La mutazione antropologica dell’umanità - Gianluca Cicinelli
Per un periodo l’informazione italiana
dedicò molta attenzione ai detenuti di origine italiana che negli Usa erano a
poche ore dall’esecuzione. Con dei veri e propri countdown nelle piazze, dove
si attendeva un provvedimento di clemenza che non arrivò mai. Ricordo il caso
di Joseph O’Dell in particolare, ma furono molte le mobilitazioni tra il ’96 e
il ’98. Era un periodo in cui se rifiutavi di essere bestia come chi ammazza
non ti davano del mafioso.
Gli Usa erano molto irritati, la
considerarono un’ingerenza nei loro affari interni, soprattutto non accettavano
che la campagna contro la pena di morte prescindesse dalla colpevolezza o meno
della persona condannata. Era un secolo fa, letteralmente, partecipavano
dall’attore famoso, Vittorio Gassman, al sindaco che aveva dato la cittadinanza
a O’Dell, Leoluca Orlando, persino Lorella Cuccarini e Vittorio Cecchi Gori
parteciparono attivamente.
Alfredo Cospito sta morendo in carcere al
41 bis. Per sua scelta, sottolinea sia chi spera che muoia sia chi non accetta
che lo Stato non tuteli un cittadino sotto la sua custodia. Aggrapparsi alla
sua scelta per giustificare l’indifferenza verso una persona che muore è
un’operazione degna della malizia di un gesuita.
Ma mentre tutti vedono la morte di
Cospito legata al suo sciopero della fame, la realtà è che la morte corporea di
Cospito e di chi sconta la pena in regime di 41 bis è l’ultima a venire. Prima
viene la morte di tutto il resto, la morte corporea è quasi una liberazione
dalla tortura, l’ultima evasione possibile.
Se incontriamo un tizio che non
conosciamo sul bordo di un cornicione mentre minaccia di buttarsi di sotto
cerchiamo d’impedirglielo, non stiamo a interrogarci se, tutto sommato, è una
sua scelta e fa bene a buttarsi. E’ questo l’elemento minimo di umanità che è
venuto meno. E chi non lo vuole vedere perchè Cospito è cattivo e spara alla
gente non fa un ragionamento diverso da Cospito. Se si capisse questo non si
avrebbe paura di passare per mafiosi perchè si cerca di dare un senso alla vita
umana, anche a quella dei detenuti.
Ed ecco quindi che anzichè per una volta
rivendicare orgogliosamente di aver compiuto un gesto umano, rivolgendo la
parola a dei pluriassassini chiusi individualmente in una cella tre metri per
due, i deputati del Pd andati in carcere a trovare Cospito devono difendersi
dall’accusa di essere amici dei mafiosi. Hanno fatto quello che andava fatto,
anche se su sollecitazione di Cospito. Ormai chiedere “come stai?” a un
detenuto in isolamento permanente è sinonimo di collusione con la mafia.
Come si vede, da qualsiasi parte si
valuti il problema, i tempi li detta Alfredo Cospito. E’ lui che fa il digiuno,
è lui che stabilisce con chi parlare, è lui che fa litigare la maggioranza e la
finta opposizione. Peccato che spari alla gente, perchè politica indubbiamente
la sa fare, a differenza del circo che gli si è scatenato intorno.
Inserire quindi l’aspetto umanitario
nella questione Cospito significa innanzitutto rovesciare il tavolo da gioco e
spezzare la costruzione dalle fondamenta. Perchè il primo punto da affrontare
in ordine di importanza è che Cospito non deve stare al 41 bis per la stessa
natura dei suoi reati, ovvero è per legge che Cospito non deve stare al 41 bis.
Separare questo aspetto dalla battaglia per l’abolizione del 41 bis dovrebbe
essere prioritario.
https://diogeneonline.info/la-mutazione-antropologica-dellumanita/
Poi arriva la questione del 41 bis. Per
non essere bannati in società bisogna dire che sì, va bene per i mafiosi, e
senza non se ne può fare a meno. Invece non va bene per niente nemmeno per i
mafiosi. Perchè oltre a violare il principio che impedisce la tortura, su cui
l’Italia è stata già condannata più volte dalla Corte Europea, non ha certo
abolito la mafia. Certo, il consiglio d’amministrazione di una società che
fattura decine di milioni di euro non fa paura come un analfabeta di Corleone
con il tritolo in mano, ma compie danni sociali analoghi.
