Patrizia Cecconi scrive de La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, di Ilan Pappé
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Era la primavera del 2012 quando andai a Beit Jala, nei pressi di Betlemme,
per scoprire da vicino cosa stava succedendo nella colline e nella valle del
Cremisan che Israele, nella sua incontenibile ingordigia, cercava di annettersi
grazie al mostro di cemento che violenta il paesaggio, le vite e i diritti dei
palestinesi. Dopo aver parlato col sindaco e alcuni membri delle 58 famiglie
che avrebbero perso le loro terre, andai a intervistare don Franco, il prete salesiano
che dirigeva il complesso viti-vinicolo del Cremisan e che tentava di
proteggere dalle mire israeliane questa collina coltivata a viti e olivi che
sfortunatamente si trova sotto uno dei più grandi insediamenti israeliani,
ovviamente arbitrari.
L’incontro non ebbe un esordio cordiale, don Franco era un uomo colto,
intelligente, ma piuttosto ruvido.
Alle mie domande rispondeva che lui faceva il prete e non discuteva di
politica. Fingendo di non accorgermi del suo tentativo di liquidarmi cercai un
varco per fargli accettare se non un’intervista, almeno un breve colloquio.
Gli parlai della campagna che stavo portando avanti in Italia sui vini
Cremisan, con la quale provavo a far comprendere l’arbitrio del muro israeliano
e della confisca della collina alla quale i salesiani e lui personalmente
avevano dedicato tanti anni di lavoro. L’aggancio fu quello giusto, don Franco
si aprì e, sempre affermando di non parlare di politica, mi disse che i
quasi cinquant’anni che aveva passato in Palestina, i numerosi libri letti -
anche in arabo - non solo di poesia e narrativa ma anche di storia, non
gli avevano mai permesso di capire davvero la questione israelo-palestinese
finché non gli capitò di leggere La pulizia etnica della Palestina.
Insistette sul fatto che non avrebbe mai capito la realtà autentica della
situazione israelo-palestinese se non avesse letto quel libro. Mi dissi
completamente d’accordo perché era stato una pietra miliare anche per me e
aveva segnato il passaggio dall’attivismo filopalestinese nato dal rifiuto
dell’ingiustizia, alla piena consapevolezza che la realtà attuale è
basata su un originario progetto sionista che lo storico Pappé è riuscito a
mostrare basandosi sui documenti israeliani finalmente desecretati.
Il non più laconico e scostante don Franco, una volta scoperto questo punto in
comune divenne gentile e parlammo a lungo.
Nella sua convinzione sacerdotale che la consapevolezza può far mutare
comportamenti e idee, mi disse che chiunque avesse letto quel libro avrebbe capito
l’origine reale di un’ingiustizia da sempre impunita, quindi era un libro da
far leggere a tutti. Una pietra miliare posta sul cammino della conoscenza
proprio da un accademico israeliano il quale, nel rispetto della realtà storica
e con grande onestà intellettuale, aveva reso pubblica una verità così scomoda
che lo avrebbe reso oggetto di diffamazioni e ostilità inducendolo ad
abbandonare Israele e a proseguire il suo lavoro di ricerca e la sua carriera
accademica in un’università britannica.
Tra i vari libri scritti nel corso degli anni, Pappé nel 2017 ha pubblicato in
inglese The biggest prison on earth, che può essere considerato il
seguito de La pulizia etnica della Palestina e che ora è
disponibile in italiano per la traduzione di Michele Zurlo, edito, come il
precedente, da Fazi Editore di Firenze col titolo “La prigione più grande
del mondo. Storia dei territori occupati”, collana Le terre, pag.
400, 20 euro.
L’autore dedica questo lavoro “ai bambini palestinesi, uccisi, feriti e
traumatizzati dal vivere nella più grande prigione del mondo” dichiarando
così, in modo onesto e limpido, di riconoscere da quale parte stare, e da quale
parte lui sta, tra l’oppresso e l’oppressore. Anche La prigione più
grande del mondo si basa su verbali d’archivio e altri documenti
autentici che sconfessano totalmente la narrazione israeliana la quale, grazie
al diabolico e intelligente lavoro dell’AIPAC[1], è ben supportata sia dai media che dalla
superpotenza USA e dai suoi Stati vassalli. Il volume, come esplicitato nel
sottotitolo, prende in considerazione quella parte della Palestina storica che
sfuggita all’annessione del 1948-49 verrà occupata militarmente da Israele e
gradualmente annessa, de facto, a partire dal 1967.
