Tre appunti sulla Meloneide appena conclusasi con il voto di fiducia della Camera e del Senato al nuovo Governo. Sull’effetto “prima donna”, sulla questione fascismo-antifascismo, sul programma.
1. Come il profluvio di dirette, maratone e talk televisivi dimostra, la
“prima donna” è e sarà inevitabilmente oggetto dello sguardo maschile e
femminile più degli uomini che l’hanno preceduta. Meloni lo sa e per due giorni
si è offerta a questo sguardo generosamente, senza sottrazioni e senza
complessi, avendo capito e capitalizzato, grazie alla storia del femminismo che
non le appartiene ma di cui si avvale, che oggi come oggi, in tempi di crisi
devastante della politica maschile, essere una donna è un vantaggio e non uno
svantaggio. La prima donna ha fatto la primadonna, mettendosi al centro della
scena con il suo corpo, i suoi gesti, la sua storia, la sua biografia. La
rottura stilistica rispetto al linguaggio scisso della politica maschile (fatto
salvo Berlusconi, che il confine fra pubblico e privato l’ha rotto da quel dì e
anche ieri, in apertura della sua rentrée al Senato, con l’annuncio del suo
diciassettesimo nipote) è stata evidente, ed è la sola cosa di cui rallegrarsi.
Il che non toglie che per altri versi sia proprio il linguaggio a mostrare
come con il suo essere donna Meloni sia tutt’altro che pacificata. Lo dice
l’uso del maschile – il presidente e non la presidente – cui si ostina ad
affidare il riconoscimento del proprio ruolo, come se il femminile invece lo
diminuisse. Lo dice l’uso dei nomi senza cognomi con cui rende omaggio
(qualcuna deve averglielo consigliato, perché non l’aveva mai fatto prima) ad
altre “prime donne” che l’hanno preceduta, ma rigettandole in una sorta di
album di famiglia privato e cifrato dove riconoscerne il ruolo pubblico diventa
impossibile ai più. Lo dice la dose permanente di aggressività fallica cui non
rinuncia nella sua competizione ravvicinata e spericolata con gli uomini.
Quello che resta stupefacente è come tutte e tutti, donne e uomini, siano
cadute/i nel trappolone della “prima donna che sfonda a destra e non a
sinistra”, una narrativa che punta dritto a dimostrare che il femminismo trova
ascolto più a destra che a sinistra, che la destra è più di sinistra della
sinistra e che la sinistra è fuori dal mondo e dalla storia. Strano che
nessuna/o provi a rovesciarla e a chiedersi come mai le destre radicali di
oggi, non solo in Italia, abbiano bisogno di femminilizzarsi – cosa ben diversa
dal femministizzarsi – per addolcire e rendere commestibili i loro contenuti
programmatici più retrivi. Provare a sostituire la faccia di Meloni con quella
già vista all’opera di Salvini o con la mimica di La Russa o con la stazza di
Crosetto per credere: le reazioni sarebbero ben più ruvide di quelle oltremodo
contenute che abbiamo visto in Parlamento da parte delle opposizioni.
2. Conviene riavvolgere il nastro della Meloneide guardardo la prima giornata,
invece che dalle centinaia di telecamere piazzate nel palazzo, dal particolare
imprevisto delle cariche della polizia sulla manifestazione antifascista della
Sapienza. Arrivato puntualmente a smentire una delle solenni dichiarazioni
biografico-politiche della neopremier (“vengo dai movimenti giovanili e proverò
simpatia anche per chi ci contesterà in piazza”), l’episodio annuncia il clima
prossimo venturo, che prevedibilmente farà largo uso dell’ordine pubblico per
lanciare segnali d’ordine più generali. Ma non solo: fa saltare d’un colpo uno
dei due cardini su cui Meloni e i suoi (La Russa nel giorno della sua
incoronazione a presidente del Senato non era stato da meno) allestiscono la
loro idea della “riconciliazione nazionale”.
