Personalmente credo che la regola da adottare verso circenses lobotomici come il cosiddetto “festival della canzone italiana” sia tacerne. Anche parlarne male, nel meccanismo mediatico odierno, significa farlo diventare qualcosa di significativo.
Ma posto che il fuoco di artiglieria su questa grande operazione di distrazione e indottrinamento è comunque massivo, forse ci possiamo permettere una considerazione di cornice, che non nobiliti nessuno dei penosi dettagli della kermesse citandoli.
La prima osservazione da fare riguarda un meccanismo mentale, invalso a partire dagli anni ’80 con l’ingresso nelle vite degli italiani della televisione commerciale. Chiamiamolo l’argomento del “populismo delle élite”. Questo argomento scatta in presenza di critiche e contumelie espresse verso questi circenses, denunciandole come manifestazioni di elitarismo, lontane dal sentire del popolo.
È da quando ho memoria che sento usare questo argomento a molla, per cui se auspichi che qualcuno legga un classico della letteratura piuttosto che la finta autobiografia di un calciatore di successo, che ascolti buona musica invece di spazzatura commerciale, che apprezzi la differenza tra cinematografia di qualità (o, dio non voglia, buon teatro di prosa) rispetto all’ultimo video autopromozionale dell’influencer di turno, se fai questo gesto ti vedi rinfacciare di essere elitista, di non essere in sintonia con il gusto popolare, ecc.
Ed è così che, anno dopo anno, iterazione dopo iterazione di questa scemenza, si è arrivati al fondo del barile, iniziando gaiamente a scavare. Per rendere l’idea, nel mio anno di nascita (1967) il film per ragazzi campione di incassi era “Il libro della giungla” (Disney), oggi è “Me contro Te”.
Il problema dell’argomento del “populismo delle élite” è che è una falsità esiziale che si nutre di un fraintendimento.
Il fraintendimento è che si fa credere che tenere alti i criteri di qualità significhi prediligere dei generi “alti” rispetto ad altri generi. Ma questo è un modo di calciare la palla in tribuna. Non ha senso contrapporre, chessoio, la musica classica al rock, il teatro al cinema, la letteratura entrata nelle antologie a quella contemporanea, ecc. È del tutto ovvio che si trova alta e bassa qualità trasversalmente ad ogni genere, (oddio, per la Trap rimane un’ipotesi da dimostrare, ma diciamo in generale.)
C’è della “musica seria” contemporanea che è solo boriosa trasposizione in pubblico di un’officina di sperimentazione autoreferenziale che ha bisogno dei sottotitoli per significare alcunché, e c’è musica pop che ha prodotto capolavori.
La falsità (e nocività) in questo argomento sta nel fatto che il “gusto popolare” non è una realtà fissa e intrinsecamente scadente. La letteratura popolare ha creato miti profondi e leggende eterne, la musica popolare ha prodotto danze, canti e cori straordinari, una miniera tutt’oggi saccheggiata per estrarre cellule armoniche, melodiche e ritmiche. Il gusto popolare non è una realtà stabile: cresce o decresce, matura o degenera. E la prima forma per qualificare, educare, far maturare le qualità cognitive e la sensibilità pubblica è esporre le persone ad opere di qualità. (Ed ora, per piacere, risparmiatemi gli zebedei dai colpi di “e-chi-lo-dice-che-quella-è-qualità-è-qualità-per-te-non-per-me-il mio-idolo-è-bombolo”).
La scelta di cercare e proporre il livello più basso possibile ponendolo come “naturalmente popolare” è una scelta specifica, una scelta di politica culturale che produce una sistematica degenerazione delle anime. L’abbrutimento del mondo è in effetti la prima condizione per far accettare alla gente tutto il resto: l’arte e la letteratura di qualità consentono alle persone di esplorare modi di sentire e di vedere più perspicui, di percepire la possibilità di forme di vita superiori. Ma guai a lasciar vedere agli schiavi che lavorano nelle viscere della terra la luce del sole, perché potrebbero non voler più rientrare nel fango e nelle tenebre.
La cosiddetta “cultura popolare” odierna non è affatto popolare, non ha niente di spontaneo e non ha nulla a che vedere con una produzione “dal basso”. Si tratta di produzione industriale seriale, fatta cadere dall’alto da multinazionali dell’intrattenimento, che simultaneamente costruiscono personaggetti spendibili nelle proprie “pubblicità progresso”, personaggi su cui gli schiavi possono proiettarsi e trovare conferma che sono “nel posto giusto” e, soprattutto, che “non vi sono alternative”.
Le linee direttive di fondo che guidano l’intrattenimento per il bestiame di riferimento sono tre: bisogna comunicare che “è tutto a posto così com’è”, bisogna garantire che “ci stiamo già prendendo cura dei più alti ideali”, e bisogna far balenare l’idea che “c’è spazio per la spontaneità e per la massima libertà”.
Per fare qualche esempio con riferimenti puramente casuali a cose e persone. Monologhi piacioni da parte di qualche giullare di regime che spiegano la bellezza di una costituzione che viene straziata tre volte al dì nelle forme più spudorate servono a comunicare l’idea che “è tutto a posto” e che “abbiamo a cuore i più alti ideali”. In un paese che ha massacrato senza ritegno il diritto al lavoro, il diritto alla salute, la libertà di insegnamento, la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà terapeutica e che chiama le guerre cui partecipa incostituzionalmente da decenni “azioni di pace”, è necessario che qualcuno metta in campo di quando in quando una sviolinata falsa come Giuda sulla “Costituzione più bella del mondo”.
Similmente il florilegio di libertà in scatola, di trasgressioncelle a cottimo in cui si esibiscono “artisti” fatti a macchina è il modo in cui si rassicura il gregge intorno all’esistenza di spazi di spontaneità e di tolleranza. C’è quello che per l’ennesima volta, stancamente, spacca una chitarra, quello che si presenta in reggicalze, quella che recita in finto nudo, ecc. ecc. infinite spossate ripetizioni di simulacri di libertà, conformismo dell’anticonformismo.
L’intrattenimento è da almeno mezzo secolo - lo notava già Günther Anders – la forma primaria di indottrinamento e conformazione. Da tempo si sa che l’indottrinamento attraverso l’asserzione diretta produce resistenza. Invece l’intrattenimento produce i suoi effetti scivolando negli interstizi dell’attenzione, nella forma dell’implicito, dello sfondo, del collaterale.
L’odierno intrattenimento è un’operazione non semplicemente di rincoglionimento (è anche questo naturalmente), ma soprattutto è un’operazione sistematica di castrazione mentale. L’intero spettro dei luoghi dove si può e si deve “lottare” viene spostato in aree protette, innocue per chi detiene il potere, dove la plebe dedica gli ultimi ritagli di mente, tra una corvè e l’altra, alla rivendicazione di diritti sott’olio e libertà sponsorizzate.
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