Forse a molti è sfuggita la gravità di quanto detto da un manager come Franco Bernabè a proposito dello scandalo Quatargate. Lo trascrivo qui di seguito: «Voglio citare solo un caso. Le società tecnologiche a Bruxelles hanno schiere, eserciti di lobbisti e hanno speso decine e decine di milioni di euro per influenzare la legislazione sulla privacy e la legislazione Digital Service […] È chiaro che Bruxelles è un posto dove la lobby è diffusa a tutti i livelli». Alla osservazione fatta che se tale attività di lobbying fosse regolamentata come negli USA, allora questo sarebbe persino un lavoro legale e utile, Bernabè risponde: «Sì, sono regolamentati per modo di dire perché negli Usa una sentenza della Corte costituzionale, che consente di finanziare ad libitum la politica, ha introdotto – e questo è un problema generale dell’Occidente – una dimensione finanziaria nella politica che fino a 40 anni, 30 anni fa non c’era».
Bernabè non
è un pericoloso grillino, né un bolscevico travestito da manager, per cui le
sue parole hanno un peso che va al di là di quanto detto esplicitamente: sono
solo la punta di un iceberg che lascia immaginare quanto vi sia al di sotto del
livello del mare e che ora – grazie a quanto da lui detto – è davanti gli occhi
di tutti coloro che hanno occhi per vedere e intelletto per intendere, senza
essere accecati dalle rassicuranti fiabe sulla democrazia e sulla sovranità
popolare.
Lasciamo
perdere la soluzione da Bernabè proposta («non basta dire la questione morale,
bisogna mettere in atto degli strumenti che impediscono che questo avvenga»),
sulla cui efficacia ho molti dubbi, e invece stiamo al dato di fondo: quando la
finanza e l'economia hanno a disposizione capitali talmente consistenti da
poter comprare interi parlamenti e quando il ceto politico ha perso ogni
capacità di rappresentanza dei cittadini, il collegamento coi quali è ormai
assai flebile (si veda il caso ormai assai diffuso di deputati eletti in
collegi dove sono del tutto sconosciuti), quanto accaduto diventa inevitabile e
non c'è legge né sanzione che lo possano impedire, specie in Italia.
Ciò è
ulteriormente aggravato quando i partiti e i loro esponenti in parlamento sono
semplici aggregati di persone che si mettono in politica per fare carriera,
come se aprissero un'attività commerciale, senza avere una storia comune, fatta
di idee, tradizioni, simboli, sentimenti, appartenenze e culture consolidate
nel tempo (era questo il caso dei vecchi partiti della prima repubblica, prima
della degenerazione). Una svolta che ha un condensato simbolico quando sulla
copertina di uno dei primi numeri della nuova rivista «Capital» (nel 1980)
veniva posta l’immagine di uno dei più emblematici leader del nuovo Psi di
Craxi, quella di Claudio Martelli, con la scritta. “Conviene darsi alla
politica?”. Una domanda a quel tempo forse ancora provocatrice, ma che pian
piano divenne il criterio che orientò gran parte di coloro che volevano
“mettersi in politica”. La risposta non può che essere positiva, tanto più se
per far fruttare il proprio investimento umano si scelgono i partiti “di
governo” (onde la corsa ad “aiutare il vincitore”); e tra questi è migliore
quello che abbia a disposizione più potere da spartire pro-capite, o perché gode
di una posizione cardine nel governo, o perché il suo personale politico è di
scarsa qualità o sottodimensionato rispetto al potere disponibile; o per altre
circostanze del genere. In fondo ciascuno fa una “scommessa” su dove investire
il proprio capitale umano: a volte essa riesce, altre volte la valutazione è
errata e si opta per il “cavallo sbagliato”. Necessario presupposto di tale
tipo di “carriera politica” è l’accettazione delle sue “regole”, la principale
delle quali impone la solidarietà di ceto: mai fare alcunché che possa nuocere
al ceto politico in quanto tale, nel suo complesso; ma tutto è permesso quando
si voglia eliminare un “player” dal gioco della politica, per sostituirsi ad
esso, nel rispetto delle sue regole.