Le mafie prosperano, dilagano, sono
inserite nella nostra vita quotidiana dal rinnovo di un documento
all’assunzione di un aspirante lavoratore, sono presenti nelle imprese che
effettuano lavori pubblici per lo Stato, tolgono futuro ai giovani, decidono
gli assessori nei comuni. E quindi? E quindi mentre la mafia ha vinto ovunque,
e chi sostiene il contrario mente sapendo di mentire, per dire che è stata
sconfitta ci serve il simulacro del 41 bis.
Quell’attenzione del secolo scorso che
ricordavamo prima verso la vita umana non c’è più. Oggi non puoi dire al
popolino monopolizzato dai Travaglio e dai Gratteri (il caso Pittelli sta lì in
tutta la sua gravità a dimostrare la differenza tra l’accusa e l’esito del
processo) che la mafia non si trova isolata al 41 bis ma guida l’intero sistema
economico e finanziario italiano. Semmai ci sono lievi tracce di legalità, ogni
tanto, nel sistema, di persone che pagano prezzi altissimi per contrastare
violenza e sopraffazione del mercato in cui prospera la mafia.
Ma l’elemento antropologico che resterà
nei prossimi anni del caso Cospito è la totale mancanza di umanità messa in
atto dalla quasi totalità della popolazione italiana. E’ già accaduto con i
migranti morti in mare, accade con i senzatetto che crepano di freddo, che vuoi
che sia se crepano dopo decenni di deprivazione sensoriale i detenuti che sono
pure cattivi.
Il “caso Cospito”: sciopero della fame, 41 bis ed ergastolo ostativo - Livio Pepino
La vicenda
dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il regime del 41 bis cui
è sottoposto e contro l’ergastolo ostativo è diventata il crocevia di una serie
di problemi, di ipocrisie e di non detti. C’è chi se ne stupisce e critica la
gestione mediatica del caso e la commistione, in essa, di profili diversi ed
eterogenei. A torto ché accade da sempre, nella grande e nella piccola storia,
e ci sono addirittura leggi dello Stato (a cominciare dalla n. 773 del 15
dicembre 1972, nota come legge Valpreda) tuttora citate con il nome di persone
coinvolte nella vicenda che vi ha dato origine. Questa volta i temi implicati
sono una morte evitabile che nessuno – a livello istituzionale – vuole
scongiurare, la realtà del trattamento carcerario previsto dall’art. 41 bis ordinamento
penitenziario e quella dell’ergastolo ostativo, entrambe oggetto di ripetuti (e
ignorati) interventi della Corte costituzionale. Per questo è utile, anche a
futura memoria, mettere a fuoco i punti fondamentali della vicenda (a
integrazione delle analisi già svolte su questo sito: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/11/25/morire-di-41-bis/; https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/01/07/alfredo-cospito-non-deve-morire/; https://volerelaluna.it/commenti/2023/01/28/se-cento-giorni-vi-sembran-pochi/; https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/02/02/cospito-restare-umani/).
È bene cominciare
chiarendo di cosa si parla.
Primo. Alfredo Cospito è detenuto dal 13
settembre 2012 in esecuzione di una condanna definitiva a 10 anni e 8 mesi di
reclusione per la gambizzazione dell’amministratore delegato
di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi commessa in Genova il 7 maggio 2012 e di
una condanna a 20 anni di reclusione inflittagli dalla Corte di assise
d’appello di Torino per costituzione e organizzazione di una associazione con
finalità di terrorismo ed eversione (denominata FAI-Federazione Anarchica
Informale) e per una pluralità di attentati commessi tra l’ottobre 2005 e il marzo
2007, uno dei quali (contro la Scuola Allievi carabinieri di Fossano avvenuto
la notte sul 3 giugno 2006) ancora sub iudice quanto alla
determinazione della pena, avendo la Cassazione riqualificato il fatto come
strage contro la sicurezza dello Stato ex art. 285 codice penale, per cui è
previsto l’ergastolo (che avrebbe, in concreto, carattere ostativo). Fino al 4
maggio 2022 (e, dunque, per oltre nove anni) Cospito è stato detenuto in
circuiti penitenziari ordinari e, poi, di Alta Sicurezza 2, godendo, peraltro,
sempre del trattamento penitenziario ordinario. Il 4 maggio, poi, pur senza
fatti nuovi – almeno stando al decreto applicativo – è stato sottoposto al
regime di cui all’articolo 41 bis ordinamento penitenziario
con le connesse restrizioni in punto sistemazione, socialità, corrispondenza e
rapporti con l’esterno. Contro questa situazione (e il connesso sistema
normativo) il 20 ottobre 2022 Cospito ha intrapreso uno sciopero della fame che
dura tuttora, con perdita ponderale di oltre 45 kg e gravi problemi fisici che
il 30 gennaio scorso ne hanno determinato il trasferimento, pur nel permanere
del regime ex 41 bis, nel carcere di Milano Opera dove esiste un
centro clinico attrezzato. Attualmente è pendente un’istanza di revoca del
41 bis presentata dalla difesa sulla quale il termine per
provvedere da parte del ministro della giustizia scade l’11 febbraio. Il 24
febbraio è inoltre fissata in Cassazione l’udienza per la decisione sul ricorso
contro il decreto del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha confermato il
regime del 41 bis.
