Come la
nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il
mondo
E tutta questa coscienza comune si
accontenta di usarmi come una scatola nera?
Dato che la scatola nera funziona, è superfluo sapere cosa ci sia dentro?
A me non sta bene. Voglio sapere cosa c’è dentro, io.
Voglio sapere perché ho scelto Gaia e Galaxa come futuro, altrimenti non starò
in pace.
Isaac Asimov, Fondazione e Terra, Mondadori, Milano, 1986, p.
14
1.0 - Prequel
Questo
volume nasce dal percorso di ricerca collettiva Into the Black Box.
Era il
finire del 2013. Da qualche anno si susseguivano in EmiliaRomagna, Lombardia e
Veneto blocchi dei facchini ai cancelli degli interporti. Eravamo in piena
crisi economica globale. Dopo la bolla dei subprime Usa, l’intero
territorio europeo aveva visto abbattersi la scure dell’austerity. Le
piazze di mezza Europa si incendiarono. Per confrontarsi su questo, un
seminario internazionale intitolato proprio Teaching the Crisis si
tenne a Berlino. Partecipammo entusiasti. Giovani militanti e ricercatori di
mezzo mondo portarono le loro esperienze e analisi. Piazza Syntagma, Porta del
Sol, Piazza Taksim, Kottbusser Tor o le strade di Lubiana: chi aveva
attraversato quei luoghi di conflitto si incontrò per parlare di crisi, di
reazioni, di lotte e di prospettive. Da Bologna portammo l’esperienza delle
“lotte nella logistica” e non è riduttivo dire che davanti a noi si aprì un
mondo (puntata 4.1).
Confrontandoci,
leggendo, partecipando e approfondendo scoprimmo che la logistica era in
tensione ai quattro angoli del globo. Si annotavano blocchi logistici in
Canada, Australia, Cile, Grecia, Cina, Olanda, Belgio e altrove. I lavoratori
di quel settore sfruttavano la loro posizione strategica. In un mondo dove la
produzione è globale, dove ogni passaggio del processo produttivo si svolge in
un luogo diverso, se blocchi un segmento puoi arrivare a bloccare tutto.
Facchini e operai della logistica evidentemente lo sapevano. O comunque, lo
facevano. Noi l’abbiamo scoperto con loro. Grazie a loro.
A fianco a
forme più o meno intense di conricerca, negli anni immediatamente successivi al
2013 abbiamo incontrato strumenti teorici importanti. In primo luogo i lavori
di Keller Easterling (Extrastatecraft. The power of infrastructure space –
Verso, 2014) e Deborah Cowen (The deadly life of Logistics –
Minnesota Up, 2014). Sempre in ambito anglofono, libri e articoli di Edna
Bonacich e Jake Wilson, Anna Tsing, Stefano Harney e Fred Moten, Sandro
Mezzadra e Brett Neilson. Inoltre, e non certo meno importante, la riscoperta
di una radice italiana operaista di studi critici sulla logistica: la rivista
«Primo Maggio», i lavori di Sergio Bologna, e ovviamente il “Dossier Trasporti”
del 1978. Con strumenti teorici di matrice marxiana e operaista, partecipazione
ai movimenti e con un confronto proficuo e costante con compagne e amici, ci
siamo spinti/e ad accogliere la logistica come campo di studio, lotta e lavoro.
Inoltre, con la logistica abbiamo scoperto una lente (vedi la puntata 3.1)
attraverso cui scrutare la storia e le mutevoli geografie del capitalismo
globale (su questo 3.2 e 4.2).
Lo sbocciare
della cosiddetta industria 4.0, del capitalismo delle piattaforme e della gig economy ha
in qualche modo radicato ed espanso la nostra prospettiva. Nei secondi anni
Dieci, la logistica ha mantenuto e anzi incrementato la sua efficacia
ermeneutica imponendosi come razionalità alla base del potere algoritmico delle
piattaforme. Nuovi soggetti al lavoro hanno invaso le nostre città costruendo
nuovi “campi di battaglia” (vedi puntata 3.6). A fianco ai facchini delle sigle
più tradizionali, i rider del food delivery o i driver di Amazon hanno portato
nuove forme di lotta o puntellato quelle in corso (si veda la puntata 4.3
sui gilets jaunes), prodotto nuovi modelli di sindacalismo
auto-organizzato, e issato nuove rivendicazioni, squarciando il velo elegante e
confortevole del capitalismo 4.0 (vedi puntata 3.5). Come percorso di ricerca
collettiva abbiamo seguito, partecipato e scritto di questa effervescenza (si
vedano le puntate 4.5, 4.6 e 4.7). Ancorati/e a un’attenzione puntuale
rivolta a ciò che è circolazione (si veda la puntata 4.4), l’orizzonte degli
ultimi anni ci è apparso (o, almeno, così ci sembra) piuttosto nitido e
leggibile. Leggibile attraverso gli occhi della logistica (puntata 3.3).
