Il diritto a migrare è sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti
umani. Tuttavia, questo diritto è limitato da un’asimmetria che riguarda il
riconoscimento del diritto alla libertà di movimento e le leggi che gli Stati
impongono sull’immigrazione. L’emergenzializzazione delle migrazioni infatti,
non solo è un fenomeno che, soprattutto a livello politico e mediatico,
contribuisce a una visione distorta delle stesse ma non arriva ai punti
cruciali della questione che vanno dalle ragioni dietro alle quali le persone
decidono di andarsene dal proprio Paese al numero esiguo di vie legali che
queste persone possono scegliere di prendere.
Risulta ormai evidente che l’approccio che gli Stati Membri dell’Unione
Europea (UE) adottano nei confronti di coloro che attraversano le frontiere sia
basato sul securitarismo: la
creazione di muri sui confini; la riduzione dei canali di ingresso sicuri per lo spostamento di persone
provenienti da Paesi terzi; l’adozione di metodi coercitivi – come la detenzione
amministrativa o l’utilizzo della sorveglianza biometrica − il rimpatrio forzato, il respingimento
sistematico di persone alla frontiera, in violazione degli obblighi
internazionali in materia di diritti umani − che, a differenza della
Dichiarazione sopra menzionata, sono vincolanti. L’ultimo Action Plan sul
Mediterraneo 1 presentato dalla
Commissione Europea, per esempio, non propone un nuovo approccio alle
migrazioni. Si tratta di un piano di 20 misure destinate a colpire “l’immigrazione
irregolare” e, nonostante all’interno siano previste anche misure volte
all’implementazione della “solidarietà volontaria tra Stati” nella gestione
delle migrazioni e dei soccorsi in mare, non mancano riferimenti al
rafforzamento della cooperazione con Paesi quali la Libia, la
Tunisia e l’Egitto per il controllo delle frontiere – con uno
stanziamento di 580milioni di euro.
Non c’è quindi alcuna intenzione di allontanarsi da quell’esternalizzazione
delle frontiere che da più parti nell’ambito dei diritti umani, dal mondo
accademico a quello giuridico, è stata ampiamente sviscerata per dimostrarne
l’incompatibilità con il rispetto dei diritti delle persone migranti che
vengono sistematicamente respinte o catturate dalle milizie o dalle guardie
costiere dei Paesi terzi in questione. Sul caso della Libia, ad esempio, le violenze
e gli abusi sistematici 2 che avvengono
nei centri di detenzione in cui vengono rinchiuse persone adulte e minori –
catturate in mare per impedirne la partenza oppure all’arrivo, come
ultima tappa del loro percorso migratorio – sono ormai note da
tempo e denunciate dalle maggiori organizzazioni internazionali di tutto il
mondo. Tuttavia, il Memorandum d’Intesa stipulato dall’Italia nel 2017, e che è
stato recentemente rinnovato, continua a essere annoverato tra i modelli di
gestione delle migrazioni, con politiche sempre più discriminatorie ed
escludenti.
Quando nasce l’ennesimo dibattito mediatico e politico sull’immigrazione,
tutto viene ridotto a una polarizzazione priva di complessità e approfondimento
sulla mobilità umana, gli effetti che le leggi vigenti nel Paese di arrivo
hanno sulle persone migranti e una riflessione sulla quantità di vie che sono
effettivamente percorribili per chi decide di affrontare il viaggio verso
l’Europa. A questo proposito occorre porsi la domanda sulla motivazione per cui
una persona proveniente dalla Nigeria o dal Ghana che non necessariamente fugge
da una particolare situazione di instabilità o guerra, sia comunque costretta
ad affrontare un lungo viaggio in cui le probabilità di rischiare la vita sono
alte.
Quali e quante sono le vie legali per
entrare in UE?
Uno dei problemi principali è che la richiesta di asilo è diventata, di
fatto, l’unica via legale realmente percorribile per potersi spostare,
considerando lo scarso numero i visti di ingresso rilasciati. Infatti l’Italia,
oltre a chiudere i porti, chiude anche gli aeroporti: secondo una ricerca effettuata dal Tortuga Think Tank nel 2019, per i Paesi dell’Africa
occidentale come Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana il numero di visti
rilasciati è molto basso. Il tasso di rifiuto del visto in Italia è passato dal
10% nel 2010 al 22,5% nel 2017. A ciò si aggiunge la disuguaglianza abissale
che separa i passaporti di serie A di Paesi occidentali e ricchi (come
Stati Uniti e Paesi UE) e i passaporti di serie B del Sud del mondo, come viene
ampiamente dimostrato dal Global Passport Power
Rank.