Secondo. Il regime carcerario previsto
dall’art. 41 bis, comma 2, ordinamento penitenziario, introdotto
subito dopo l’attentato di Capaci con il decreto legge 8 giugno 1992 n. 306 per
impedire ai boss mafiosi di continuare a dirigere dal carcere le associazioni
di appartenenza, è stato oggetto di successive modifiche che lo hanno reso
stabile (mentre originariamente aveva una efficacia temporale limitata a tre
anni), applicabile anche alle associazioni terroristiche o eversive e
maggiormente dettagliato nelle prescrizioni. Nei confronti di chi vi è
sottoposto sono sospese le modalità ordinarie del trattamento penitenziario e
sono introdotte forti limitazioni di movimento, nei rapporti interni ed esterni
e nella fruizione di diritti e libertà. Tali limitazioni sono previste dalla
legge (art. 41 bis, comma 2 quater) e da numerose
circolari dell’Amministrazione penitenziaria che variano nel tempo. In
particolare i detenuti al 41 bis devono essere ristretti in
istituti a loro specificamente dedicati e custoditi da reparti specializzati
della polizia penitenziaria, sono soggetti a misure di elevata sicurezza
interna ed esterna (con divieto di contatti e interazioni con altri
detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre
ad essa alleate o contrapposte), devono essere alloggiati in celle singole e
non possono accedere a spazi comuni, godono della cosiddetta ora
d’aria in gruppi non superiori a quattro persone e per non più di due ore al giorno,
non possono scambiare oggetti con altri detenuti e possono cuocere cibi solo
con le limitazioni e gli orari stabiliti dall’amministrazione, possono
usufruire di un solo colloquio al mese videoregistrato e da svolgersi in locali
attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, non possono avere
colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi (salvo casi eccezionali
determinati volta per volta dal direttore dell’istituto o dall’autorità
giudiziaria), possono essere autorizzati – in caso di assenza di colloqui – a
una telefonata mensile con familiari o conviventi non superiore a 10 minuti e
sottoposta a registrazione, sono sottoposti a censura della corrispondenza sia
in entrata che in uscita, possono ricevere denaro od oggetti dall’esterno in
misura limitata e con le sole modalità stabilite dal direttore. A queste
limitazioni, stabilite dalla legge, si aggiungono quelle inerenti le
caratteristiche dei locali di detenzione, spesso di dimensioni ridotte, senza
vista sull’esterno e privi di attrezzature di sorta e quelle stabilite
dalle circolari e dalle disposizioni del direttore dell’istituto (a volte ancor
più invasive) che regolamentano ogni situazione e attività della vita
quotidiana stabilendo limitazioni infinite, per esempio, alla possibilità di tenere
con sé fotografie dei familiari, libri, giornali, computer, apparecchi radio e
via elencando all’infinito. Secondo i dati del Ministero della giustizia,
risalenti all’ottobre 2022, i detenuti in regime di 41 bis sono
728.
Terzo. L’art. 27, comma 3 Costituzione
prevede, come noto, che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari
al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In
attuazione di tale principio, nel nostro sistema, anche la pena dell’ergastolo
può terminare anticipatamente, dopo 26 anni, qualora il condannato «durante il
tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far
ritenere sicuro il suo ravvedimento». Non solo, ma, in caso di positiva
partecipazione alle attività di trattamento e ove vi siano le condizioni
per un reinserimento nella vita sociale, lo stesso può usufruire, durante
l’esecuzione della pena, di consistenti benefici (dai permessi premio alla
semilibertà). L’art. 4 bis ordinamento penitenziario,
peraltro, esclude l’applicabilità di tali disposizioni ai condannati per
delitti di mafia o commessi per finalità di terrorismo o di eversione
dell’ordine democratico, i quali non possono, quindi, usufruire né della
liberazione anticipata né dei benefici penitenziari salvo che decidano di
collaborare con la giustizia. È il cosiddetto ergastolo ostativo destinato
a durare, senza eccezioni o attenuazioni, fino alla morte del condannato. Tale
situazione, in vigore sino allo scorso ottobre, è stata attenuata, dopo
ripetuti interventi della Corte costituzionale, dal decreto legge n.