Certo,
riunire scritti pensati singolarmente come facciamo in questo volume significa
dare il là a un vero e proprio montaggio. E montare un film o una serie
televisiva significa quasi riscriverli, collocandoli in un contesto narrativo
differente. Costruire un nuovo significato rispetto alla mole di fotogrammi
accumulati. Per fare il montaggio bisogna essere immersi nelle questioni
tecnico-espressive e artistiche del film, saperne tirare le fila (coerenza
della trama, caratterizzazione dei personaggi, comprensibilità delle idee di
fondo, etc.), ma anche porsi dal punto di vista dello spettatore/ice che è
totalmente all’oscuro delle problematiche e degli a priori del
film.
Per questo
motivo, nel costruire questo volume abbiamo provato a fare un lavoro di
montaggio doppio: “esterno” e “interno”. Da un lato tentiamo di restituire
quello che abbiamo definito capitalismo a trazione logistica, capitalismo delle
piattaforme, e delle tendenze e scenari di conflitto al suo interno. Lo
facciamo mettendo in sequenza una serie di inquadrature (riquadri teorici) e di
scene (stralci di inchiesta). Un montaggio che, come per tutta la nostra
produzione, si svolge come un lavoro di équipe che si coadiuva procedendo per
tagli, catalogazione, organizzazione, dialoghi, effetti speciali. Dall’altro
lato, invece, abbiamo provato a riunire alcuni degli scritti che a noi sembrano
più efficaci per restituire il nostro percorso, sperando che riproponendoli in
una tale forma olistica risultino utili a raccontare una piccola storia
collettiva del nostro presente.
2.0 – Montaggio
Ouverture
Geminiano
Montanari nasce a Modena il primo giugno 1633. Fino al 1664 studia, viaggia e
lavora tra la Toscana, Salisburgo e Vienna, e tra il 1657 e il 1658 compie un
avventuroso viaggio alle miniere d’argento di Ungheria, Boemia e Stiria allo
scopo, tra l’altro, di sperimentare un’innovativa pompa idraulica. Dopo questo
periodo lavorerà in università tra Bologna e Padova, dove morirà il 13 ottobre
1687. Montanari è un uomo di un’altra epoca, come si può dedurre dal fatto che
il suo inquadramento come “matematico” si accompagna a riconoscimenti nei campi
dell’ingegneria, della metallurgia, della meccanica, della fisica, dei moti
celesti nonché delle tecniche amministrative e contabili, come pure
dell’astrologia e dell’alchimia. Ma è soprattutto per i suoi studi sulla moneta
che viene assoldato per varie ricerche, sia dai Medici fiorentini che dalle
autorità veneziane, in un momento storico in cui circolavano quattro monete
(quelle preziose d’oro e d’argento, quelle bancarie – le promesse di pagamento,
quelle “basse”, a poco o nullo valore intrinseco – e, infine, quelle
immaginarie, non circolanti, puramente contabili e legali). Contribuisce anche
a realizzare un torchio a bilancia per il conio di speciali monete d’argento,
che diverse zecche europee già producevano, usato dal Granduca fiorentino per
contrabbandarle in Turchia e di qui in Persia, dove inteverrà direttamente il
Gran Visir per interromperlo.