Chi ha un passaporto tedesco, ad esempio, ha accesso al diritto alla
libertà di movimento – senza necessità di chiedere un visto – verso molti più
Paesi rispetto a chi ha un passaporto tunisino o pakistano. Un esempio recente
su questa disuguaglianza di viaggio è stato il rifiuto quasi sistematico di rilasciare un visto di ingresso
ai familiari di Alika Ogorchukwu, ottenuto dopo due mesi dal suo assassinio a
Civitanova Marche. I funerali sono stati più volte posticipati per via del muro
burocratico che non permetteva ai familiari di raggiungere l’Italia.
Senza visti da ottenere e una richiesta di asilo che con ogni probabilità
verrà rigettata – specie se nel proprio Paese di origine non vi è alcuna guerra
o non si è perseguitati – le alternative sono sostanzialmente due: la Carta Blu
UE e il ricongiungimento familiare. Ottenere la Carta Blu UE per accedere allo
spazio Schengen è strettamente legato a un privilegio di tipo economico in
quanto riguarda unicamente lavoratori e lavoratrici altamente qualificati che,
almeno fino a maggio 2021, dovevano presentare un contratto di almeno 12 mesi.
Con “altamente qualificata” si intende una persona che, ad esempio
per il caso italiano, svolge il lavoro di: dirigente, legislatore,
imprenditore, professionista del settore scientifico e ingegneristico. Con una
recente riforma della Commissione Europea, la soglia salariale per i
richiedenti è stata ridotta da un minimo del 100% fino al limite massimo del
160% del salario medio annuo lordo dello Stato membro di arrivo (rispetto al
precedente 150% minimo senza limite massimo), e il contratto da presentare è
ora di 6 mesi.
Nonostante l’approvazione della riforma sulla Carta Blu – con requisiti
leggermente meno stringenti – un membro del gruppo europarlamentare dei
Socialisti e Democratici ha affermato che è necessario un allargamento anche nei confronti di persone che
non necessariamente ricadono nella categoria di “altamente qualificato”.
Tuttavia, finora la Carta Blu si è confermata la via legale meno utilizzata:
nel 2019 solo l’1,6% dei permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi Terzi
rientravano nell’ambito della direttiva della Carta Blu; nel 2020, secondo
i dati Eurostat, solo 12 mila lavoratori extra UE altamente qualificati hanno ricevuto una
Carta blu UE.
Il ricongiungimento familiare è un secondo percorso legale che consente
alle persone immigrate già residenti nell’UE di portare i loro coniugi e figli.
Ogni Stato membro ha le proprie norme in materia ricongiungimento e riguardano
l’età dei coniugi e dei figli, il salario del partner o genitore ospitante, le
condizioni di vita e assicurazione. Anche se il ricongiungimento rimane una via
importante in particolare per i rifugiati che cercano di riunire le loro
famiglie dopo essere state separate a causa di persecuzioni o conflitti nel
loro paese di origine, non è abbastanza inclusiva perché, ovviamente, per
accedere a questa misura ogni singolo migrante deve avere la fortuna di avere
un parente o un partner che risiede in uno Stato membro dell’UE.
Il caso italiano: l’ingresso per lavoro
Le attuali politiche migratorie in Italia che riguardano l’ingresso per
lavoro sono regolate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Anche in questo caso è
possibile parlare di politiche fallimentari che di fatto hanno peggiorato le
condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, costringendole a vivere
in un limbo di irregolarità e sfruttamento.
La Bossi-Fini fu creata proprio per vincolare il permesso di soggiorno a un
contratto di lavoro, eliminando la figura dello “sponsor”, un metodo
che, prima dell’adozione di questa legge, permetteva alla persona di origine
straniera di entrare legalmente in Italia con un visto per cercare lavoro
grazie alle garanzie economiche offerte da un familiare, un conoscente o un
altro garante. Questo strumento però è stato abolito. Come spiega l’avvocato Livio Neri dell’Associazione per gli Studi Giuridici per
l’Immigrazione (ASGI):
Occorre superare i punti critici, uscendo dalla stretta connessione tra
soggiorno e lavoro, riabilitando quell’intuizione intelligente della
sponsorizzazione, sanando l’irregolarità che è stata prodotta in questi anni
non con provvedimenti di emersione spot, che sono totalmente zoppi, ma con
meccanismi che portino le persone integrate nel tessuto sociale alla ‘luce’.
Questa legge ha poi in sé un paradosso: la persona straniera che
desidera ottenere il permesso di soggiorno per lavoro è tenuta a restare
nel proprio Paese di origine fino alla conclusione
della lunga procedura di ingresso, “non
essendo ammissibile la richiesta di
assunzione presentata nei confronti di un soggetto che già si
trovi in Italia”, spiega William Chiaromonte, ricercatore di Diritto del
Lavoro, nel libro “Ius Migrandi”.