162/2022, secondo cui il divieto anzidetto non opera qualora i condannati
«alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare
condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e
alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di
eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti
con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale
il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali
collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze
personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della
mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di
ogni altra informazione disponibile». Tale intervento legislativo ha
indubbiamente attenuato l’automatismo e la rigidità della disciplina precedente
ma ha lasciato al condannato l’onere (per lo più impraticabile) di dimostrare
la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata e, addirittura, del
pericolo di ripristino degli stessi. Secondo i dati del Garante nazionale delle
persone private della libertà personale i detenuti sottoposti all’ergastolo ostativo
sono attualmente 1259.
Dopo le
premesse è tempo di scendere nell’esame dei diversi aspetti della vicenda.
1. Il “caso Cospito” – è bene chiarirlo
subito per fugare i molti equivoci interessatamente diffusi – ha per oggetto la
sottoposizione dello stesso al regime di cui all’articolo 41 bis ordinamento
penitenziario, lo sciopero della fame da lui messo in atto e la risposta dello
Stato a tale forma di protesta. Non riguarda, invece, i reati da lui commessi
che sono stati oggetto di valutazione in diversi processi nei quali è stato
condannato a pene assai rilevanti, che sta scontando e per cui non ci sono
richieste di riduzione. Oggi non si tratta di fare nuovamente quella
valutazione ma solo di esaminare se ci sono le condizioni per sottoporlo al regime
del 41 bis e, in ogni caso, di decidere se deve essere
lasciato morire o se, comunque, la sua vita merita di essere salvata,
indipendentemente dai reati commessi, dalle sue convinzioni, dalla sua
ideologia.
I fatti su
cui si fonda l’applicazione dell’art. 41 bis nei confronti di
Cospito sono così riassunti nella parte conclusiva della motivazione del
decreto applicativo in data 4 maggio 2022, che fa seguito a una lunga disamina
della galassia anarchica e alla conclusione dell’esistenza, al suo interno, di
un’organizzazione strutturata (la Federazione Anarchica Informale): «Il seguito
di cui Cospito gode nell’ambiente anarco-insurrezionalista è grande, come
dimostra la circostanza che in moltissimi documenti di area si ribadisce la
vicinanza e la solidarietà ai compagni detenuti, e in particolare a Cospito, ed
il fatto che durante il processo “Scripta manent” siano stati organizzati
presìdi di solidarietà. Come evidenziato dalla richiesta della Procura lo
stesso, benché detenuto, è addirittura riuscito – pur in assenza di
autorizzazione – a rilasciare una serie di interviste che coprono un lungo arco
temporale o comunque a diffondere dal carcere il suo pensiero attraverso
scritti poi riportati nelle riviste di area anarcoinsurrezionalista. Cospito ha
dunque continuato a diffondere la sua ideologia violenta e le sue rabbiose
istigazioni a colpire “con le armi in pugno”, criticando aspramente i compagni
che rifiutano di aggredire le persone e si affidano esclusivamente ad un’azione
distruttiva delle “cose”. Si tratta di affermazioni che non si limitano al
proselitismo, ma rappresentano un’istigazione a riproporre la commissione di
delitti con finalità terroristiche, anche attraverso l’esaltazione degli
attentati commessi di militanti che operano all’esterno. Alla luce delle
complessive considerazioni che precedono si ritiene più che dimostrata
l’esistenza di significativi collegamenti tra il detenuto e l’associazione
terroristica all’esterno, e la sua capacità di mantenere collegamenti con la
stessa».
2. I presupposti generali per
l’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis ordinamento
penitenziario sono «la ricorrenza di gravi motivi di ordine e di
sicurezza pubblica», la condanna o la sottoposizione a un processo per delitti
di mafia o di terrorismo e l’esistenza di «elementi tali da far ritenere la
sussistenza di collegamenti [del detenuto] con un’associazione criminale,
terroristica o eversiva». In tali casi il Ministro della giustizia ha la
facoltà di «sospendere […] l’applicazione delle regole di trattamento e degli
istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto
con le esigenze di ordine e di sicurezza». Tale sospensione «comporta le
restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per
impedire i collegamenti con l’associazione» di appartenenza, «ha durata pari a
quattro anni ed è prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a due
anni». Il detenuto nei confronti del quale è stata disposta o prorogata
l’applicazione del regime in questione e il suo difensore possono proporre
reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma che, entro dieci giorni dal
ricevimento degli atti, decide «sulla sussistenza dei presupposti per
l’adozione del provvedimento». Contro tale decisione può essere proposto
ricorso per cassazione per violazione di legge.