Quando Marx
descrive le condizioni degli operai di Londra parla dei loro quartieri come
delle «miniere della miseria [che] vengono sfruttate dagli speculatori
dell’edilizia con maggiore profitto e con minore spesa di quanto siano mai
state sfruttate le miniere di Potosì. Il carattere antagonistico
dell’accumulazione capitalistica e quindi dei rapporti di proprietà
capitalistici in genere diventa qui così evidente». Dopo questa metafora che su
scala planetaria lega lo sviluppo della metropoli inglese all’estrazione di
argento in Bolivia, Marx, in una nota, richiama una frase di Montanari tratta
dal volume Della moneta (1683 circa), che raccoglie vari
scritti non pubblicati. L’inattualità di Montanari trasuda dall’italiano che
suona a noi desueto. Ma l’immagine che descrive pare essere una di quelle alle
quali, in particolare con l’accelerazione storica vissuta con la pandemia,
siamo abituati/e a simbolizzare il nostro presente. Scrive Montanari: «È così
fattamente diffusa per tutto il globo terrestre la comunicazione de’popoli
insieme, che può quasi dirsi essere il mondo tutto divenuto una sola città in
cui si fa perpetua fiera d’ogni mercanzia, e dove ogni uomo di tutto ciò che la
terra, gli animali e l’umana industria altrove producono, può mediante il
denaro stando in sua casa provvedersi e godere. Maravigliosa invenzione!».
Come non
pensare a una persona che, seduta in casa propria, ordina oggi su qualche
piattaforma digitale una qualsiasi merce prodotta “altrove” per potersela
“godere”? Montanari sembra dirci che au fond è
l’astrazione del denaro che consente questa circolazione globale. Nei circa 350
anni trascorsi tra Montanari e noi, potremmo dire che lo scarto
spazio-temporale tra l’astrazione capitalistica e la sua concretizzazione si è
progressivamente ridotto, riempiendo il mondo di apparati logistici,
infrastrutture, processi urbani, macchine.
Scena I - 29 luglio 2021
Nel porto di
Rotterdam, fondato nel 1283, attracca la Ever Given, una delle navi
portacontainer più grandi al mondo. Lunga quattrocento metri, a bordo
trasporta 18.300 container con merci di ogni tipo per un valore stimato attorno
ai 600 milioni di euro. Il viaggio della Ever Given era iniziato l’8 marzo a
Yantian, in Cina, proseguito a Tanjung Pelepas (Malesia), e dopo aver scaricato
parte del suo carico a Rotterdam terminerà le consegne nel Regno Unito, per poi
riprendere le sue usuali rotte trans-oceaniche. Solitamente il viaggio è
tuttavia molto più breve e fruttuoso. Una parte dei container sono infatti
colmi di vestiario per la stagione estiva, che ormai sono fuori tempo massimo
per essere commercializzati. E anche una serie di altre merci (in particolare
di Ikea e Lenovo) potrebbero risultare ormai inutili. La nave infatti, qualche
mese prima, è diventata un caso mondiale rimanendo incagliata nel Canale di
Suez, bloccandolo totalmente per quasi una settimana a partire dal 23 marzo, ed
è stata quindi costretta a fermarsi sino a inizio luglio per accertamenti e
procedure legali.
Il
proprietario della Ever Given è la giapponese Shoei Kisen Kaisha, la nave è
registrata a Panama, il management tecnico è della compagnia tedesca Bernhard
Schulte Shipmanagement (Bsm), ma la compagnia di trasporti che la gestisce (la
Evergreen Marine) ha la sede centrale a Luzhu (Taiwan). Quando si incaglia
vicino al villaggio Manshiyet Rugola, per Shoei inizia una estenuante
trattativa con il governo egiziano (richiesta: un miliardo di dollari di
riparazione danni) che si concluderà con un accordo i cui termini non sono
stati resi noti. Nel corso del contenzioso, a tre membri dell’equipaggio è
consentito lasciare l’imbarcazione, cosa usualmente non concessa, in quanto il
loro contratto a tempo è scaduto. Nonostante le dimensioni, la Ever Given ha a
bordo solo il capitano (incriminato per l’incidente) e 25 marinai, tutti
indiani e con contratti per lo più legati a singole missioni. D’altronde la
storia degli equipaggi marittimi è intrecciata a doppio filo con la storia del
colonialismo, tanto che ancora oggi le crew marittime globali
sono composte in prevalenza da forza lavoro cinese, filippina, indiana e
indonesiana.
