Campi di concentramento.
Desaparecidos.
Torture.
Assassinii di massa.
Furto di bambini.
Le cinque azioni sono state sistematicamente attuate dall’impero ottomano,
dal nazismo e dall’ultima dittatura civile-militare dell’Argentina. Tutti e
tre, nonostante appartenessero a diversi momenti storici, sono stati
riconosciuti come genocidi. Non si dubita di questi crimini di lesa umanità.
Alla fine del XIX secolo lo stato argentino creò anche campi di
concentramento, fece scomparire persone, torturò, assassinò e rubò bambini. I
popoli indigeni sono stati, come mai prima nella loro storia, vicini allo
sterminio. Nonostante ciò, ancora oggi, un grande settore della società
argentina nega che ci sia stato un genocidio. L’Argentina moderna è costruita
su questa negazione, la madre di tutte le repressioni.
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale furono giudicati i massimi
responsabili del nazismo (processi di Norimberga). In Argentina, nel 1985, fu
fatto il processo agli ex comandanti che fecero parte delle prime tre giunte
militari dell’ultima dittatura.
Da un decennio, resistendo e annullando le cosiddette leggi di impunità, in
diverse città del paese stanno venendo giudicati e condannati i responsabili
militari e civili dei crimini consumati durante la dittatura.
Non c’è mai stata nessuna intenzione politica di fare qualcosa di simile
verso i crimini di lesa umanità commessi contro i popoli indigeni. “Mai cadde
il regime che implementò le campagne militari della fine del secolo XIX e
gli inizi del XX che sconfissero l’autonomia indigena, a forza di massacri, per
consolidare lo stato nazionale. C’è una continuità fino al nostro presente”,
spiega lo storico Walter Delrío, autore di Memorie di espropriazione,
assoggettamento e incorporazione indigena nella Patagonia (1872-1943).
Delrío è condirettore della Rete di Ricercatorx sul Genocidio e la Politica
Indigena Argentina e professore dell’Università Nazionale del Río Negro. Nella
sua produzione accademica offre prove di come, dopo la conquista militare, lo
stato costruì un discorso di negazione della realtà indigena del paese, dove
“il crogiolo di razze” negò quanto era originario. Descrive che l’invisibilizzazione
fu una strategia di dominio, che permise lo sviluppo di diverse pratiche
genocide, come il massiccio trasferimento di persone, la separazione di
famiglie e la soppressione dell’identità di minori, l’utilizzo di prigionieri
come mano d’opera schiava e la riduzione in campi di concentramento.
Diana Lenton, laureata in antropologia, specialista su temi di politica
indigena e condirettrice della Rete di Ricercatorx sul Genocidio, chiama
“peccato originale” la nascita dell’Argentina su un ingranaggio giuridico che
negò i diritti dei popoli indigeni e, inoltre, eseguì la condanna a morte e la
scomparsa della popolazione originaria. La formazione dello stato nazionale,
alla fine del XIX secolo, coincise con un tipo di discorso autoritario che
lottava per egemonizzare il corpo di discorsi sulla popolazione.
Dopo la campagna militare al Sud sopravvenne l’avanzata al Nord, chiamata
anche “Conquista del Deserto Verde”. Le popolazioni indigene erano sottomesse,
obbligate ad essere mano d’opera schiava nelle piantagioni di canna da zucchero
e nei campi di cotone. Furono obbligati anche a prendere servizio
nell’Esercito. I bambini e le donne furono assegnati al lavoro domiciliare.
L’isola Martín García, situata alla confluenza dei fiumi Uruguay e De la
Plata, si trasformò in un grande campo di concentramento. In un solo anno, il
1879, furono rinchiusi (e dopo battezzati) 825 indigeni, secondo quanto risulta
in un lavoro in corso dei ricercatori dell’Università di Buenos Aires (UBA)
Alexis Papazian e Mariano Nagy, che hanno analizzato gli archivi dell’Armata e
dell’Arcivescovato.
I registri danno conto di 363 uomini, 132 donne e 330 bambini.
I ricercatori spiegano che la popolazione era più numerosa, soprattutto
perché molti prigionieri non figurano nei registri clericali di Martín García,
ossia perché erano stati battezzati precedentemente o perché morirono prima di
ricevere la benedizione del parroco.
Papazian ha analizzato gli archivi ufficiali che danno la testimonianza di
quanto successo a Martín García. Non ha dubbi che si trattò di un campo di
concentramento che funzionò prima, durante e dopo la Campagna del Deserto (dal
1872 fino al 1886), dove si praticò una rigida coercizione sui corpi indigeni.
Non ci sono cifre ufficiali della dimensione del campo di concentramento. Papazian e Nagy sono molto cauti riguardo ai numeri soprattutto perché i registri sono disordinati e imprecisi, dato che molte volte non si contabilizzavano bambini e donne. Nonostante ciò, e in base a prove documentali, i ricercatori affermano che per l’isola Martín García passarono almeno 3000 persone, private della libertà, senza alcun diritto ad una difesa, alle quali fu negato ogni diritto.
L’isola non solo accolse abitanti originari; funzionò anche come punto di
distribuzione verso tutti i punti cardinali del paese.