3. L’applicazione del regime di
cui all’articolo 41 bis è un atto amministrativo. Data la sua
incidenza sulla libertà personale del destinatario, il decreto applicativo è
sottoposto al controllo dell’autorità giudiziaria ma ciò non ne muta la natura.
Come tutti gli atti amministrativi, dunque, esso può essere modificato o
revocato dall’autorità che lo ha emesso, e dunque dal ministro guardasigilli
che ne è il diretto ed esclusivo responsabile. Il ministro, prima della
decisione, deve richiedere i pareri della Direzione nazionale antimafia e delle
Procure competenti ma non è vincolato dal loro contenuto. Il potere del
ministro, inizialmente messo in dubbio da fonti ministeriali, non è stato in
alcun modo intaccato dall’art. 2, comma 25, lett. e della
legge n. 94 del 2009 che ha parzialmente riscritto l’art. 41 bis ordinamento
penitenziario, abrogandone, tra l’altro, il comma 2 ter in cui
era prevista una specifica disciplina della revoca, da parte del ministro, del
provvedimento applicativo della misura e delle possibilità di reclamo
dell’interessato. Ciò è pacifico tra gli interpreti [si veda, per tutti, F.
Della Casa e G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 5ª
ed., Cedam, 2015: «È evidente che, ove muti il quadro a carico del destinatario
(ad esempio per una scelta di collaborazione con la giustizia o perché muti il
suo status processuale) debba intervenire revoca, senza ovviamente attendere la
scadenza naturale del decreto ministeriale, rientrando la facoltà di revoca
nella disciplina generale degli atti amministrativi»] e in giurisprudenza
[cfr., per tutte, Cassazione, sezione 1, n. 18021, 25 febbraio 2011 che
richiama il principio generale dettato per il procedimento amministrativo
dall’art. 21 quinquies, comma 1, legge 7 agosto 1990, n. 241 (“Revoca del provvedimento”), secondo il quale: “Per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nei casi di mutamento della
situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario,
il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da
parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla
legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre
ulteriori effetti”»]. Del resto, se così non fosse, si perverrebbe all’assurdo
che il detenuto in regime di art. 41 bis il quale recida i
collegamenti con l’organizzazione di appartenenza collaborando con gli
inquirenti e facendone arrestare tutti i componenti dovrebbe continuare a
restare, magari per anni, in tale situazione. Il ministro può provvedere sia di
ufficio che su sollecitazione dell’interessato (nel qual caso il silenzio,
considerato come rigetto, legittima il reclamo al tribunale di sorveglianza ai
sensi dell’art. 14 ter ordinamento penitenziario) e la sua
decisione può essere fondata sia su fatti nuovi che sulla revisione e
reinterpretazione degli elementi che hanno portato all’applicazione.
4. Nel caso specifico il ministro ha
acquisito i pareri della Direzione nazionale antimafia (secondo cui la
pericolosità di Cospito può essere arginata sia con il regime di cui all’art.
41 bis sia, come già in passato, con l’inserimento nel
circuito di Alta sicurezza) e della Procura generale di Torino (che si è
espressa in senso contrario alla revoca del regime ex art. 41 bis)
ed è, dunque, in condizione di decidere. La sua decisione è – come si è detto –
a tutto campo e può, dunque, riguardare sia i presupposti che hanno determinato
l’applicazione del regime del 41 bis sia le condizioni
soggettive nelle quali versa attualmente Cospito a seguito del protratto
sciopero della fame. Sotto il primo profilo, due sono le questioni rilevanti.
C’è, anzitutto, la possibile riconsiderazione delle caratteristiche
dell’associazione di riferimento, la Federazione Anarchica Informale: se,
infatti, l’esistenza della stessa è ormai coperta dal giudicato, la sua
struttura è in gran parte da definire posto che le stesse sentenze del processo
“Scripta manent” e il decreto applicativo del regime speciale ne evidenziano la
peculiarità, sottolineando il carattere individualista del pensiero anarchico e
la sua difficile compatibilità con l’organizzazione e la gerarchia, che sono
elementi decisivi per la definizione della natura dei collegamenti tra gli aderenti
(ai fini dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 41 bis).