Scena II - 27 novembre 2020
È ancora
notte a Kemps Creek, nel Nuovo Galles del Sud (Australia), all’estrema
propaggine dell’immenso sprawl urbano che costeggia il cuore
di Sydney nell’entroterra, dalla parte opposta al mare di Tasman. Il più grande
magazzino australiano di Amazon (grande quanto 24 campi da rugby) è in piena
funzione, tra poche ore le flotte di driver inizieranno a sparpagliarsi per una
tra le “giornate di lavoro” (ormai in realtà la distinzione giorno/notte non
corrisponde più alla dicotomia lavoro/sonno) più pesanti, quella del Black
Friday, dove il giro di vendite di Amazon ha numeri da capogiro. La forza
lavoro di Amazon, 1.2 milioni di impiegati diretti a livello globale, è oggi
spremuta al massimo, e affiancata da altre centinaia di migliaia di
lavoratori/ici assunti per l’occasione. Dopo Kemps Creek a partire saranno i
driver di Daito, estrema periferia di Osaka (Giappone), assieme agli altri otto
Fullfilment center (i magazzini in linguaggio amazonese) nipponici. Inseguendo
il sorgere del sole toccherà quindi alle altre centinaia di magazzini sparsi
per India, Arabia Saudita, Turchia, svariati paesi europei, per concludere la
giornata in Brasile, Stati Uniti e Canada – i contesti nei quali opera
quotidianamente Amazon.
Questa
dorsale logistica planetaria che pompa merci all’interno di centinaia di
milioni di abitazioni emette ogni anno cinquanta milioni di tonnellate di CO2,
ma la multinazionale tecnologica ha progressivamente assunto un profilo da
impero non basandosi solo su questa mega-macchina della distribuzione, bensì
diversificando il suo business in maniera estremamente ramificata aggiungendo
all’e-commerce il cloud computing, lo streaming digitale, l’intelligenza
artificiale. Amazon è parte delle cosiddette Big Tech, tra le più influenti
compagnie del pianeta e detiene un capitale di molto superiore al Pil di
numerosi Stati. Il suo fondatore, Jeff Bezos, si è lanciato negli ultimi anni
verso la nuova frontiera dell’economia spaziale, progettando turismo
extra-orbitale per ricchi. Il 21 giugno 2021, dopo aver completato il suo
volo inaugurale di 10 minuti fino alla cuspide dello spazio esterno e ritorno,
dal deserto del Texas occidentale, Bezos, vestito con una tuta spaziale blu e
un cappello da cowboy, ha mandato un tweet ringraziando i dipendenti e i
clienti di Amazon, notando che: «Hanno pagato per tutto questo». Sui social è
partita una ridda di commenti che dicevano che: «Sì, i lavoratori di Amazon
hanno pagato con salari più bassi, la rottura dei sindacati, un luogo di lavoro
frenetico e disumano, e gli autisti di consegna che non hanno l’assicurazione
sanitaria durante una pandemia […] E i clienti di Amazon stanno pagando perché
Amazon abusa del suo potere di mercato per danneggiare le piccole imprese».
Scena III - 16 marzo 2019
Sin dalla
mattina violenti scontri avvolgono gli Champs-Élysées, una delle strade più
famose e lussuose di Parigi e del mondo. Fino al 1616 in quella via c’erano dei
semplici campi, fu Maria de’ Medici a far costruire un percorso alberato che si
estendeva dal Louvre fino alla Tuileries. Attraverseranno le diverse stagioni
della storia francese e tutt’ora sono un simbolo contestato. Fino a sera decine
di migliaia di persone manifestano e a fine giornata moltissimi negozi di lusso
e ristoranti esclusivi sono in fiamme. Numerosi i negozi saccheggiati e gli
assalti ai blindati delle forze dell’ordine. Si stimano 200 milioni di euro di
danni. La mobilitazione va in scena in tutto il paese e s’intreccia con i
cortei per la giustizia climatica, e la giornata – il diciottesimo sabato di
fila di protesta – è particolarmente dura perché cade il giorno successivo alla
chiusura della consultazione nazionale proposta da Macron per dibattere su
alcune rivendicazioni dei gilet gialli.
Le migliaia
di pettorine catarifrangenti che si aggirano per le vie del lusso vengono
spesso da fuori Parigi e sono il simbolo di un movimento nato a partire dalla
scintilla di un aumento dei costi del trasporto, e non è un caso che sia una
strada e non una piazza il terreno della loro battaglia. La forza del
movimento è stata d’altro canto il blocco delle rotonde stradali diffuse su
tutto il territorio, l’inceppamento della circolazione e l’interruzione dello
scorrere del tempo capitalistico, dall’altro l’imposizione di una rigidità
temporale che per mesi e mesi si è definita nella mobilitazione di tutti i
sabati, gli Atti dei gilets jaunes.
