Non ha avuto l’eco che avrebbe meritato la ricerca nazionale del Laboratorio Adolescenza e dell’Istituto IARD che ha indagato le poche speranze e i tanti timori degli adolescenti nella prima parte del 2022. Si tratta della prima ricerca che – accanto al tema dell’impatto del Covid (e delle misure di contenimento adottate) su ragazze e ragazzi – ha messo a fuoco anche l’impatto su di essi della guerra in Ucraina, esplosa anche mediaticamente dallo scorso febbraio su tutti i dispositivi digitali.
Scrivono i ricercatori:
“Se gli adolescenti ancora faticano a ritrovare la serenità perduta a causa
del Covid lo scoppio della guerra in Ucraina ha ulteriormente minato il loro
senso di fiducia verso il futuro. La preoccupazione degli adolescenti risulta
elevatissima (percentuali che oscillano tra l’80 e il 90 per cento) per la
maggior parte delle possibili conseguenze dirette e indirette che possono
derivare dal conflitto. Ma oltre il 75 per cento è anche preoccupato per il
possibile scoppio di una terza guerra mondiale o per un eventuale
coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto”.
Per contribuire a questa situazione di pesante disorientamento
generazionale e generalizzato – nel quale, commenta Maurizio Tucci, presidente
del Laboratorio Adolescenza, “passare dalla Dad alla guerra, senza
soluzione di continuità, ha reso gli adolescenti, già duramente colpiti a
livello psicologico dalla pandemia, ancora più fragili e timorosi” –
la narrazione mediatica della guerra aveva potentemente dispiegato i suoi
dispositivi dis/educativi pervasivi attraverso la precipitazione culturale del
paese in un inedito e virulento clima bellicista – “isteria bellica” l’ha
definita recentemente Edgar Morin sul suo profilo twitter, in
riferimento alla Francia – volto a disconfermare e destabilizzare – come
avevamo raccontato nei mesi scorsi qui e qui – i modelli che sembravano sostanzialmente acquisiti di educazione
civile, pacifista e costituzionale. Aumentando timori e senso di precarietà di
ragazze e ragazzi.
Devianti per definizione
Ora la campagna elettorale sta aggiungendo ulteriori elementi che vanno a
sostenere l’emergere di una vera e propria onda di “pedagogia nera”. Grottesca,
spiazzante e spaventosa insieme. Che vede, da un lato, assimilare
brutalmente e insensatamente tutte le manifestazioni di fragilità
adolescenziale, da quelle più intime a quelle più pubbliche (dai disturbi
alimentari alle cosiddette “baby gang”), nel vetusto concetto – onnicomprensivo
quanto fuorviante – di “devianza giovanile” secondo la
definizione che ne ha dato Giorgia Meloni e, dall’altro, rilanciare il vecchio
tema del servizio militare obbligatorio – sospeso in Italia
dal 2005, con la legge 226/2004 – come strumento di contrasto a questa devianza
“per raddrizzare tante ragazze e tanti ragazzi”, secondo l’impegno
propagandistico di Matteo Salvini nei comizi di piazza. Nessuna sensibilità
nelle parole di Meloni (che pure nella sua precedente esperienza di governo era
stata ministra delle… politiche giovanili) sull’essere adolescenti oggi; nessun
ragionamento nelle parole di Salvini – non dico complesso ma almeno di senso –
sulle questioni attinenti al modello di difesa, alle minacce dalle quali è
necessario difendersi e al come farlo in maniera lungimirante e costituzionale,
ma solo un trito slogan sulla reintroduzione dell’obbligo di naja con mera
funzione rieducativa per i giovani. Devianti per definizione.
