Su una pessima campagna di comunicazione dell’Istituto Parri di Bologna
L’Istituto storico Parri – Bologna Metropolitana, dal giugno 2020
presieduto dall’ex-sindaco di Bologna Virginio Merola*, compie
sessant’anni. La settimana scorsa si è tenuto l’evento inaugurale delle
celebrazioni, ospiti Lodo Guenzi e Bebo Guidetti de Lo Stato Sociale.
Nei giorni successivi sui muri di Bologna è apparsa una serie di manifesti
dedicati alle sei decadi vissute dall’Istituto.
A ogni decennio corrisponde un’immagine corredata di titolo e slogan. Un
paio di esempi: «1983-1993. Muri & Pupe. Reganismi [sic, col refuso],
comunismi, edonismi»; «2003 – 2013. Social/ismi. Viva Marx, Viva Lenin, Viva
Zuckerberg!».
Il manifesto dedicato al decennio 1973 – 1983 si intitola «NeroFumo». La
scritta ha un carattere vagamente gotico e si staglia su volute di fumo denso.
Lo slogan è: «Detestabili quegli anni»**.
Va bene che siamo a Bologna, che nel 1974 c’è stato l’attentato al treno
Italicus e nel 1980 la strage alla stazione, ma che senso ha appioppare a
un intero decennio un’etichetta così?
Parliamo del decennio in cui si vinse la battaglia sul divorzio (1974)
e si conquistarono: la scala mobile per i salari dei
lavoratori (1975); il nuovo diritto di famiglia (1975);
i consultori familiari pubblici (1975); la legge sulla parità
nel lavoro tra uomini e donne (1977); l’equo canone sugli
affitti (1978); il diritto all’aborto (1978); libertà e dignità per
i sofferenti psichici (legge Basaglia, 1978); il servizio
sanitario nazionale (ancora 1978)… E se consideriamo il decennio tondo,
ovvero gli anni Settanta, vanno inclusi lo Statuto dei lavoratori (1970),
la legge a tutela delle lavoratrici madri (1971), la legge
sull’obiezione di coscienza (1972) e svariate altre riforme sociali
che seguirono le lotte dell’Autunno caldo. Per non dire del grandissimo
fermento artistico, culturale, civile, in quasi tutti gli ambiti e settori.
Se restringiamo il focus sulla Bologna di quegli anni, vediamo all’opera un
vasto, ineguagliato laboratorio culturale: è l’epoca d’oro del Dams (fondato
nel 1971), in cui insegnano Umberto Eco, Gianni Celati, Giuliano
Scabia e molti altri intellettuali di grande spessore; l’etere è
crepitante di radio libere, la più nota delle quali è Radio Alice;
tra Radio Alice e la Traumfabrik di via Clavature muovono i
primi, decisivi passi artisti destinati a lasciare il segno, basti ricordare,
per il fumetto, Andrea Pazienza e Filippo Scòzzari;
in città c’è un proliferare di riviste e fogli autoprodotti, da A/Traverso alle
numerose testate di poesia stampate in proprio da Roberto Roversi;
suonano e incidono band come Skiantos e Gaznevada,
e Bologna è fin da subito una capitale del punk, con nomi come Raf Punk, Nabat e
molti altri, tanto che proprio al punk pensa l’amministrazione comunale quando,
volendo “ricucire” col mondo giovanile dopo la traumatica frattura del ’77,
invita i Clash a suonare gratis in Piazza Maggiore (1 giugno
1980). È una lista ovviamente lacunosa, l’abbiamo compilata in un baleno, off
the top of our heads.
Questo per quanto riguarda la cultura e la società civile. Sul versante
dell’amministrazione, delle politiche locali, sono gli anni del grande recupero
del centro storico concepito da Pierluigi Cervellati; gli
anni in cui vengono istituiti i poliambulatori di quartiere (1973);
in cui vengono municipalizzati grandi spazi verdi come Villa
Ghigi (1974) e, a Casalecchio, il Parco Talon (1975); in cui vengono
introdotte fasce orarie gratuite sugli autobus per aiutare
studenti e lavoratori (1973) ecc.
Sono dati incontrovertibili. Stanno dentro una grande stagione che le lotte
di massa fanno vivere al paese. Non sono merito di virtù specificamente
bolognesi, né specificamente dei partiti che amministrano città, provincia e
regione (PCI e PSI), che spesso sono spinti ad agire da contraddizioni di cui
in prima battuta non s’erano accorti.
La sinistra di governo bolognese, di cui Merola è un esponente di spicco,
ricordando quegli anni – cosa che ha fatto sempre meno e ormai non fa quasi più
– era solita celebrare quel «modello». Anche a involontario detrimento del
proprio non esaltante presente.
Ora l’Istituto Parri, il cui compito è fare storia, se ne esce con una
campagna di comunicazione in cui definisce quegli anni tout court «detestabili»
, riproponendo il vieto cliché che si impose in Italia con la sconfitta dei
movimenti, con il “riflusso”, con il progressivo deperire delle sinistre:
quello di un decennio cupo, fatto solamente di odio politico e violenza, di strategia
della tensione e trame eversive.