Scena IV – 22 gennaio 2018
Più di 50
rider di Hong Kong si sono ritrovati davanti alla sede di Deliveroo in Jervois
Street per dar vita a uno sciopero contro un cambio nella app con cui lavorano e
che rischiava di abbassare le loro paghe. Qualche giorno prima anche in Belgio
e Olanda i fattorini del food delivery – queste nuove soggettività del lavoro
che hanno iniziato a popolare le strade delle principali città del mondo con i
loro borsoni dai colori sgargianti quasi fossero degli enormi cartelloni
pubblicitari su due ruote – per via della decisione dell’azienda di
trasformarli in lavoratori autonomi. A Parigi durante un altro sciopero i loro
colleghi del neonato Clap – Collectif des livreurs autonomes de Paris – hanno
esposto uno striscione che recita: «La rue est notre usine». La strada è la
nostra fabbrica. Uno slogan semplice ma che riassume efficacemente sia la
dislocazione dei processi produttivi all’interno degli spazi urbani sia la
costituzione di nuove soggettività operaie metropolitane. Scioperare non vuol
dire tanto bloccare la produzione quanto inceppare i flussi, impedire la
copertura di quel maledetto ultimo miglio che va fatto nel più breve tempo
possibile. Ad aprile la prima assemblea italiana delle unions – forme
innovative di sindacalismo metropolitano basate sull’auto-organizzazione e il
conflitto – tenutasi a Bologna ha lanciato il primo logout collettivo dalle
piattaforme di food delivery contro quella che i rider hanno ribattezzato “la
schiavitù dell’algoritmo”. La data scelta non è casuale – il primo maggio –
come a segnare una ricollocazione di questa figura emblematica del capitalismo
delle piattaforme all’interno di un patrimonio collettivo di lotte di classe
piuttosto che sotto l’ombrello della retorica neoliberale
dell’imprenditore di sé stesso.
Intermezzo
Il découpage è
un metodo di analisi critica di un film, che esamina nel dettaglio la messa in
scena operata dal regista. Etimologicamente deriva dalla parola francese découper che
signifi frammentare. Possiamo dire di aver adottato metodologicamente un
procedimento di analisi critica che ha scomposto in alcune scene i flussi
capitalistici, frammentandole e approfondendole in quanto tali. In fase di post
produzione si tratta però di rimontarle, provando dopo il primo approccio
scompositivo a dar loro un differente significato. Questa operazione serve per
togliere “normalità” alle operazioni del capitale, cercando di portarne in
risalto quell’aspetto gotico, alchemico, fantasmatico che l’analisi marxiana
attribuisce al capitale. La “realtà” del capitale è infatti popolata da entità
spettrali, un «mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i
fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e
insieme direttamente come pure e semplici cose» (Il Capitale, III,
p. 943). L’oggettività spettrale della merce che fluisce cela al suo interno un
arcano, la radice materiale dell’accumulazione. Lo sfruttamento del lavoro
vivo. La doppia faccia degli “spettri di Marx”, dove il carattere fantasmatico
del capitale deriva dall’avere carattere sociale ed essere una semplice cosa. E
dove il lavoro vivo è spettro che può però tramutarsi in un “fantasma che si
aggira”.
Lasciando a
chi legge la possibilità di un proprio montaggio delle quattro scene da poco
presentate, qui proponiamo una tecnica connotativa alla Sergej Ėjzenštejn.
Ossia: frammentiamo l’immagine unitaria del capitale per costruire un
significato differente attraverso l’associazione di scene che prese
singolarmente avrebbero una valenza diversa. Proponiamo di seguito alcuni
riquadri per questa diff ente traiettoria interpretativa.
Il punto che
ci sembra importante da preservare è quello di costruire una comprensione
“sofisticata” del presente che miri a tenere insieme uno scandaglio delle
dinamiche “oggettive”, di potere e di comando – sistemiche se vogliamo – con i
conflitti, le lotte, le alternative, i potenziali di rottura che si producono
costantemente al loro interno. Legare, in altre parole, circolazione e
riproduzione capitalista – la logistica del capitale – con il suo costante
contro-piano – il fil rouge del lavoro vivo, della sua
autonomia e della sua ribellione.
Per rimanere
sulla metafora cinematografica, si tratta di praticare un continuo
campo-controcampo, mostrare la caratteristica dialettica, la natura relazionale
del rapporto di capitale, il suo sviluppo incerto, non lineare né predefinito.
Di fronte a un presente che appare come un immane Capital Game apparentemente
senza via d’uscita, suggeriamo di guardare alla radice antagonistica del
rapporto di capitale, rovesciare e rimontare le sue scene, per scrivere finali
differenti. Con Capital Game richiamiamo evidentemente la fortunata serie tv
dal successo planetario Squid Game, e più in profondità intendiamo alludere al
carattere complessivo assunto oggi dalla sussunzione reale capitalista.