I due cardini sono connessi e riguardano, neanche a dirlo, il fascismo e
l’antifascismo. Sul fascismo Meloni se l’è cavata come di consueto con poco,
pochissimo, annegandone i contorni specifici nella condanna dei totalitarismi
novecenteschi, garantendo di non aver mai “provato simpatia per i regimi
antidemocratici, fascismo compreso”, e limitandosi a esecrare le leggi razziali
del 1938 invece del regime nel suo complesso. Sull’antifascismo ha fatto
peggio. Ha ignorato l’antifascismo della resistenza, ovvero il fondamento della
costituzione, e ha attaccato l’antifascismo militante degli anni Settanta,
commemorando “i ragazzi innocenti uccisi in suo nome a colpi di chiavi inglesi”
e nascondendo sotto il tappeto il filo nero delle stragi neofasciste che
percorre la storia della cosiddetta Prima repubblica e che dell’antifascismo
militante fu la causa e la ragione. La risposta stizzita di Meloni al senatore
Scarpinato che gliel’aveva fatto notare è la controprova che Scarpinato aveva
colpito nel segno: questo è il copione della riscrittura della storia e
dell’offerta di “riconciliazione nazionale” della destra postfascista. Si può
esserne felici e contenti, come certa stampa liberale italiana che da anni
accompagna e promuove questo revisionismo in nome e per conto della “normalizzazione
democratica” di una “destra conservatrice” ripulita delle sue origini. Ma non
ci si può meravigliare se poi contro questa rimozione del fascismo storico e
del neofascismo della Prima repubblica l’antifascismo militante rispunta alla
Sapienza o altrove.
3. Fin qui l’identità delle origini del melonismo. Sulla quale si innesta
una miscela di neoliberalismo e sovranismo solo in apparenza contraddittoria,
il sovranismo essendo in tutto il mondo una sorta di evoluzione perversa
della weltanschauung neoliberale dissipativa, globalista e
gaudente nel suo contrario rancoroso, nazionalista e suprematista. Sì che
Meloni è neoliberale quando parla di merito e di capitale umano, di libertà di
circolazione del contante, di “non disturbare chi vuole fare” cioè l’impresa; è
sovranista quando evoca a ripetizione la nazione e le magnifiche sorti delle
bellezze italiche, quando invoca il blocco dei migranti e la procreazione fra
conterranei come antidoto al calo della natalità, quando vagheggia l’Europa
“dei popoli e delle diversità” contro quella dei banchieri e dei burocrati; o
quando con un eloquente lapsus riserva il “tu” a Abubakar Soumahoro, l’alieno
nero piovuto dai campi nel parlamento dei bianchi; o quando parla di se stessa
come l’underdog che ricorda tanto, è stato notato, i forgotten di Trump – salvo
poi promettere la guerra ai poveri sul reddito di cittadinanza. Ed è infine
schiettamente reazionaria, destra d’ordine doc, quando parla di carcere
ostativo, quando (non) parla del reato di tortura che FdI vuole abolire, quando
nomina le differenze come devianze, quando vaneggia di città insicure da
consegnare alla vigilanza delle forze dell’ordine.
Questa miscela può essere esplosiva. Paradossalmente la doppia emergenza
della guerra e della crisi energetica è, per ora, l’ancora di salvezza del
nuovo Governo, perché lì la strada dell’atlantismo e del vincolo europeo è
rigidamente tracciata dai poteri nazionali e internazionali senza la cui
benedizione la “prima donna” non sarebbe dov’è. Solo per ora però, perché le differenze
interne alla sua coalizione in materia di politica estera (né Berlusconi né la
Lega hanno rinunciato a distinguersi dalla premier sulle prospettive della
guerra in Ucraina) e di politica economica sono anch’esse potenzialmente
esplosive. L’unico terreno su cui nel frattempo Meloni potrà consolidare
l’identità della “destra conservatrice” è quello tradizionalissimo di una
svolta d’ordine. Non saranno mesi facili. Tanto meno senza un’opposizione
politica all’altezza della situazione.
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