturazione, la frammentazione e la compressione dei palestinesi in enclave come una redenzione, l’adempimento di un comando divino oltre che un balzo in avanti nella sua qualità della vita e nei suoi guadagni materiali.

La violenza dei coloni e la loro appropriazione di terre palestinesi, al di là di quanto si legge nei piani regolatori ufficiali, sono una parte inseparabile del sistema. La violenza è raccontata un po’ di più, perché è una storia con una trama. Tuttavia, nonostante le occasionali espressioni di sgomento, le forze della “legge” e dell’ordine hanno permesso e continuano a permettere questa aggressione sistematica, legittimandola e incoraggiandola.

Anno dopo anno

Tutto ciò avviene sotto gli occhi dei soldati, che si tengono in disparte o sparano ai palestinesi che accorrono in aiuto dei loro fratelli. Le vittime degli attacchi sono arrestate, gli aggressori ebrei sporgono denuncia, la polizia non identifica i coloni sospettati né li interroga, il caso è chiuso per mancanza d’interesse pubblico e non ci sono indagati. Succede mese dopo mese, anno dopo anno.

La violenza sionista che accompagna ogni nuovo avamposto era ed è come l’urina che un cane usa per marcare il territorio. Dopo arrivano l’esercito, gli urbanisti, il consiglio regionale degli insediamenti e gli avvocati. Si finisce il lavoro con le case mobili, seguite dagli allacciamenti all’acqua e all’elettricità e spesso con l’acquisizione di una sorgente e con il divieto per i palestinesi di accedere ai loro uliveti. Sono autorizzati ad andarci solo due volte all’anno, con un coordinamento preventivo e una scorta militare, se i coloni sono così gentili da permetterglielo.

Ma questo non è mai un confine definitivo e permanente. Altre violenze espandono ulteriormente il territorio, anche di pochi ettari alla volta. E nel processo le sacche destinate ai palestinesi sono inghiottite. Più sono piccole, dense e isolate dalle altre, meglio è.

La frantumazione va oltre il proposito di “ostacolare la creazione di uno stato palestinese”. È un abuso deliberato e istituzionalizzato nei confronti dei cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (la separazione della popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania fa parte della segmentazione territoriale). Questo abuso colpisce proprietà e reddito, tradizione e vita familiare, la possibilità di un’istruzione, i legami sociali, la libertà di movimento, qualsiasi possibilità di un futuro. Il furto istituzionalizzato e sofisticato del territorio aggredisce sia il presente sia la storia di ogni località, città, villaggio e famiglia, e danneggia la salute fisica e mentale di ogni palestinese. Il problema non è che indebolisce l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), ma che sabota inevitabilmente e intenzionalmente la vita collettiva a Gaza e in Cisgiordania.

Una volta il mondo aveva promesso che il diritto all’indipendenza e alla libertà dei palestinesi sarebbe stato realizzato. La promessa è stata tradita. Solo l’impressionante radicamento e la resilienza di queste persone hanno ostacolato un po’ il piano israeliano.

Alcuni criticano il governo uscente, in carica da un anno, dicendo che è peggio dei precedenti per quanto riguarda la politica in Cisgiordania. Denunciano l’alto numero di palestinesi uccisi dai soldati; i pogrom commessi dai coloni con il via libera della polizia, delle procure militari e dell’esercito; i piani per legalizzare gli avamposti, e così via. Questa accusa è allo stesso tempo corretta e sbagliata.

Dato che la frantumazione dello spazio palestinese è un processo pianificato e calcolato che attraversa vari governi, è naturale che ogni fase sia più sofisticata e più distruttiva della precedente e che superi qualche linea che non era stata oltrepassata prima. Si tratta di un’escalation preordinata, che avviene davanti ai nostri occhi e che l’attuale governo di centrodestra formato da Naftali Bennett, Yair Lapid e Benny Gantz non ha fermato né voleva fermare. Ma è solo un caso che l’attuale esecutivo sia responsabile di quello che è avvenuto quest’anno. Nel 2023 l’escalation continuerà; disastrosamente per noi, non c’è nessuna possibilità che il mondo si svegli ed eserciti una pressione significativa su Israele e sugli israeliani affinché la interrompano.

Promesse infrante

La distruzione e l’espropriazione non sono un’invenzione nuova; Israele ha competenza ed esperienza in questo campo. Ora sta facendo in Cisgiordania quello che ha fatto all’interno dei suoi confini riconosciuti (“la linea verde”) fin dal 1948.