I° riquadro: Le frontiere del conflitto
Il concetto
di frontiera oggi ha assunto un significato epistemico decisamente ampio.
Sandro Mezzadra e Brett Neilson hanno costruito un libro intero su questo
termine,1 e anche nei loro lavori più recenti esso assume
carattere cruciale. In generale ci sembra che l’utilizzo che fanno questi due
studiosi del concetto di frontiera sia conseguente a un’analisi del capitalismo
contemporaneo inteso come un rapporto sociale che, attraverso la sua capacità
estrattiva, «attinge ai suoi molteplici fuori per sostenersi e perpetuarsi».2 Frontiera,
in questo senso, definisce quanto sta all’interno del capitalismo e quanto sta
potenzialmente “fuori” (come, ad esempio, le pratiche di cooperazione sociale)
in una prospettica generale che vede il capitalismo alla continua
ricerca/costruzione di nuovi territori da colonizzare e nuovi processi di
accumulazione da innescare.
In linea con
questa lettura, Nancy Fraser e Rahel Jaeggi hanno parlato delle spinte del
capitalismo a spostare continuamente la frontiera tra «il politico e
l’economico, la produzione e la riproduzione, la società umana e quella
naturale non-umana, lo sfruttamento dalla espropriazione».3 E
proprio a queste spinte si contrappongono quelle che hanno chiamato i boundary struggles (lotte
di frontiera) utili a difendere pratiche e spazi non ancora sussunti dal
capitale.
Andando a
ritroso possiamo accostare queste due letture con l’analisi del conflitto che
diede l’operaismo di matrice trontiana, collocandolo proprio nel punto più
avanzato dello sviluppo capitalista (nella “frontiera” più avanzata).
Esattamente di questo, in fondo, ci parlano le lotte dei facchini della
logistica, le lotte dei driver di Amazon o dei rider delle molteplici
piattaforme digitali di food delivery. Allo stesso modo, così ci parlano le
molteplici lotte locali a difesa dei territori dalle spinte estrattive del
capitale o le resistenze alle forme di finanziarizzazione della vita
perpetrate attraverso l’estrazione e la rilettura algoritmica dei big data, la
nuova frontiera del mining globale.
II° riquadro: Contro-logistica
“A ogni
azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Sembra Archimede. È la
terza legge della dinamica. Nei termini di questo libro possiamo
parafrasare dicendo che a forme di logistica più o meno violente sono sempre
corrisposte forme di contro-logistica. Ad esempio, si possono considerare come
forme di contro-logistica i moti di ribellione degli schiavi della tratta
Atlantica. La cosiddetta “idra dalle molte teste” è stata la prima a
contrastare la “più grande operazione logistica della storia”, vale a dire lo
spostamento di milioni di schiavi verso il nord America. Nei secoli degli
imperi globali, dove organizzazioni logistiche come la Compagnia delle Indie
Britannica fungevano da veri e propri Stati esercitando sovranità in territori
lontani dall’Europa, la contro-logistica dei pirati ha avuto per decenni
l’obiettivo di minacciare i commerci delle grandi potenze europee, figli spesso
di depredazioni e sfruttamenti in molteplici parti del globo. E poi potremmo
richiamare la presenza di contro-logistica negli spazi urbani dell’Ottocento
che si stavano trasformando in metropoli, nella fabbrica in espansione di
inizio Novecento, e si può risalire agilmente fino all’oggi. Recentemente una
vera e propria “logistica dei riot”4 ha puntellato il panorama
globale. I riot, secondo Nick Dyer-Witheford e prima di lui Joshua Clover, sono
“la forma di resistenza paradigmatica in un capitalismo sempre più
circolatorio”. Da Parigi a Santiago del Cile, da Hong Kong all’Iran o al
Canada, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli episodi di contro-logistica
e si è al contempo amplificata la loro efficacia. Dai blocchi della
circolazione urbana anche durante la pandemia, agli episodi di scioperi dei
portuali o dei facchini, questi lavoratori/ici e abitanti urbani si sono
(ri)scoperti essenziali in periodi di lock down da Covid-19: la logistica oggi
è ben lontana dal “sogno” di raggiungere una circolazione liscia e senza
interruzioni di sorta. La contro-logistica impone alle grandi compagnie sonni
meno tranquilli.
