giovedì 10 novembre 2022

L'Alba dello stato di diritto marziale - Andrea Zhok

Spesso i meno accorti, tra cui spiccano i giornalisti mainstream, ritengono che la relativa sovrapponibilità tra chi ha criticato la gestione pandemica e chi critica la gestione bellica siano semplicemente indice di gente alla ricerca di un motivo purchessia per protestare. L’idea è che niente vi sia di comune, salvo la propensione a cercare occasioni per agitarsi da parte di alcuni. È ovviamente un miope fraintendimento; cerchiamo di capire perché.


La fase storica in cui siamo entrati con la pandemia rappresenta una svolta storica di cui bisogna comprendere il senso a prescindere dai molti, pur importanti, dettagli intorno alla gestione pandemica. La struttura di fondo di quella vicenda mostra come attraverso l’appello alla salute pubblica e il richiamo al contenimento del danno (il “contagio”) è possibile persuadere la quasi totalità della popolazione a qualunque restrizione e qualunque comportamento. Non mi interessa qui disquisire se questo fosse o non fosse pianificato, se fossero le prove generali di ben altro o invece un fortuito accidente: il punto è che anche laddove fosse tutto casuale e niente pianificato (cosa che comunque mi pare improbabile) siamo di fronte ad un precedente di cui i detentori del potere non possono non fare tesoro, e dunque ad una svolta.

I comportamenti di società moderne complesse che fino al giorno prima sostenevano pancia a terra un libertarismo individualistico pacchiano (strumentale ai meccanismi di mercato) sono stati capovolti in un istante nell’esatto opposto con il plauso di quasi tutti e senza che si alzassero sopracciglia di proverbiali “liberali”.


Certo, il ruolo dei media e del loro controllo è stato cruciale – e la recente conferma che dal 2020 il dipartimento USA della Homeland Security si incontrava mensilmente con rappresentanti di Twitter, Facebook, Wikipedia e altre piattaforme Internet per coordinare gli sforzi nella “moderazione dei contenuti” è tutto fuorché una sorpresa. Tuttavia ottenere la fedeltà al potere della maggior parte dei media – soprattutto quando si tratta di un potere effettivo e sbrigativo come quello americano – è la cosa più facile del mondo, se c’è una scusa spendibile. Se si coniuga l’interesse personale (anche solo quello di non andare contropelo al potere) con una passabile scusa “morale”, puoi portarti via per un piatto di lenticchie tutti i media del mondo.

Qui al centro della vicenda è la “buona scusa morale”. La forma che deve avere questa buona scusa è quella di una “minaccia esterna terribile” che richiede a tutti di “collaborare” senza discutere e di stigmatizzare chi non collabora.


Gli stati moderni sono governati de facto da oligarchie finanziarie e dopo la breve stagione democratica del secondo dopoguerra ora stanno implementando forme di controllo di radicalità un tempo impensabili.


Sul piano tecnologico e repressivo gli stati contemporanei sono oggi in grado di esercitare livelli di controllo storicamente inediti.


L’unico limite all’esercizio di questo controllo, potenzialmente illimitato, è rappresentato dal guscio residuo dello “stato di diritto democratico”, che richiede qualche scusa pubblicamente spendibile per poter essere esercitato.

 

La forma di questa scusa è il “richiamo alle armi” di fronte al “pericolo comune”.


Sia la “guerra” che la “pandemia” sono istanziazioni classiche di tale “pericolo comune” illimitato, che richiede decisioni centrali inflessibili e indiscutibili “per il bene comune”, che ha legittimità a silenziare ogni richiesta e protesta, che ha il diritto di spezzare ogni volontà insufficientemente “responsabile”. Durante la pandemia abbiamo di fatto vissuto un assaggio di “legge marziale” ufficiosa. E credere che l’attuale guerra - in fase di progressiva escalation - sia vissuta come un problema da parte delle oligarchie economiche al potere è un patetico errore. Chiedersi di fronte alle marionette che ci governano “com’è possibile che non si rendano conto che ci portano sempre più in basso” presuppone ingenuamente che non ci vogliano in basso.


L’oggetto primo della pulsione capitalista è sì il denaro, ma in quanto potere, non in quanto “mezzo per il consumo”. Sono i morti di fame a pensare al denaro soprattutto come un mezzo per soddisfare desideri, per ottenere beni. Per i vertici del sistema il denaro è sempre disponibile in vasta eccedenza rispetto a qualunque consumo concepibile, mentre il suo ruolo effettivo consiste nell’assicurare gradi di influenza e potere.


Tirando le somme, il quadro prevalente (almeno) in Occidente è il seguente: oligarchie finanziarie – abitate al loro stesso interno da gruppi leader – tirano le fila della politica in vista di una forma di controllo e indirizzo centrale inedito nella storia precedente. Essi hanno l’interesse dominante a fomentare una condizione di “pericolo comune permanente”, che tolga di mezzo ogni opposizione, innanzitutto mentale.


Qui la lezione di Orwell resta più lucida e attuale che mai: una condizione di guerra permanente è un desideratum fondamentale per le èlite mondiali. Si tratta di una condizione da cui possono trarre solo vantaggi in termini di potere e controllo, e come ricorda Orwell, il potere non ha bisogno di ulteriori motivazioni. Che ci sia o non ci sia un qualche ulteriore “piano complessivo” (“depopolamento”, “transumanesimo”, ecc.), questo è contendibile e inessenziale: probabilmente per alcuni c’è, per altri no. Su ciò ci possono essere divergenze. Ma sull’interesse nel mantenere un controllo assoluto, che metta al riparo questa nuova casta da ogni pericolo “eversivo”, da ogni minaccia alle proprie posizioni consolidate, su ciò la convergenza è assicurata.


Ciò che il presente e il futuro ci riservano è una spinta continua, un rinfocolamento costante di una condizione di “guerra permanente”: guerra per procura o guerra sotto casa, guerra metaforica a qualche virus o guerra preventiva a qualche cataclisma incipiente.


Questa è la forma del meccanismo storico in cui siamo entrati.


E non illudiamoci: saperlo di per sé non ci rende meno succubi, deboli, impreparati o impotenti.

da qui

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