Che l’obiettivo vero dell’occupazione fosse l’annessione verrà mostrato,
documenti originali alla mano, pagina dopo pagina a partire dalla prefazione e
dall’introduzione, entrambe dell’autore, che vanno assolutamente lette prima di
entrare nel corpo del libro, perché offrono il quadro d’insieme del progetto
sionista nelle diverse fasi del suo più che secolare svolgimento. I titoli che
l’autore dà ai capitoli e ai paragrafi in cui si sviluppa il volume
rappresentano una guida sia cronologica che concettuale del lavoro di
ricostruzione storica da lui accuratamente compiuto. A cominciare dai luoghi
fisici, come Givat Ram, la collina su cui è stata costruita l’Università
ebraica, e dai personaggi che nel 1963, proprio in quelle aule, studiarono il
progetto sionista che si sarebbe poi sviluppato, a partire dal giugno 1967 col
nome in codice di “piano Shacham”, dal nome del governatore militare, amico e
correo di Ariel Sharon in azioni di rappresaglia particolarmente spietate
contro i feddayin già dal 1953.
Gli archivi consultati da Pappé hanno infatti rivelato che già quattro anni
prima della guerra dei sei giorni la struttura politica e militare organizzata
per il controllo di Cisgiordania e Striscia di Gaza aveva pronti perfino
i nominativi cui assegnare i vari ruoli nell’occupazione di quei territori. La
preparazione che “l’unità speciale” aveva avuto a Givat Ram permise infatti a
Israele di istituire immediatamente, nello spazio di pochissimi giorni
dall’inizio della guerra, un governo militare e un sistema giudiziario
atti a controllare da subito, e secondo un sistema tipicamente carcerario, il
popolo sotto occupazione. A Givat Ram, ci dice Pappé, si era stabilito come
realizzare e come gestire quella che sarebbe stata la prigione più grande del
mondo, basata su diversi gradi di punizione verso i detenuti a seconda della
loro “buona condotta” verso il carceriere, passando dal carcere meno duro alla
forma estrema del carcere di massima sicurezza rappresentato dalla Striscia di
Gaza con la cui esposizione si conclude il volume.
Inutile cercare qualche forma di dissenso a quel progetto mostruoso tra gli
ebrei socialisti o di altre realtà politiche sedicenti democratiche: dai
documenti d’archivio risulta che in quei giorni del 1967, da Begin al Mapam,
dai partiti laici e liberali a quelli utrareligiosi nessuno si oppose, e quel
che venne stabilito allora ha rappresentato il solco da cui Israele non ha mai
deviato. Le carte geografiche in appendice al volume e la ricca bibliografia
rendono ancor più trasparente la verità su una delle più gravi ingiustizie del
XX e XXI secolo che cammina sulla menzogna mediatica scavalcando impunemente
gli ostacoli previsti dalla legalità internazionale per quei crimini che
Israele commette quotidianamente.
Come affermato da Ilan Pappé “il modo in cui si inquadra una situazione
può influenzare le possibilità di cambiarla” e questo rende chiaro perché
fino ad oggi non c’è stata alcuna possibilità di influenzare un cambiamento,
reale, di posizioni circa gli abusi israeliani, nonostante l’intenzione
di farlo sia apparsa, di quando in quando, anche da parte di (pochi) onesti
israeliani tra i quali l’autore cita Meron Benvenisti, ex sindaco di Gerusalemme,
o di rari politici statunitensi, tra i quali cita il senatore Fullbright che,
preso di mira dall’AIPAC per le sue critiche e per aver chiesto il ritiro
immediato di Israele dopo la guerra dei sei giorni, vide la fine della sua
carriera. L’uso di un linguaggio ad hoc fu una delle mosse più lucide dei
leader sionisti per evitare che la politica israeliana venisse sottoposta a
sanzioni internazionali. Lo iato tra ciò che Israele faceva e ciò che diceva fu
sancito “come linea politica”. Trovare gli opportuni stratagemmi lessicali fu
compito affidato alla sinistra israeliana. Pappé cita dichiarazioni
sconcertanti per il loro cinismo tratte dai verbali desecretati dove spiccano i
nomi di Ygal Allon, Moshe Dayan, Abba Eban, ma anche di Moshe Kol e Zalman Aran
il quale condensò in una sintetica frase la posizione da seguire : “siamo
chiamati a dire qualcosa, non a voler necessariamente intendere qualcosa”[2]. Praticamente l’essenza della menzogna,
quella che ha consentito e tuttora consente a Israele di ottenere complicità e
protezioni internazionali. Aran era un esponente del Mapai[3] e non della destra come si potrebbe
supporre guardando alla storia più recente di Israele.