La destinazione dei prigionieri era diversa. Potevano rimanere come
detenuti, essere inviati nelle cave, nelle tenute o a formare le fila del
medesimo esercito che li aveva attaccati. I documenti ufficiali rendono conto
che famiglie benestanti di Buenos Aires chiedevano donne e bambini per lavorare
nei compiti domestici e anche nelle campagne. “Fu chiaramente un meccanismo di
controllo sociale inquadrato in un processo molto più grande: quello del
genocidio”, precisa Papazian, che fa anche parte della Rete di Ricercatorx sul
Genocidio. Spiega che nel 1890 non rimanevano più indigeni a Martín García. La
destinazione non dava molte opzioni: Esercito o Marina, lavoro schiavo per
imprenditori, lavori domestici in case di famiglie o la morte.
Anche la provincia di Mendoza conobbe campi di concentramento e lavoro
schiavo.
Diego Escolar ha indagato quanto successo con il Popolo Huarpe e i
prigionieri delle campagne militari. Ricercatore del Conicet a Mendoza e
professore dell’Università Nazionale del Cuyo, conferma che nella provincia
furono concentrati grandi contingenti di persone che furono distribuite in
tenute, in proprietà degli alti comandi militari e nelle famiglie benestanti
della regione. Quasi sempre finivano per essere lavoratori schiavi, condizione
che subirono fino, almeno, al decennio del 1890.
In base a quotidiani dell’epoca, certificati battesimali, memorie orali e
interviste degli inizi del XX secolo, si stabilisce che, tra il 1879 e il 1886,
furono distribuiti a Mendoza almeno 3000 indigeni. Escolar e il suo gruppo di
ricerca – Leticia Sald e Carla Rigió – stimano che il numero fosse maggiore. I
luoghi di detenzione già comprovati furono almeno sei, situati nei dipartimenti
di Maipú, Malargüe, Santa Rosa, San Rafael, Rivadavia e nella capitale
provinciale.
Anche Junín de los Andes (Neuquén), Chinchinales e Valcheta (Río Negro),
Carmen de Patagones (Buenos Aires) e il quartiere di Retiro (Città di Buenos
Aires) contarono su campi di concentramento, come i sei di Mendoza e quello
dell’isola Martín García. Lì erano confinate intere famiglie, senza differenza
di sesso ed età. Il loro più grande crimine era essere indigeni e abitare un
territorio pregiato.
Il ricercatore del Conicet e direttore del Servizio di Impronte Digitali Genetiche della Facoltà di Farmacia e Biochimica dell’UBA, Daniel Corach, afferma che, in base a bollettini dell’Esercito, l’avanzata militare del XIX secolo fece una quantità di vittime stimate in un numero inquietante: “30 mila scomparsi”.
A 28 anni dal colpo di stato del 1976, il governo nazionale decise che la
Scuola di Meccanica dell’Armata (ESMA), uno dei maggiori centri clandestini di
detenzione, passasse nelle mani degli organismi di diritti umani, che lì
eressero uno spazio per la memoria.
A 130 anni dall’inizio della Campagna del Deserto, i popoli indigeni non
hanno alcuno spazio simile. Al contrario, il principale emblema di quella
avanzata militare, Julio Argentino Roca, conta su strade, scuole e monumenti.
Uno di loro giunge al colmo: al centro di Bariloche, in pieno territorio
mapuche, una statua di Roca si erge come sfida. È impossibile immaginare una
statua di Jorge Rafael Videla a Plaza de Mayo.
Nel 1994 fu sancita la Legge 24.411, che obbliga lo stato a pagare ai
familiari degli assassinati e scomparsi un indennizzo per ogni vittima del
terrorismo di stato. Nessuna riparazione economica è stata mai dibattuta in
ambiti istituzionali per le vittime del genocidio indigeno.
Nemmeno, come in tutto quanto fa riferimento ai popoli originari, esistono
dati ufficiali sugli assassinati e scomparsi durante la Campagna del Deserto,
ma alcune ricerche danno un’idea della sua dimensione: Diana Lenton segnala che
nel 1883, a solo cinque anni dall’inizio dell’avanzata militare, 20.000
prigionieri erano stati trasferiti a Buenos Aires. Dopo saranno assassinati,
fatti scomparire o schiavizzati.
Il professore dell’Università di Buenos Aires Mariano Nagy, in base alla
ricerca “Stato e questione indigena”, di Enrique Mases, precisa che 25.000
indigeni abitavano la Patagonia. Nel primo anno della Campagna del Deserto ci
furono 1300 indigeni morti “in combattimento” e 13.000 prigionieri che finirono
con il rimanere sotto tutela dello stato.
Attualmente, la sistematica violazione dei diritti umani dei popoli
indigeni non scandalizza l’opinione pubblica. È anche negata da un settore di
intellettuali, comunicatori e opinionisti.
Le vittime del genocidio non furono nei settori urbani, né nella classe
media.
La negazione ha radici etniche e di classe sociale. E, senza
dubbio, economiche: i diversi modelli produttivi dell’ultimo secolo e mezzo –
agroesportatore, petrolifero, forestale, minerario – hanno avuto e hanno come
scenario gran parte dei territori ancestrali indigeni.
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