All’inizio degli anni novanta, quando fu lanciato il processo diplomatico tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l’aspettativa – da parte dei palestinesi, dei pacifisti israeliani, che una volta esistevano e ora non ci sono più, e dei paesi garanti del processo di Oslo – era che Israele interrompesse il piano di erosione e furto di terra nel 22 per cento della Palestina storica. Ma sotto la copertura dei colloqui di pace, Israele ha accelerato il processo e ha sviluppato un appetito maggiore.

In questo modo ha dimostrato l’accuratezza dell’analisi e delle rivendicazioni fatte dai palestinesi nel corso di più di cento anni: l’obiettivo e l’essenza del sionismo sono l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre e dal loro paese.

L’accordo di Oslo era formulato in modo abbastanza vago da permettere di perdere tempo in discussioni sulle date, sulle porzioni di territorio da trasferire all’autorità civile palestinese in ogni dispiegamento militare, sul collegamento tra Gaza e la Cisgiordania, sul ritorno dei palestinesi sradicati nel 1967, sulla costruzione degli insediamenti, sul diritto all’acqua e sull’economia. Data la palese disparità di potere, le interpretazioni e gli interessi della parte più forte – Israele – hanno ovviamente avuto la meglio e si sono riflessi nella politica sul campo.

Il periodo intermedio stabilito dall’accordo doveva durare cinque anni e terminare nel maggio 1999. A quel punto le parti avrebbero dovuto raggiungere un’intesa su un accordo permanente, che avrebbe dovuto essere applicato immediatamente. La leadership palestinese e i capi del partito Al Fatah, che guidava l’Olp, così come i pacifisti israeliani e i paesi arabi e occidentali, giunsero tutti alla conclusione che l’intesa permanente si sarebbe basata sulla creazione di uno stato palestinese indipendente nel territorio occupato da Israele nel 1967, nonostante l’opposizione dei leader israeliani che avevano partecipato agli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. La convinzione dei negoziatori palestinesi, guidati da Yasser Arafat, che Israele avesse effettivamente deciso di cambiare atteggiamento e di non appropriarsi più delle terre palestinesi occupate è oggetto di ricerca storica, psicologica e politica.

In cambio di una graduale riduzione dell’occupazione durante il “periodo intermedio”, che avrebbe dovuto terminare 23 anni fa con il trasferimento della maggior parte della Cisgiordania all’Anp, la leadership palestinese accettò di avviare un coordinamento e una cooperazione in materia di sicurezza con i principali meccanismi dell’occupazione: il servizio di sicurezza Shin bet e l’esercito. Prese provvedimenti contro esponenti del suo stesso popolo che usavano le armi o appoggiavano l’uso delle armi per opporsi all’accordo con Israele. La giustificazione era che solo l’Anp aveva il diritto di portare armi e che il coordinamento della sicurezza era essenziale per il successo della fase transitoria, e quindi per la creazione dello stato palestinese.

Da allora sono passati quasi trent’anni e la promessa contenuta nell’accordo di Oslo – cioè che i palestinesi di Gaza e Cisgiordania sarebbero stati liberati dall’occupazione israeliana – non è stata mantenuta. Ciononostante, Israele esige che il presidente palestinese Abu Mazen e i servizi di sicurezza palestinesi continuino a proteggere l’occupazione, cioè i coloni e l’esercito. E quelli obbediscono. Si è raggiunto l’apice alla fine di settembre, quando, sotto le pressioni israeliane, i servizi di sicurezza dell’Anp si sono comportati come un esercito di occupazione a Nablus e hanno arrestato un palestinese sospettato di aver sparato contro obiettivi militari e coloni israeliani.

Quale sia il vantaggio di avere armi che non fanno nulla per fermare la macchina israeliana della distruzione e dell’espropriazione e che lasciano decine di migliaia di palestinesi in balia della violenza dei coloni è una questione da affrontare in un altro articolo. Ma l’assurdità è evidente. L’esercito e lo Shin bet hanno un subappaltatore palestinese. Continuano a pretendere che questo mantenga la sua parte di un accordo scaduto da tempo e che Israele, fin dall’inizio, ha svuotato di qualsiasi rispetto dei diritti dei palestinesi, sia come singoli sia come popolo. Fino a quando gli alti funzionari di Al Fatah e i servizi di sicurezza palestinesi continueranno a collaborare con questa umiliazione israeliana? Solo il tempo lo dirà.

https://www.invictapalestina.org/archives/47080

 

Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite che condanna il colonialismo israeliano dà legittimità allo slancio della lotta palestinese per la libertà – Richard Falk

La relazione di Francesca Albanese mette a nudo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Immagine di copertina: Un uomo sventola una bandiera palestinese mentre un soldato israeliano osserva durante gli scontri nel villaggio di Deir Sharaf vicino all’ingresso occidentale della città di Nablus nella Cisgiordania occupata il 20 ottobre 2022 (AFP)

Per più di un secolo, il popolo palestinese ha sopportato una serie di prove che hanno violato i suoi diritti individuali e collettivi più elementari.