Basandosi sulle fonti originarie si chiarisce quanto sia importante
inquadrare la situazione israelo-palestinese secondo verità, ma per farlo serve
coraggio, onestà intellettuale e, non ultimo, un certo grado di empatia verso
il popolo vittima di una montagna di ingiustizia e di soprusi. E quest’empatia
Pappé l’ha dichiarata, è nelle sue opinioni, ma non inficia minimamente la
correttezza della ricerca storica su cui si basano i suoi lavori. La
ricostruzione storica di tutto l’apparato politico, burocratico e militare
mette in mostra la decisione di escludere Cisgiordania e Gaza da qualsiasi
eventuale futuro negoziato di pace, decisione che smaschera il cosiddetto
“processo di pace” che ha consentito a Israele di rosicchiare senza
interruzione i Territori palestinesi occupati, sostituendo di fatto
l’insediamento coloniale permanente all’occupazione che, solo verbalmente,
veniva definita temporanea. Un progetto che in modo scientemente
programmato, con un apparato burocratico enorme affiancato a quello militare,
ha origine nel XX secolo, ma che i documenti esaminati mostrano essere già
presente, almeno come obiettivo da raggiungere, nel lontano 1882.
Dagli archivi declassificati emerge la verità sulla guerra dei sei giorni,
l’evento che ha permesso la realizzazione del progetto che avrebbe fatto di Cisgiordania
e Gaza una prigione senza via d’uscita. Il criminale capolavoro di rendere i
palestinesi dei detenuti in casa propria, una casa che si è fatta sempre più
stretta grazie ai “cunei” ideati da Ygal Allon e all’espandersi degli
insediamenti coloniali fino a diventare quasi delle città, non fu
immediatamente compreso o non volle essere compreso dalle democrazie
occidentali che osannavano (e osannano) Israele, così come non fu compresa la
reale dinamica della guerra dei sei giorni grazie – anche – al lucido piano di
contraffazione lessicale. In quasi 400 pagine, di cui nessuna superflua, Ilan
Pappé spiega il meccanismo carcerario cui è sottoposto il popolo palestinese
compreso lo stesso presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Il sistema
premi-punizioni, ove i premi sono soltanto un minor accanimento vessatorio e le
punizioni sono veri e propri crimini di guerra e contro l’umanità è ciò che i
palestinesi sono costretti a vivere e a cui una buona percentuale di loro si
ribella pagando con l’arresto e, quasi quotidianamente, con la vita, la non
accettazione delle leggi imposte dal loro carceriere.
La Prigione più grande del mondo è stato scritto 5 anni fa e si può
considerare la continuazione de La pulizia etnica scritto nel
2006. E’ auspicabile un terzo volume, appena i documenti del XXI secolo
verranno desecretati, perché Israele, pur proseguendo la sua pulizia etnica
lenta e continua tenendo i palestinesi imprigionati e vessati, non ha ancora
vinto e, seppure a livello di vertici la Palestina è frammentata e facilmente ricattabile,
a livello di popolo la resistenza non si è mai fermata, né davanti all’infamia
degli omicidi mirati, né agli arresti in massa o alle demolizioni e alle
confische, né sotto i bombardamenti e neppure sotto l’orrore del fosforo bianco
che a Israele è misteriosamente consentito usare. In conclusione, La
prigione più grande del mondo, al pari de La pulizia etnica della
Palestina, come diceva don Franco, rappresenta una sicura pietra miliare
per capire la verità e togliere ogni velo ipocrita a chi si ostina a difendere
l’indifendibile Stato ebraico.
[1] AIPAC è l’acronimo di American
Israel Public Affairs Committee, fondato inizialmente nel 1953 a Washington con
il nome di American Zionist Council, ma visto che sotto la presidenza
Eisenhower non riuscì ad avere l’influenza che avrebbe avuto in seguito sugli
affari americani con riferimento diretto e indiretto a Israele, venne
affiancato da una lobby indipendente, appunto l’AIPAC, divenuta il più potente
organismo di orientamento e di influenza filo-israeliana comprendente
democratici, repubblicani e indipendenti capace di esercitare pressione tanto
sui membri del Congresso che sui vertici del potere statunitense.
[2] Cfr pag. 133.
[3] MAPAI, Partito di sinistra fondato
nel 1930. Nel 1968 entrò nel Partito Laburista.
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