Il libro è in realtà una raccolta di dialoghi su mille temi, dialoghi fra David Graeber e un terzetto composto da Mehdi Belhaj Kacem, Nika Dubrovsky e Assia Turquier-Zauberman.
Di
cosa parlano i quattro è difficile dirlo in poche parole, se non impossibile.
Di sicuro si tratta di argomenti che non smettono di essere attuali.
Cito solo alcune righe
“…L’anarchia non è un atteggiamento, non è una visione, non è neanche un insieme di pratiche: è un processo in continuo movimento tra queste tre cose…” (p.31) – non ci sono formule definitive e immutabili
“…negli anni ’60 e ’70 cominciò ad aprirsi un fronte interno di critica dell’antropologia…che affrontava il coinvolgimento della disciplina con il colonialismo, il razzismo e l'imperialismo…” (p.90)
“…la CIA e il Pentagono si servivano ai propri fini degli antropologi in paesi come il Cile e il Vietnam…Dopo il 2001 scoppiò uno scandalo simile quando si scoprì che l’esercito statiunitense usava gli antropologi durante l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq (un’impresa coloniale sotto ogni punto di vista)…” (p.91) - a molti ricercatori, di tutte le discipline, o volontari di certe ONG capita di essere “usati” da qualcuno che muove i fili (penso a Regeni o un film intitolato El perro del hortelano, diretto da Renzo Zanelli).
Si leggerà di Proletkult, che incuriosirà molti, a p.101-102.
Interessanti le regole d’ingaggio della polizia (da pag.208) – si ragiona sul come e il perché le forze dell’ordine trattano i pacifici manifestanti come se fossero efferati terroristi.
QUI la prefazione a ‘Dialoghi sull’anarchia’, di Stefano Boni
In queste conversazioni, avvenute poco prima
della sua prematura scomparsa, Graeber ci lascia un ultimo geniale mosaico del
mondo contemporaneo, in cui miscela sapientemente riflessioni politiche, sapere
antropologico ed esperienze militanti. In un fitto dialogo attento a
ridisegnare una genealogia anarchica che non si esaurisce nella «cultura
atlantica», i tre interlocutori interrogano Graeber non tanto sulla storia o i
fondamenti del pensiero libertario quanto sull'importanza di uno sguardo
anarchico per interpretare il mondo. Ne esce, come sottolinea Stefano Boni, una
visione originale – elaborata sul campo da un pensiero-azione in continua
trasformazione – che impedisce il formarsi di una teoria «forte» dell'anarchia
intesa come destino o identità. Ed è precisamente la forma dialogica,
rivendicata da tutti gli interlocutori, la modalità che consente di costruire
questa visione non autoriale ma collettiva, l'unica in grado di far emergere
pensieri che nessun individuo da solo potrebbe mai avere. E in definitiva, ci
dice Graeber, l'anarchia è proprio questo.
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