E c’è, poi, il necessario riesame delle condotte carcerarie di Cospito che,
nello stesso decreto applicativo del regime speciale, è indicato come ideologo
e punto di riferimento di settori della galassia anarchica ma non anche come
soggetto dotato di un ruolo apicale e/o di un’attitudine a “dare ordini” o
distribuire compiti operativi tra i suoi compagni di fede politica. Sotto il
secondo profilo, è di tutta evidenza che, dal momento iniziale della
sottoposizione al regime del 41 bis, la situazione di Cospito è
profondamente mutata per lo sciopero della fame, per le sue delicate condizioni
di salute, per il rischio di una morte imminente, per il contesto di
riferimento, per la sua stessa vita sotto i riflettori: elementi tutti che
possono e devono essere tenuti presenti nella rivalutazione dei presupposti per
l’applicazione del regime speciale.
5. La competenza diretta del
ministro non è esclusiva. Contro i provvedimenti inerenti l’applicazione o la
revoca del regime di cui all’art. 41 bis l’interessato può
proporre reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma la cui cognizione «non è
limitata ai profili di violazione della legge, ma si estende alla motivazione
ed alla sussistenza, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel
provvedimento, dei requisiti della capacità del soggetto di mantenere
collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e
del collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle
esigenze di ordine e di sicurezza» [Cass., sez. I, 23 aprile 2021 (dep. 12
maggio 2021), ric. Mulè]. Contro la decisione del Tribunale di sorveglianza è
possibile proporre ricorso per Cassazione per violazione di legge. Attualmente –
come si è detto – è pendente un giudizio avanti alla Corte di cassazione
(udienza fissata il 24 febbraio) mentre il Tribunale di sorveglianza non è
investito di alcun reclamo (che potrà eventualmente intervenire dopo la
decisione ministeriale o il silenzio rigetto a fronte all’istanza di revoca
proposta dal difensore di Cospito).
6. I tempi medio-lunghi e i
limiti delle altre strade praticabili evidenziano ulteriormente la
responsabilità pressoché esclusiva, in tema di revoca della misura, del
ministro della giustizia che, intanto, ha disposto il trasferimento di Cospito
nel carcere di Opera, dotato di centro clinico, per tenere sotto controllo
l’evolversi delle sue condizioni di salute. Il trasferimento è senz’altro
opportuno ma non sposta i termini ultimi del problema ché il
perdurare dello sciopero della fame porterà comunque, se non ci saranno
interruzioni (che l’interessato ha escluso), alla morte di Cospito. Senza il
suo consenso (anch’esso negato), non sono infatti praticabili – come pure adombrato
da alcuni – interventi sanitari sostitutivi dell’alimentazione, nel centro
clinico del carcere o in ospedale. Lo segnala in modo puntuale, in un recente
articolo, Vladimiro Zagrebelsky: «A partire dall’art. 32 della Costituzione e
ora in particolar modo dalla legge n. 219/2017 non ci sono eccezioni alla
regola della necessità di consenso a ogni trattamento sanitario, anche nel caso
che il rifiuto porti alla morte. Nessun trattamento sanitario può essere
iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona
interessata. E – caso mai venisse in mente di imporre al detenuto la nutrizione
e l’idratazione artificiali – va ricordato che la legge li qualifica come
trattamenti sanitari. D’altra parte, il Codice di deontologia medica stabilisce
che “se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria
decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a
manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla”.
Ciò significa che l’assistenza medica deve certo essere assicurata al detenuto,
ma essa potrebbe scontrarsi con il diritto del paziente di rifiutarla» (La
forza dello Stato e il caso Bobby Sands, La Stampa, 1 febbraio
2023).
7. Spetta, dunque, al ministro
della giustizia – qui e ora – stabilire se Cospito può continuare a vivere o
deve morire. L’orientamento ripetutamente espresso dalla presidente del
Consiglio e da esponenti del Governo e della maggioranza, coerentemente con la
loro cultura, è per la “linea della fermezza”, che significa lasciare che
Cospito muoia in carcere o in ospedale, seguendo l’esempio di Margaret Tatcher
(a fronte dello sciopero di numerosi militanti dell’Ira nel 1981) e, oggi,
della Turchia di Erdoğan e dell’Egitto di al-Sisi. Difficile, senza una grande pressione
di opinione pubblica, che il ministro della giustizia si discosti da quella
linea. Intanto, per occultare il cinismo e la brutalità della scelta, la
maggioranza politica e la stampa di riferimento cercano di renderla socialmente
accettabile con argomenti suggestivi e screditando Cospito e, con lui, chi
sostiene la necessità di una revoca, nei suoi confronti, del 41 bis.