III° riquadro: Le soggettività algoritmiche
Sullo sfondo
del nostro discorso abbiamo finora fatto leva su un assunto, ovvero che il
capitale non sia una cosa o uno status, ma un rapporto sociale che
si articola all’incrocio fra dispositivi di assoggettamento e pratiche di
soggettivazione, dominio e sabotaggio, potere e resistenze. Abbiamo anche
insistito sul carattere logistico e digitale del capitalismo contemporaneo.
Questo non solo significa che le lotte di classe contemporanee sono
inevitabilmente segnate dalla centralità della circolazione e della rete; ma
implica anche il fatto che le soggettività prodotte all’interno dei rapporti
sociali di un capitale logistico e digitalizzato non possano che essere
soggettività algoritmiche. Il potere degli algoritmi, infatti, è innanzitutto un
potere governamentale, produce delle condotte, plasma delle forme di vita
tramite applicazioni, protocolli, standard. Quali sono oggi queste
soggettività? Durante la nostra ricerca abbiamo iniziato a tratteggiare un
quadro variegato, molteplice, frammentato di queste figure del capitalismo
contemporaneo mutuando alcuni concetti da altre traiettorie del pensiero
critico – ad esempio il cyborg – e raccogliendo nuove nominazioni sorte
recentemente – i tangpinger, i nomadi digitali, i cyberflaneur.
L’elemento della
soggettività, a nostro avviso, costituisce uno dei punti fondamentali dello
sviluppo di un capitale logistico e digitalizzato per due motivi. Il primo ha a
che fare con le dinamiche di valorizzazione. Oggigiorno i processi di
riproduzione sociale sono sempre più al centro di una nuova accumulazione, le
piattaforme si nutrono della cooperazione sociale – affettiva, comunicativa,
produttiva – sviluppata dalle soggettività algoritmiche. Senza i dati prodotti
dalle nostre interazioni non ci sarebbe gestione delle supply chain né profitto
per molte aziende digitali. Inoltre – e qui veniamo al secondo punto – le
soggettività algoritmiche non sono plasmate una volta per tutte ma evolvono, si
sovrappongono, confliggono tra loro. L’imprenditore urbano che sogna di
arricchirsi tramite Airbnb può rapidamente trasformarsi in un operaio sociale
che a causa della pandemia inforca una bici e effettua consegne con Deliveroo.
La costruzione delle soggettività algoritmiche è dunque punto di scontro
politico ed economico fondamentale per la riproduzione stessa del capitale.
IV° riquadro: Nuovi territori
Un mondo
fluido, liscio, che circola veloce come il denaro. Che assume le forme di un
piano digitale, in cui si possono comandare operazioni just in time and to the point.
In cui in maniera incessante, senza interruzioni, si definiscono circuiti che
fanno scorrere valore intrecciando grandi miniere e zone di estrazione di
materie prime in aree apparentemente “vuote” e isolate fino ad arrivare a
consegnare a domicilio, nei cuori metropolitani, le merci prodotte
dall’assemblaggio di tali materie prime con una variegata galassia di forme di
forza-lavoro e di macchine sparse per il globo. Tra una zona di produzione del
litio nei deserti delle saliere del Cile e la trasformazione di questo pregiato
materiale e una persona che guida una Tesla nel centro di Londra, auto
elettrica che necessita del litio per funzionare, intercorre una miriade di
passaggi. Si devono attraversare oceani in navi porta-container, laboratori di
trasformazione della materia prima, industrie, centri di programmazione high
tech, porti, interporti, rimesse, immensi magazzini, uffici finanziari, e
mille altri ancora. Il capitalismo contemporaneo mira a produrre spazi a
propria immagine e somiglianza in una dimensione globale e interconnessa
dall’infinita complessità. Nuove spazialità che assemblano forme “arcaiche” e
ad alto consumo di risorse naturali e corpi, con forme iper-tecnologiche, senza
soluzione di continuità.