Inoltre, continua Chiaromonte, questo si scontra con il fatto
che “la procedura tipica di assunzione
si fonda sul meccanismo della chiamata nominativa, la quale ovviamente
presuppone che il datore di lavoro
abbia già una conoscenza diretta dello
straniero, nonostante che – è bene
ribadirlo – questi debba necessariamente
ancora trovarsi all’estero”.
Nella pratica, infatti, è molto frequente che la persona
straniera faccia ingresso tramite vie informali in Italia
nella speranza di regolarizzarsi nel corso del tempo. Quando però il numero di
lavoratori e lavoratrici straniere che riempiono le sacche del lavoro sommerso
non è più ignorabile, si procede con le regolarizzazioni (o “sanatorie”). L’ultima, promossa dall’ex ministra
dell’agricoltura Teresa Bellanova del governo Conte, continua ad essere
un insuccesso visti i ritardi della burocrazia e l’esclusione di diverse categorie
lavorative per cui lavoratori e lavoratrici straniere continuano a vivere nella
precarietà, senza documenti e contratti validi. «Le regolarizzazioni stesse», scrive l’avvocato Gianfranco Schiavone di ASGI «pur inevitabili, hanno
rafforzato un sistema malato e crudele in ragione della scelta che ha quasi
sempre caratterizzato tali provvedimenti ovvero quella di basarsi sulla sola
volontà del datore di lavoro di fare emergere o meno il rapporto di lavoro
irregolare». Di conseguenza, anche in questo caso, il lavoratore o la
lavoratrice straniera diventano soggetti passivi e senza diritti effettivamente
riconosciuti.
Conclusioni
Possiamo riassumere il tutto dicendo che ci troviamo di fronte a un
razzismo istituzionale che va dalla disuguaglianza sistemica nel diritto alla
libertà di movimento alle leggi che poi ogni stato membro dell’UE – che
assume i connotati di una vera e propria fortezza – adotta in materia di
immigrazione.
Innanzitutto il presupposto errato più importante è la convinzione che i
confini d’Europa possano e debbano essere chiusi ai cosiddetti “migranti
economici”. È questa convinzione che ha reso quasi impossibile per molte
persone provenienti dai Paesi del continente Africano, ad esempio, emigrare
legalmente verso la maggior parte dei paesi europei. Sono necessarie politiche
di apertura, offrendo un ampio allargamento delle politiche sui visti,
annullando politiche migratorie restrittive e illegali (come
l’esternalizzazione delle frontiere e i respingimenti sistematici). ll diritto
a migrare può essere garantito solo con una seria attuazione della tutela dei
diritti umani dei migranti, tenendo anche in considerazione il diritto di
scegliere il proprio percorso. Come spiega Nazzarena Zorzella, avvocata di ASGI, su Altreconomia, sul caso
italiano:
Negli ultimi vent’anni e oltre le persone straniere in Italia non hanno
avuto il diritto di scegliere in quale percorso amministrativo e giuridico
immettersi per il diritto di soggiorno e di residenza in Italia. Aver negato
l’esistenza di visti per ricerca di lavoro con un tempo ragionevole […] ha
costretto tante persone non solo ad affidarsi ai trafficanti ma anche a entrare
nel sistema della protezione internazionale.
Il sistema di protezione internazionale però, come abbiamo visto, viene
applicato alle fattispecie che rientrano nella Convenzione di Ginevra delle
Nazioni Unite sui rifugiati. Chi intraprende un viaggio per questioni
socio-economiche – tenuto conto delle innumerevoli variabili del percorso che
comportano la detenzione in Libia o cadere nel circuito della tratta di esseri
umani – non rientra in quelle fattispecie.
A oggi, non vi è quindi alcun percorso legale alternativo che sia
effettivamente praticabile per le persone che provengono dal Sud del mondo.
Infine, sulle politiche interne dell’Italia, persone come Omar Baldeh, Soumaila
Sako, Mohammed Ben Ali, Becky Moses e molte altre decedute o/e sfruttate nei
ghetti per braccianti, e non solo, non sono “effetti collaterali” ma
conseguenze di un sistema profondamente diseguale e strutturalmente discriminatorio
basato su leggi che, di fatto, criminalizzano, escludono e penalizzano le
persone migranti.
Occorre non solo uno stravolgimento del dibattito sulle migrazioni – che
non può concentrarsi solo sugli sbarchi – ma anche un modo innovativo e radicalmente
diverso di concepire la mobilità umana che non deve essere un privilegio per
pochi.
* Dottoressa in Relazioni Internazionali. Contributor freelance che si
occupa di migrazioni, razzismo e cittadinanza.
1.
Migration routes: Commission proposes Action Plan for Central Mediterranean
to address immediate challenges, European Commission (21 novembre 2022)
2.
Rapporto Amnesty International: “Nessuno verrà a cercarti: i ritorni
forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia” – Executive
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