Servizio militare raddrizzativo
Probabilmente Salvini non ne è consapevole, ma la
sua proposta delle caserme come luoghi obbligatori della ri-educazione si
inserisce nell’onda lunga di quella che Katharina Rutschky e Alice Miller hanno
definito “pedagogia nera”, ossia quell’approccio “educativo” che ha una lunga
tradizione storica volta appunto a “raddrizzare” e correggere la natura –
considerata naturalmente cattiva di bambini, ragazzi e giovani – attraverso modalità
di addestramento punitivo, fondato sulla legittimazione della violenza,
strutturale e culturale oltre che, spesso, agita sui corpi e sulle menti. All’interno di
questo approccio “educativo”, rigore, disciplina e sottomissione gerarchica,
considerati come necessari mezzi per la crescita di un individuo obbediente, in
verità “hanno celato per lungo tempo una complessa fenomenologia della violenza
e dell’umiliazione” (vedi Marinella Muscarà e Alessandro Romano, Punire,
castigare, obbedire. Una lettura antropologica delle pratiche educative violente,
2020), anche – e soprattutto – all’interno delle istituzioni totali, come le
caserme. Basti ricordare il fenomeno del nonnismo, come forma di feroce
bullismo in divisa, agito dai più anziani sui novellini come inevitabile rito
di iniziazione, in una infinita catena della violenza, riconosciuta e
sostanzialmente tollerata (se non in certi casi favorita) come parte integrante
dell’addestramento alla disciplina, alla quale tutti i giovani maschi abili e
arruolati, prima o poi, hanno dovuto sottostare. Salvo dichiararsi obiettori di
coscienza al servizio militare e svolgere il servizio civile sostitutivo in
difesa del Paese. E per questo, per decenni – dal 1972 fino alla sospensione
della leva obbligatoria – considerati, codardi e imbelli dalle gerarchie militari.
Oggi in Polonia, domani in Italia?
Questa onda montante di pedagogia nera e violenta
non ha solo una dimensione nazionale ma cresce pericolosamente sul piano
europeo ed internazionale. In Polonia, per esempio, il governo di Mateusz
Morawiecki – non a caso politicamente alleato a Bruxelles con il partito di
Giorgia Meloni – ha deciso che da questo anno scolastico gli studenti,
dall’ottava elementare (equivalente alla nostra terza media) in avanti, avranno
nel loro curriculum di studi l’addestramento all’uso delle armi. All’insegna del
motto – obsoleto e falso – “se vuoi la pace prepara la guerra”, ragazze e
ragazzi saranno portati dai loro insegnanti ai poligoni di tiro per imparare ad
uccidere, anziché svolgere le ore di educazione sanitaria come era stato fino
allo scorso anno scolastico. Del resto, la Polonia è uno dei paesi europei con
il minor numero di detentori legali di armi e l’eco della guerra in Ucraina è
il pretesto perfetto per l’industria bellica per allargare il mercato interno
delle armi, anche da guerra – attraverso gli sponsor governativi, dopo aver già
portato le spese militari al 3 per cento del Pil! – cominciando dall’addestrare
gli adolescenti alla “familiarizzazione”, secondo le parole del ministro
dell’istruzione Przemyslaw Czarnek, “con le armi”… Oggi in Polonia, domani in
Italia?
A scuola a mano armata
Intanto, dall’altra parte dell’Oceano, negli Usa – che in
fatto di proliferazione di armi, guerre e ideologia del nemico, sia sul piano
interno che internazionale, sono più avanti di tutti – dopo la strage di Uvalde
in Texas, la più grave di una lunga serie di stragi scolastiche (nella quale un
ex studente ha ucciso con le armi automatiche diciannove bambini e due
insegnanti), in ventinove Stati sono gli insegnanti a iniziare l’anno
scolastico armati. Piuttosto che regolamentare severamente l’acquisto delle
armi, si chiede agli insegnanti di andare a scuola a mano armata. Con licenza
di uccidere prima di essere uccisi. In una folle e perversa logica di guerra
che attraversa i contesti formativi, i quali – anziché costruire nella mente
dei più giovani “le difese della pace”, come recita la Carta fondativa
dell’Unesco – si trasformano in luoghi di addestramento fisico e mentale alla
guerra. Un’onda violenta di pedagogia nera internazionale che, se non arginata
per tempo – attraverso l’intenzionale educazione alla nonviolenza a ogni livello e
latitudine – ci travolgerà inevitabilmente: prima gli adolescenti e poi tutti
gli altri.
Nessun commento:
Posta un commento