Quando sono arrivata a insegnare al serale, non sapevo esattamente cosa stessi facendo.
Ero di ruolo da quattro anni, passati
interamente a fare da pendolare tra varie città pugliesi: ero semplicemente stanchissima,
senza soldi (ci si trasferisce o si paga il viaggio sempre dallo stesso,
misero, stipendio) e avevo una sola priorità, tornare a casa.
Così, quando ho compilato la domanda di
trasferimento ho inserito la disponibilità a insegnare al serale e con mia
grande sorpresa l’ho ottenuto: nella mia città e nella scuola che avevo
selezionato. Perché sia stato così facile rientrare sul serale l’ho capito solo
andandoci a lavorare: è un posto che quasi nessuno vuole, perché si esce la
sera tardi da lavoro (non prima delle 20, spesso alle 21, in alcune scuole
d’Italia anche alle 22.30) e perché se si hanno figli è difficile conciliare
questi orari con quelli familiari.
Ma io non avevo figli, ero allenata a
lavorare anche sedici ore al giorno, e soprattutto potevo finalmente
raggiungere il mio posto di lavoro in dieci minuti, evitando levatacce prima
dell’alba e trovando parcheggio con facilità perché di pomeriggio scema il caos
urbano legato all’arrivo degli studenti a scuola.
E poi ho scoperto che il serale mi piace.
Non solo perché non c’è il ricevimento dei genitori, ma perché per me è proprio
nel serale che si racchiude l’estrema cognizione dell’opportunità democratica
che la scuola rappresenta, anche se non è tutto rose e fiori.
Insegno a una fascia di studenti che va
dai 17 ai 70 anni, alcuni, i più giovani, in fuga da scuole che non hanno
saputo capirli e valorizzarli, altri alla ricerca di un riscatto, di
un’opportunità che si sono negati per errori di giovinezza o perché la vita li
ha costretti a rinunciare a una formazione scolastica superiore. Molti di loro
sono stranieri i cui titoli di studio non sono riconosciuti in Italia e che
ricominciano faticosamente da capo, spesso chiusi in una bolla di silenzio e
incomprensione: per loro non esistono (fatte salve sparute eccezioni di qualche
Pon o riutilizzo di ore a disposizione a discrezione dei presidi) mediatori
culturali e corsi di italiano per stranieri – spesso presenti al diurno –
che li aiuterebbero a districarsi in un Paese di cui non conoscono la lingua.
Tutti quanti formano un insieme eterogeneo
di persone con esigenze diverse, ritmi diversi, e molti di loro avrebbero
bisogno di un sostegno che purtroppo al serale non è previsto. I docenti di
sostegno, richiestissimi e già troppo pochi per il diurno, da noi non arrivano
affatto. Per questo ci ritroviamo a supplire a diverse necessità, non solo
didattiche ma anche psicologiche e cognitive, con pochissimi mezzi e ancor meno
tempo. Entriamo e usciamo dai panni del docente per entrare in quelli dello
psicologo, dell’amico, dell’insegnante di sostegno, tutto a fronte di uno
stipendio davvero esiguo se paragonato alle responsabilità che ci assumiamo.
Che i docenti italiani abbiano a parità di
ore lavorate gli stipendi più bassi d’Europa
(e non solo) è un fatto noto, basta osservare i recenti dati OCSE, oppure informarsi sul
rapporto tra numero di ore lavorate e gli scatti stipendiali, e a chi volesse
obiettare che non facciamo un numero congruo di ore di lavoro rispetto a qualsivoglia
categoria e che abbiamo troppe vacanze, consiglierei
semplicemente di passare cinque sei ore di seguito per un mese in classi di
20/30 minorenni di cui hai responsabilità giuridica e culpa in vigilando per farsi passare qualsiasi
fantasia su un ipotetico paese di Bengodi dei lavoratori.
Il tanto atteso scatto stipendiale
arriverà presto, ci hanno informato, dopo anni di contrattazioni sindacali
legate al mancato rinnovo del CCNL, a seguito di un accordo firmato dal nuovo
Ministro della cultura e del merito. Si tratta di un aumento che va dai 48 euro
netti al mese fino ai 68 (a seconda dell’anzianità di servizio e del
grado di istruzione in cui si insegna) più gli arretrati maturati dal 2019, e
il suo arrivo è previsto prima di Natale, in modo da farci passare le festività
con un sorriso leggermente meno tirato.
Eppure ancora non basta. Gli stipendi
restano ancora troppo bassi rispetto alla media europea e sarebbe assolutamente
necessario un adeguamento di base verso l’alto per tutti i lavoratori del
settore educativo, ma è necessario anche uno scatto ulteriore, un incentivo che
premi davvero la professionalità dei docenti – soprattutto di quei docenti che
ogni giorno portano avanti le scuole con il loro impegno, con il lavoro a casa,
e sulla cui buona volontà si basa l’eccellenza del nostro sistema educativo – e
che per me ha a che fare proprio con quel concetto di merito che negli ultimi
giorni sta affollando le discussioni sui giornali e sui social, e riempiendo le
piazze di tutta Italia.
In un articolo pubblicato qualche giorno
fa su Il Post e relativo alla
questione sollevata dal recente inserimento della parola merito legata al Ministero dell’Istruzione,
Vanessa Roghi, sottolineando la differenza tra merito e meritocrazia, scrive
della stretta connessione tra l’articolo 3 e l’articolo 34 della nostra Costituzione:
«L’articolo 34 non significa niente in Italia, qui, ora, in questo tempo e in
questo spazio geografico, se non è letto attraverso la lente dell’articolo 3.
Tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”
e lo stato favorisce i “meritevoli e capaci” sono idee proprie a ogni
costituzione liberale.
La nostra però, e questo si tende a
dimenticarlo troppo spesso, non è una costituzione liberale. La nostra è una
costituzione progressiva che specifica, nel secondo comma dell’articolo 3
scritto dai socialisti Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, che non basta
stabilire all’articolo 34 che i meritevoli vanno incoraggiati. Occorre mettere
subito in chiaro che questo diritto va attuato e per farlo occorre rimuovere
tutti gli ostacoli, ieri come oggi».
Al sistema scolastico nazionale e a noi
docenti è affidato il compito di mettere in atto l’articolo 3 della nostra
Costituzione perché si possa pienamente realizzare quella valorizzazione del
merito prevista dall’articolo 34, ovvero quello di creare una scuola che
rimuova gli ostacoli, che promuova la varietà dei talenti e delle capacità
uscendo dal seminato di una istruzione ideata per servire l’industria e capace
di scovare il merito, e vedere attitudini, solo
in determinate discipline, svilendo la creatività e le diversità, ma per farlo
dobbiamo essere messi nelle giuste condizioni.
Ritengo che la scuola, così com’è oggi,
nonostante gli adeguamenti, le risorse, i Pon e i progetti speciali, non
risponda alle esigenze di una società profondamente mutata: la scuola italiana
– e questo vulnus è emerso prepotente durante la pandemia – ha bisogno di
risorse per essere radicalmente mutata: stipendi più alti per tutti certo, ma
anche premialità e valorizzazione dei docenti a seguito di valutazioni il più
possibile oggettive (anche se è molto difficile stabilire i criteri per farlo),
in modo da evitare la trappola della dedizione e della vocazione
all’insegnamento, parole troppo spesso strumentali a dequalificare il nostro
lavoro ponendolo al pari di una missione umanitaria, una specie di volontariato
che nulla ha a che fare con la professionalità e che spesso serve solo a
giustificare i bassi stipendi e gli scarsissimi investimenti nella scuola
pubblica.
La nostra scuola proprio perché pubblica dovrebbe essere garanzia
di quella rimozione degli ostacoli che davvero possa favorire il talento a
prescindere dalle condizioni iniziali e molti studi affermano che uno studente proveniente
da una famiglia benestante ha più possibilità di rimanere uno studente meritevole rispetto a uno che proviene da contesti
familiari difficili.
Per creare eccellenza la scuola pubblica
deve offrire eccellenza a tutti, e per farlo deve dotarsi di edifici più grandi
e rinnovati, ridurre il numero di studenti per classe, rimodulare il calendario
scolastico magari sul modello europeo (il nostro calendario scolastico segue
ancora il ciclo del grano di inizio ‘900, estate lunga per aiutare i genitori nei
campi), orari flessibili fino al pomeriggio per venire incontro alle mutate
esigenze delle famiglie, solo per fare alcuni esempi.
Per farlo però ci vuole una rivoluzione
circadiana che ripensi la scuola dalle fondamenta e in ogni suo aspetto, dal
sistema di valutazione ai programmi passando per gli adeguamenti strutturali,
ci vogliono investimenti massicci, assunzioni che coprano sia la didattica
mattutina che le attività pomeridiane in modo da evitare un sovraccarico di
lavoro sempre sugli stessi docenti pronti a impegnarsi in attività collaterali
e funzioni strumentali (in media retribuite pochissimo, Pon a parte).
Oggi invece finiamo sempre più spesso per
somigliare agli edifici in cui andiamo a lavorare (fatte salve alcune
eccezioni): prefabbricati angusti, freddi d’inverno e roventi d’estate, in cui
spesso vi sono aule dove mancano computer, lim e laboratori, fondamentali per
una didattica inclusiva e aggiornata, e ci sentiamo un po’ fatiscenti anche
noi, condannati alla decadenza del nostro ruolo e della nostra autorevolezza
agli occhi di studenti e opinione pubblica, che tendono a non riconoscere
l’immenso lavoro che svolgiamo ogni giorno a scuola.
Chiedere l’eccellenza senza investire in
politiche strutturate e di lungo respiro che mettano la scuola al primo posto
somiglia un po’ al chiedere di fare più figli senza attuare vere politiche per
la maternità: la responsabilità del risultato ricade sul sacrificio dei singoli
e non su uno Stato sociale davvero dalla parte dei cittadini.
Quando si sentono un po’ demotivati, dico
spesso ai miei studenti del corso per l’educazione degli adulti che stanno
prendendo un diploma equipollente, che loro non sono studenti di serie b solo
perché si stanno diplomando in ritardo, e che non hanno professori di serie b,
ma docenti qualificati al pari del diurno, che svolgono lo stesso programma e
mettono in campo le stesse conoscenze e competenze.
Ogni tanto qualche collega mi chiede
perché non passi di nuovo al diurno, dato che lavorare con i ragazzi è – a
detta di molti – più stimolante, ed è vero, l’ho fatto per molti anni e forse
tornerò a farlo, ma oggi io vedo nei miei studenti del serale il fine ultimo di
un’idea di scuola democratica, quella che non lascia indietro nessuno,
specialmente gli studenti con più difficoltà, che è in grado di offrire seconde
opportunità, perché la valorizzazione degli individui e delle loro capacità non
è un percorso lineare e progressivo, ma come la ricerca della felicità è spesso
un terreno incidentato e tortuoso che riguarda da vicino l’idea di un
apprendimento che davvero possa essere strumento nelle mani di tutti.
Per me non c’è stimolo più forte.
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