La guerra ha derubricato ogni altra questione. Ed è un vero peccato, perché la stessa soluzione alla guerra sta nell’altro, in ciò che è a monte del crepitare delle armi. Nell’energia, innanzitutto. Il potere, le gerarchie geopolitiche sono da sempre sedute sull’energia a basso costo. Quella fornita dagli schiavi nelle e dalle colonie, quella estratta dalle miniere di carbone, prima, e dai pozzi di petrolio, poi. Ora, la “linfa vitale del capitalismo” (scrive dall’Egitto Omar Robert Hamilton, in: Africa is a Country) è il gas naturale che la Federazione russa fornisce a mezzo mondo.
Il Nord globale, i paesi ricchi capitanati dagli Stati
Uniti hanno due modi per ottenere dal Sud del mondo gli
approvvigionamenti che gli sono necessari (non solo energia, ma
materie prime in genere): sfiancare con conflitti armati i
paesi produttori mantenendoli in una condizione di perenne instabilità e
subalternità, o tentare un inedito accordo epocale per la
decarbonizzazione del pianeta. Pace e transizione ecologica
sono due facce della stessa medaglia. Irrisolvibili
separatamente. Ecco perché l’ennesima (29) Conferenza sul clima che
inizierà il 7 novembre a Sharm el-Sheikh non servirà a nulla. Specularmente,
non ci sarà mai pace nel mondo se l’energia non uscirà dalla guerra attraverso
un patto di giusta condivisione a beneficio di tutti gli abitanti della Terra –
presenti e futuri. La transizione ecologica, per poter funzionare, deve
comportare una ridislocazione dei poteri sull’utilizzo delle comuni risorse
naturali. Ciò richiede la tessitura di equilibrate relazioni
multipolari paritarie. O l’Onu ha la forza di trasformare la prossima
Conferenza sul clima in una sorta di conferenza mondiale per la pace o sarà il
solito inganno: un po’ di green-washing aziendale e un po’ di corrompimento
dei governi.
Uscire dai combustibili fossili, far tornare a respirare la Terra,
implica una riconversione radicale degli apparati tecnologici installati sulla
superficie del pianeta (impianti industriali, infrastrutture, agricoltura e
zootecnia, mezzi di trasporto, edifici…). Un’impresa che per riuscire ha
bisogno di una mobilitazione generale delle risorse scientifiche ed economiche,
ma anche della disponibilità delle popolazioni a modificare comportamenti e
stili di vita. Ad incominciare da chi genera gli impatti ambientali più gravi,
cioè noi che viviamo in questa parte del mondo. Ridurre drasticamente la
domanda di energia e di materia impiegati nei cicli di consumo è un atto di
pacificazione nei confronti della Terra e, con essa, anche della vita dei
nostri simili più esposti alle pressioni del sistema produttivo. Sono
centinaia di milioni le persone colpite dai disastri ambientali e decine di
milioni i profughi e i rifugiati climatici. Una maggiore attenzione
verso tutto ciò che usiamo è quindi un atto di attenzione e di rispetto verso
chi produce le cose che poi noi consumiamo. Un atteggiamento
esattamente opposto e contrario all’idea di “sovranità” delle destre
nazionaliste. Nell’energia, come in quasi tutte le materie prime che
utilizziamo non siamo affatto sovrani, ma debitori dal lavoro e dal patrimonio
di altri nostri simili. La proposta ecopacifista è mettere in comune
ciò che abbiamo, disarmando i confini degli stati-nazione e scardinando i
diritti proprietari esclusivi.
Una nota a margine. Cosa andrà a fare il governo italiano a Sharm
el-Sheikh? Due parole la nuova presidente del Consiglio non ha pronunciato:
pace e clima. Incredibile, ma vero.
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