Quella strategia e quelle trame furono la reazione – in
senso lato e in senso stretto – a tutto quanto abbiamo descritto sopra. Proprio
perché si trattò principalmente di un decennio di grandi
conquiste sociali e grande fermento creativo, qualcuno pensò di ricorrere a
quel fumo nero.
A ciascun manifesto corrisponde, sul sito del Parri, una pagina di (relativo) approfondimento, che però non è
linkata sul manifesto, né URL né QR code. Va cercata apposta.
La stragrande maggioranza della gente non la consulterà, mentre il poster è
sotto gli occhi di chiunque. In ogni caso, in quella pagina il rapporto tra
vivacità dei tempi e durezza della reazione appare come rovesciato. Solamente
dopo una lunghissima carrellata di tragedie, crisi, golpe, attentati, stragi ed
eventi-chiave dei «detestabili anni di piombo» (sic)***, si concede che quella
fu anche «la stagione dei grandi diritti civili» e si elencano alcune riforme
dell’epoca. Dopodiché si conclude sbrigativamente con il ’77 e le morti
di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi.
Ma se fu «la stagione dei grandi diritti civili» (e non solo), perché farla
sparire dietro al nero fumo e all’epiteto di «detestabile»?
Da qualche anno il Parri dedica molte energie alla promozione della
cosiddetta «Public History». Secondo la definizione della Treccani, «attività
di ricerca, svolta sia al di fuori sia all’interno dell’ambito universitario,
[…] rivolta, attraverso diversi mezzi e occasioni di comunicazione, a un vasto
pubblico, con finalità divulgative». Lungo questa via, l’istituto ha alternato
iniziative apprezzabili con qualche grosso scivolone – ed è un eufemismo – come
il progetto di museo sul fascismo nell’ex-Casa del Fascio di Predappio.
Ebbene, confermare gli stereotipi è un pessimo esempio di
Public History.
Se il decennio 1983 – 1993 lo riassumi con «Muri & pupe» (!) e quello
1973 – 1983 lo esemplifichi col fumo delle bombe, cosa mi stai dicendo di
diverso, di interessante o anche solo di storico? Confermi un
cliché e basta, per giunta in un momento in cui governo nazionale e media
compiacenti, facendo leva anche su quel cliché, mettono in scena il revival della «fermezza» e dell’«Emergenza», rispolverando
la «minaccia anarchica» e l’«allarme terrorismo».
Se facessimo «storia pubblica» allo stesso modo, cosa diremmo del decennio
“meroliano”, 2011 – 2021?
Negli anni in cui Merola è sindaco – e il futuro sindaco Matteo Lepore è
assessore a cultura, turismo, «immaginazione civica», «marketing urbano» ecc. –
Bologna diventa una città sempre più gentrificata e cementificata,
sempre più a misura di un turismo mordi-e-fuggi, consegnata dalla
sua classe dirigente a Ryanair, AirB&B e
all’incultura del «food», mentre gli affitti diventano proibitivi,
le occupazioni abitative e gli spazi sociali subiscono sgomberi
polizieschi a tappeto e a chi rimane senza casa si commina il «Daspo
urbano». Nel mentre, si tirano fuori dal cilindro — con grandissimo
dispendio di danari pubblici – grandi opere tanto impattanti quanto inutili,
come il People Mover e – ben peggiore – il Passante di Mezzo. E quanto a «immaginazione al potere»,
sono gli anni in cui si inaugura e si cerca di pompare in ogni modo un
non-luogo come FICO, uno dei più grandi flop di cui si abbia
memoria. Anche quest’elenco è, ovviamente, lacunoso.
Si può dire «detestabili quegli anni»?
NOTE
* In realtà, quand’è diventato
presidente Merola era ancora sindaco. Il doppio incarico fu oggetto di polemica politica. Già che ci siamo:
l’Istituto Parri di Bologna non va confuso con l’Istituto nazionale Ferruccio Parri.
** Trasparente l’intento polemico nei
confronti di Mario Capanna, che nel ventennale del ’68 pubblicò un libro
intitolato Formidabili quegli anni.
*** Ricordiamo che la formula «anni di
piombo» durante gli anni Settanta non fu mai utilizzata.
Deriva dal titolo italiano del film di Margarethe von Trotta Die
bleierne Zeit [Il tempo plumbeo], che arrivò nelle sale italiane alla fine
del 1981. Benché «tempo plumbeo» fosse riferito ai tardi anni Settanta in
Germania, e non solo al piombo dei proiettili ma all’atmosfera di repressione
che si respirava, «anni di piombo» fu applicato retrospettivamente agli anni
Settanta italiani, banalizzandone il ricordo, e il piombo rimase solo quello
dei proiettili, soprattutto se sparati da BR e Prima Linea.
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