Il primo argomento in tal senso, una volta escluso dalla Procura Nazionale
Antimafia che il 41 bis sia necessario per
arginare la pericolosità di Cospito, è che lo Stato non può cedere al ricatto
di una persona colpevole di reati gravissimi e che, se lo facesse, si aprirebbe
una falla non arginabile per richieste e pressioni da parte di detenuti che si
trovano nelle stesse condizioni. Si tratta di un argomento tanto suggestivo
quanto infondato. Anzitutto – come già si è detto – non sono qui in discussione
i delitti commessi da Cospito (e la loro gravità) e, del resto, la sua
richiesta non è la libertà ma un trattamento carcerario meno alienante,
conforme a quello ricevuto fino a un anno fa, per ben nove anni (a ulteriore
dimostrazione che ci sono alternative al regime attuale). E, poi, un ricatto
richiederebbe una violenza o una minaccia costituenti “coazione morale” nei
confronti di altri (nella specie lo Stato), mentre Cospito non minaccia nessuno
ma mette in gioco la propria vita con un lungo suicidio. Lo Stato (e, per esso,
il Governo) lo ha in custodia ma anche in cura e deve decidere
se – ferma la custodia – deve farlo vivere o morire. Questo è il dilemma: il
resto è solo ricerca di un alibi. Né vale evocare la possibilità di una miriade
di altri detenuti in sciopero della fame per ottenere trattamenti favorevoli.
L’astensione dal cibo, pur se non sconosciuta in carcere (e in questo momento
praticata, secondo dati provenienti dall’Ufficio del Garante nazionale delle
persone private della libertà personale, da 32 detenuti), è usata fino ad oggi
pressoché solo come mezzo di pressione di carattere dimostrativo, limitato nel
tempo e destinato a rientrare. In ogni caso, non esiste nella nostra storia
nazionale uno sciopero della fame in carcere della durata di quello praticato
da Cospito. In realtà, a quanto è dato sapere in assenza di dati ufficiali, ci
sono stati negli ultimi 30 anni nelle nostre carceri ben cinque casi di
sciopero della fame a cui è seguita la morte del detenuto (tutti durati non più
di due mesi connessi con altre patologie) ma nessuno ha riguardato situazioni
di 41 bis o condanne per mafie e, soprattutto, nessuno è stato
accompagnato da richieste all’autorità politica (essendo stati tutti legati a
situazioni giudiziarie e all’andamento di processi). Anche nello scenario
internazionale gli scioperi della fame contro le condizioni di detenzione sono
stati posti in essere esclusivamente da detenuti politici (nel Regno Unito
negli anni del conflitto dell’Irlanda del Nord, in Germania e, da ultimo, in
Turchia e in Egitto). In questa situazione evocare frotte di mafiosi in
sciopero della fame per mesi è un puro e interessato diversivo.
8. Ma – si dice – ci sono le
manifestazioni e le violenze dei sodali di Cospito, a cui non si può cedere.
Anche questo argomento è privo di fondamento. Le manifestazioni a sostegno di
Cospito e del suo sciopero dimostrano che il suo gesto non è isolato. Sarebbe
strano che non ci fossero e ce ne saranno ancor più se la vicenda non troverà
in tempi rapidi una soluzione. A volte esse hanno visto scontri con la polizia
(peraltro di modesta entità, se comparati con altri analoghi di anni passati).
Accade, talora, in manifestazioni di segno diverso e se ci sono dei reati vanno
puniti. Ma questo non c’entra nulla con lo sciopero della fame di Cospito e con
la necessità di affrontare, con intelligenza e umanità, i problemi che esso
pone. È vero anche che ci sono stati attentati e lettere di minacce
contrassegnati con la “A” dell’anarchia. Probabilmente provengono da aree della
galassia anarchica, anche se qualche dubbio è lecito in un Paese in cui le provocazioni
e i depistaggi si sono susseguiti, in passaggi cruciali della vita del Paese,
proprio con riferimento agli anarchici e si sono poi ripetuti anche in vicende
di più modesta entità (dalla fantasiosa evocazione dell’autista del pubblico
ministero Rinaudo di gravissime minacce ricevute da esponenti No Tav
all’autoattentato di Maurizio Belpietro). Essi vanno stigmatizzati e
perseguiti. Ma, ancora una volta, cosa c’entrano con le condizioni di salute di
Cospito? E ciò a tacere del fatto che lo Stato deve fare le proprie scelte in
base a criteri di giustizia e umanità senza farsi condizionare dal contesto e
che le buone ragioni restano tali anche se sostenute (da terzi) con metodi
inaccettabili e/o penalmente illeciti.