Fondamentale per questa epica saga di sofferenza è stato il successo del movimento sionista nell’instaurare lo Stato di Israele sulla premessa della supremazia ebraica nel 1948.

Tale successo dipendeva anche dalla perpetrazione di un crimine internazionale, poiché i sionisti cercavano di stabilire non solo uno Stato ebraico ma uno Stato presumibilmente democratico. Questa combinazione di obiettivi poteva essere raggiunta e mantenuta solidamente solo assicurando che Israele avesse una maggioranza demografica ebraica permanente.

Ciò ha richiesto un drastico aggiustamento demografico che comportava un forte aumento della presenza ebraica in Palestina, che all’epoca non era fattibile, o la drastica riduzione della presenza araba.

Questa logica ha indotto l’espulsione forzata di circa 750.000 cittadini arabi della Palestina del Mandato Britannico da quella parte della Palestina storica riservata allo Stato ebraico dal Piano di Spartizione delle Nazioni Unite, a sua volta ampliato territorialmente dall’esito della guerra del 1948.

Una maggioranza ebraica in Israele è stata ulteriormente rafforzata e salvaguardata da una rigida negazione del diritto al ritorno degli arabi espropriati e sfollati dalla Palestina in violazione del diritto internazionale.

Naturalmente, questa non è l’intera storia. C’era una presenza ebraica e un legame biblico con la Palestina che risalgono a migliaia di anni fa, sebbene la minoranza ebraica fosse scesa a meno del 10% nel 1917, quando il Ministro degli Esteri britannico promise sostegno alla creazione di una Patria ebraica attraverso la famigerata Dichiarazione Balfour.

Più rilevante fu l’ascesa dell’antisemitismo europeo negli anni ’30, culminata nell’Olocausto, che fece di un santuario ebraico una condizione di sopravvivenza per una parte significativa degli ebrei nel mondo.

Tale contesto storico ha mobilitato la diaspora ebraica, specialmente negli Stati Uniti, per sostenere il progetto sionista di colonizzare la Palestina e, da allora, per fornire forza geopolitica e massiccia assistenza economica e militare per sostenere la sicurezza e le ambizioni espansionistiche di Israele.

I Relatori Speciali: un’innovazione dell’ONU

A livello internazionale, in particolare all’interno delle Nazioni Unite, c’è stata una costante solidarietà e sostegno per i diritti palestinesi secondo il diritto internazionale, in particolare nell’Assemblea Generale e nella Commissione per i Diritti Umani, che attua le decisioni del Consiglio per i Diritti Umani, composto di 47 governi eletti.

Nel 1993 è stato creato un mandato nazionale riguardante le violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei Territori Palestinesi Occupati di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza.

Da ciò deriva il mandato del Relatore Speciale.

Un Relatore Speciale viene selezionato da un voto favorevole del Consiglio per i Diritti Umani sulla base di un processo di selezione piuttosto elaborato che include un comitato di diplomatici del governo membro che trasmette al presidente del Consiglio una lista di candidati selezionati, presumibilmente scelti per le loro credenziali di esperti.

Il presidente generalmente segue la raccomandazione, che viene poi presentata al Consiglio per un voto positivo o negativo, con un solo voto contrario sufficiente a respingere un candidato.

La stessa posizione di Relatore Speciale è un’innovazione delle Nazioni Unite, con ogni incaricato che serve due mandati triennali.

Sebbene richieda un considerevole impegno in termini di viaggi e rapporti, è una posizione non retribuita che non è soggetta a disciplina amministrativa come funzionario delle Nazioni Unite. Questa caratteristica è progettata per conferire alla posizione una completa indipendenza politica.

Israele e gli Stati Uniti si sono opposti al mandato da quando era stato proposto e negli ultimi anni Israele ha rifiutato di collaborare.

Negando l’ingresso in Israele o nei Territori Occupati, il governo israeliano nega al Relatore il contatto diretto con le persone e la situazione sul campo e obbliga a fare affidamento sull’informazione pubblica e sugli incontri nei Paesi vicini.

Negli ultimi 15 anni, Israele e i suoi sostenitori hanno smesso di rispondere alla sostanza dei rapporti accuratamente documentati su presunte violazioni e hanno concentrato le loro energie sulle accuse di antisemitismo nei confronti delle Nazioni Unite e sulla relativa diffamazione dei successivi Relatori.