Da un lato
abbiamo dunque questi paesaggi emergenti, disegnati digitalmente e legati e
governati tramite algoritmi e big data. Dall’altro però questa disseminazione e
proliferazione di spazio-tempi si definisce anche attraverso la moltiplicazione
di vecchie e nuove cartografie del conflitto sociale. Il processo di
rivolta di un movimento come quello dei gilet jaunes non
è emerso né a Parigi né in altre grandi città, e neppure dalle periferie o dai
suburbi che le circondando. La scintilla e una grossa parte della composizione
sociale dei gilet jaunes è piuttosto una popolazione che
abita gli spazi urbani automobilizzati, gli ex-urbi, le grandi zone di impiego,
i distretti dello shopping e dei centri commerciali, collocate al margine e tra
le grandi centralità urbane. Una forma di azione politica suburbana, ex-urbana,
o periurbana che dir si voglia, che si configura come novità assoluta per
questi luoghi prodotti dalla grande neoliberalizzazione del territorio che ha
caratterizzato Europa e Stati Uniti negli ultimi decenni. A questi nuovi
territori del conflitto si legano lotte indigene e contro grandi opere come
quelle contro piani estrattivisti in Amazzonia, contro infrastrutture come
Standing Rock negli Usa o in Canada, scioperi inediti in magazzini periferici
di Amazon sparsi per il globo. La territorialità planetaria emergente è insomma
una sequenza di luoghi in tensione.
Sipario
Chissà se
Geminiano Montanari avrebbe mai potuto immaginare il mondo contemporaneo, pur a
partire dalle sue peregrinazioni e intuizioni che danno il segno di come alcuni
processi che oggi viviamo abbiano una lunga provenienza storica. Una lunga
storia, segnata però da continue rotture e cambi di direzione. Ci pare di poter
dire che oggi proprio su queste ultime sia necessario lavorare, in un contesto
globale in cui la stessa parola “crisi” non regge più, laddove in pochissimi
anni si sono condensate crisi finanziarie, ecologiche, belliche, pandemiche,
energetiche, del sistema internazionale, dei sistemi politici, etc. Viviamo un
mondo in tensione che necessita di una continua ricerca di chiavi politiche e
interpretative per essere compreso e sfidato. Con questo libro speriamo di
riuscire a dare un piccolo e parzialissimo contributo in questa direzione,
presentando alcune tappe del nostro lavoro di ricerca e invitando a scomporlo e
rilanciarlo in un montaggio necessariamente collettivo. Qui abbiamo presentato
alcune scelte, svoltesi il 22 gennaio 2018, il 16 marzo 2019, il 27 novembre
2020 e il 29 luglio 2021, che ripercorrono le mobilitazioni dei rider (emblema
delle lotte nel capitalismo di piattaforma), la mobilitazione spuria dei gilet jaunes,
il mondo di Amazon, e la logistica globale. Alcuni dei vettori che riteniamo
strategici per gli anni a venire. E abbiamo proposto alcuni riquadri che
attorno alle concettualizzazioni di frontiere del conflitto, contro-logistica,
soggettività algoritmiche e nuovi territori provano a indicare una serie di
possibili impostazioni politiche per approfondire il modo in cui i precedenti
vettori possono comporsi.
Abbiamo,
come già detto, volutamente lasciato a chi ci leggerà la possibilità di
lavorare con questi strumenti e materiali grezzi per costruire nuovi montaggi e
lanciare più avanti una capacità critica di interpretazione e intervento sul
nostro presente. Con questo si chiude il sipario di questa lunga introduzione
al volume e vi lasciamo con le 14 puntate che ne compongono la struttura.
Buona
lettura e buon lavoro di montaggio!
Into The Black Box, Le frontiere del capitale, red
star press, 2022
* Into the Black Box (www.intotheblackbox.com) è
un percorso di ricerca politica nato a partire da differenti forme di
conricerca nelle lotte logistiche del nord Italia. Nel tempo l’orizzonte del
collettivo si è ampliato focalizzandosi sull’intreccio tra logistica,
trasformazioni spaziali e mutazioni del lavoro. Negli ultimi anni
l’attenzione si è concentrata in particolare sulle nuove tecnologie e la
rivoluzione industriale 4.0, intessendo studi teorici e inchieste. La
prospettiva di Into the Black Box mira ad analizzare in modo congiunto le
trasformazioni capitalistiche e le soggettività che ivi confliggono.
Nel 2021, Into the Black Box ha curato il libro Capitalismo 4.0.
Genealogia della rivoluzione digitale.
Note
1 Ci riferiamo a S. Mezzadra, B. Neilson, Confi e frontiere, Bologna,
il Mulino, 2015.
2 S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfrut- tamento ed estrazione,
Roma, manifestolibri, 2020, p. 58.
3 N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalism. A Conversation in critical Th y,
Polity Press, 2018, p. 54.
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