9. Non mancano neppure le
suggestioni: Cospito – si dice – è pericoloso non solo perché non si è pentito
ma perché in carcere parla con mafiosi e camorristi che gli esprimono sostegno
e lo incitano a proseguire nella sua iniziativa “per il bene di tutti”!
L’ultimo tassello di questa operazione sta, per ora, nelle dichiarazioni rese
il 31 gennaio alla Camera dall’onorevole Giovanni Donzelli, responsabile
dell’organizzazione di Fratelli d’Italia, commissario della federazione romana
e vicepresidente del Copasir (Comitato di controllo parlamentare sui servizi
di intelligence), particolarmente vicino alla premier Giorgia
Meloni, il quale ha affermato che Cospito è sollecitato e accompagnato nella
sua protesta contro il regime detentivo speciale da esponenti della criminalità
organizzata, fondandosi, secondo la versione ufficiale, sulle dichiarazioni di
alcuni agenti di custodia che ne avrebbero percepito le conversazioni [o –
secondo altre fonti assai vicine al Governo (cfr. Giovanni Doria e
Felice Maurizio D’Ettore, Intercettazioni preventive, azione politica e
diritto a informare: il caso Cospito, ne L’Opinione, 4
febbraio) – su intercettazioni preventive effettuate nel carcere di Sassari].
L’affermazione ha del grottesco. Che Cospito parli con altri detenuti
al 41 bis, infatti, non è una scelta ma una necessità: è lo stesso
comma 2 quater dell’art. 41 bis dell’ordinamento
giudiziario (introdotto con il decreto legge 30 aprile 2020, n. 28) a prevedere
che «i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere
ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati
preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni
speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da
reparti specializzati della polizia penitenziaria». Per questo nel carcere di
Sassari non c’erano detenuti in altro regime e Cospito non poteva parlare con
nessun altro. Che, poi i sottoposti al 41 bis ne auspichino
l’abrogazione e incoraggino Cospito a proseguire nella sua iniziativa è un
fatto semplicemente intuitivo, mentre nulla di più emerge dallo scoop dell’onorevole
Donzelli. Piuttosto è la malaccorta gestione della vicenda che sta rompendo
l’isolamento di mafiosi e camorristi e legittimando le loro richieste tra
soggetti che pure non hanno con loro nulla in comune.
10. Resta il punto cruciale del 41 bis e dell’ergastolo
ostativo posto da Cospito al centro del proprio sciopero della fame ma da tempo
all’attenzione della Corte costituzionale, degli operatori e degli studiosi. Ad
essere in discussione non è la legittimità – rectius, la doverosità
– di un’attività preventiva e di controllo tesa ad evitare che boss mafiosi
continuino, dal carcere, a svolgere le proprie attività criminali e a ordinare
ai propri affiliati omicidi ed estorsioni, ma il concreto funzionamento
dell’art. 41 bis e la strutturazione dell’ergastolo ostativo,
trasformatisi nel tempo – anche a detta di molti operatori antimafia – in
circuiti penitenziari caratterizzati da un surplus di
afflittività per provocare collaborazioni con la giustizia o per realizzare una
sorta di vendetta sociale (come emerge, tra l’altro, dal numero, assai maggiore
che negli anni delle stragi, dei soggetti ad essi sottoposti). Che fare per
riportare il 41 bis alla sua dimensione originaria e per
evitare gli automatismi che caratterizzano l’ergastolo ostativo, consentendo
alla magistratura di valutare effettivamente caso per caso la possibilità
di attenuarne (o meno) il rigore con benefici specifici? Si tratta
certo di un’operazione che richiede riflessione e tempi adeguati. Ma quel che
si può fare subito – e si sarebbe dovuto fare da tempo – superando le chiusure
pregiudiziali di gran parte della politica (non solo di maggioranza) e
della magistratura è una seria indagine conoscitiva del funzionamento in concreto
dei due istituti e un conseguente confronto finalizzato a restituire al
sistema la necessaria coerenza e il doveroso equilibrio. Non si può perdere
ancora una volta l’occasione, magari con l’alibi di non voler subire
condizionamenti o “ricatti”.
Nessun commento:
Posta un commento