Nonostante questo rifiuto personalmente sgradevole, i rapporti dei Relatori Speciali hanno acquisito influenza e legittimità tra diversi governi, gran parte dei media e attori della società civile tra cui chiese, sindacati e organizzazioni per i diritti umani.

In questo contesto, la nuova Relatrice Speciale, una giurista accademica italiana ed esperta di diritti umani molto apprezzata, Francesca Albanese, ha recentemente pubblicato il suo primo rapporto, che dovrebbe essere presentato a breve all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York.

Si tratta di un documento notevole che descrive e documenta in modo completo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Contro il corso della storia

Essa presta opportunamente un’attenzione primaria al diritto inalienabile all’autodeterminazione, che ha gettato le basi per le lotte anticoloniali che hanno condiviso con la Guerra Fredda il fulcro della scena mondiale nei tre decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Albanese nota l’estrema ironia che il sionismo sia riuscito ad andare contro il corso della storia stabilendo lo Stato colonialista di Israele proprio nel momento in cui il colonialismo europeo stava crollando altrove.

Il suo rapporto ha ottenuto un’attenzione immediata sia per il suo spirito di fiera indipendenza che per l’alta qualità della sua analisi. Una tale esemplare prestazione ha anche provocato commenti ostili sotto forma di provocazioni e accuse diffamatorie di una presentazione di prove deliberatamente distorta.

Semmai il contrario. Qualsiasi lettura obiettiva del rapporto albanese concluderebbe che l’autore fa di tutto per avere accesso alla narrativa di Israele e per presentare al lettore la consueta difesa di Israele del suo comportamento.

Pur accettando l’emergente convergenza della società civile sul riconoscere Israele come praticante dell’Apartheid, la Relatrice espone un argomento del tutto originale sul perché l’eliminazione dell’Apartheid non sarebbe di per sé sufficiente a porre fine al calvario del popolo palestinese.

Riassumendo brevemente, la maggior parte dell’esposizione dell’Apartheid è territorialmente limitata ai Territori Occupati o a un’entità allargata che include Israele vero e proprio (spesso noto come “dal Fiume al Mare”), escludendo così i profughi nei Territori Occupati e nei Paesi vicini, e gli esiliati involontari in tutto il mondo che vivono fuori dai confini della Palestina contro la loro volontà.

Smantellamento dell’occupazione colonialista

Oltre a ciò, senza soddisfare i diritti fondamentali dei palestinesi non vi è alcuna garanzia che Israele non sarebbe in grado di mantenere il dominio anche dopo lo smantellamento dell’Apartheid…

continua qui

 

Ci stiamo tutti travestendo da democratici – Gideon Levy

“Ridi, ridi di tutti i miei sogni”, scrisse il poeta Shaul Tchernichovsky.

Le elezioni israeliane di martedì non sono elezioni generali, e quindi non democratiche. L’Apartheid sudafricano aveva esattamente lo stesso inganno: il regime è stato definito come una democrazia parlamentare e successivamente come una democrazia presidenziale. Le elezioni si sono svolte nel rispetto della legge, con i partiti nazionale e afrikaner che hanno formato una coalizione. Solo una cosa separava il Sudafrica dalla democrazia: le elezioni erano riservate ai bianchi.

“Ridi, ridi di tutti i miei sogni.” Anche in Israele, solo i bianchi, o l’equivalente israeliano, prenderanno parte alle elezioni. Israele attualmente governa oltre 15 milioni di persone, ma a 5 milioni di loro è impedito di partecipare al processo democratico che sceglie il governo che gestisce le loro vite. La farsa in cui Israele gioca alla democrazia dovrebbe finalmente essere smascherata. Non è una democrazia.

Un regime in cui le elezioni si tengono solo per i bianchi, cioè gli ebrei, o per coloro che hanno la cittadinanza che non è concessa a tutti i sudditi, compresi i nativi che vivono sotto il governo permanente che domina sulla loro terra, non è una democrazia.

Quando un’occupazione cessa di essere temporanea, definisce il regime dell’intero Paese. Non esiste una democrazia parziale. Anche se c’è democrazia da Dan a Eilat, il fatto che tra Jenin e Rafah ci sia una tirannia militare macchia il governo dell’intero Paese. È incredibile come per decenni gli israeliani abbiano consapevolmente mentito a se stessi, proprio come i bianchi nei partiti degli afrikaner…

da qui


continua qui







Nessun commento:

Posta un commento