È
l’indicazione di una tendenza, di una strada che da allora un poi sarà percorsa
da un sempre maggior numero di “rappresentanti politici”. Non è dunque la
tempra morale dei singoli ad essere in questione, perché le persone possono
trovare consistenza e avere la forza per resistere alle pressioni, interne ed
esterne, solo se inseriti in un organismo che dia loro saldezza, sostegno, che
li faccia sentire appartenenti a un progetto comune e a un destino condiviso;
lo testimonia l'esempio di chi era disposto a morire per le proprie idee,
quando queste erano condivise da una comunità che dava loro sostegno morale e
materiale (i cristiani che si facevano sbranare nelle arene dai leoni). In
mancanza di ciò, quando le persone diventano singoli imprenditori di se stessi
(il proprio "capitale umano") o scelgono il partito in base a
volatili sentimenti di protesta o indignazione, o peggio per mero opportunismo
("nel piatto ricco mi ci ficco"), allora non ci sono regole che
possano salvaguardare dal pericolo della corruzione; non solo, ma diventa
endemico il fenomeno del trasformismo, con “rappresentanti del popolo” pronti a
cambiare casacca quando le circostanze fanno loro intravvedere più fertili
terreni di pascolo (e non faccio qui nomi di persone o partiti: ciascuno è
abbastanza perspicace per far da sé).
In tali
circostanze la corruzione non è più un fatto patologico o eccezionale, ma la
benzina che alimenta il gioco dei reciproci interessi; si vengono così a creare
le condizioni favorevoli affinché le lobby possano influenzare le decisioni politiche;
del resto, guai per i lobbisti se la corruzione non fosse endemica e se non ci
fosse la possibilità di finanziare – anche legalmente e in modo trasparente –
le decisioni politiche. E quando ciò avvenga, quando sia chiaro che una
decisione è stata presa da persone che hanno ricevuto finanziamenti da questa o
quella multinazionale (come avviene con la American Rifle Association, che
finanzia le campagne elettorali di decine di deputati e senatori e così
impedisce l’approvazione di leggi che limitino l'uso della armi), non mancano
alla “stampa libera” e ai mass media (nella quasi totalità dei casi nelle mani
delle stesse lobby o di altri gruppi finanziari che certo non hanno l'interesse
di inceppare il meccanismo), la capacità e le “grandi firme”, gli intellettuali
a tanto al chilo, pronti dimostrare con dotti e brillanti argomentazioni quanto
sia giusta e razionale la decisione assunta, quanto essa sia nell'interesse dei
cittadini. Il cerchio così si chiude.
Ovviamente
le persone oneste che vorrebbero mettersi a fare politica in tale quadro o vi
rinunciano perché non vogliono sporcarsi o se accettano, devono dimostrare di
essere affidabili per il ceto politico esistente, devono essere anche loro
corruttibili, perché solo così potranno essere ricattabili e condotti a più
miti consigli. E quando uno scandalo scoppia ciò avviene per lo più a seguito
di faide interne, quando qualcuno che s'è sentito escluso o non si ritiene
soddisfatto nelle proprie aspettative, passa qualche documento riservato ai
giudici. Ma niente paura, tanto al momento opportuno si riformano le leggi in
modo da assicurare la quasi impunità al ceto di governo e ai colletti bianchi,
ovviamente sempre rivestendo il tutto con le parole più nobili (come quella del
"garantismo").
Così,
lentamente, senza che ce ne siamo accorti, siamo passati dalla corruzione della
prima repubblica (essenzialmente mirante al finanziamento dei partiti, con la
naturale e inevitabile cresta dei singoli) a quella della seconda, quando il
finanziamento ai partiti è passato in secondo piano, sostituito da quello ai
privati che fanno parte dei partiti, essendo questi ultimi non più un sistema
organizzato, bensì solo un conglomerato di persone che perseguono il medesimo
fine: salvaguardare il proprio potere e il proprio benessere, in concorrenza
con altri gruppi di potere. In queste condizioni la permeabilità alle pressioni
delle lobby diventa non una eccezione, ma una normalità, l'indispensabile
lubrificante per ungere le ruote. Come ha ricordato Michael Claise, il magistrato
belga che sta guidando l’inchiesta sulle tangenti all’Europarlamento, «Nel suo
saggio “Breve storia del futuro”, Jacques Attali scrisse: “Un giorno, le
attività illecite avranno il sopravvento sulle attività lecite”. Penso che sia
già così e da diversi anni. […] In Italia, mafie ricchissime stanno comprando
una dopo l'altra tutte le aziende che stanno fallendo: il 50% dell'economia è
attualmente nelle mani di mafie come Ndrangheta e Cosa Nostra».
Una volta,
una persona che conosceva dal di dentro le vicende parlamentari, mi disse:
"Ma Franco, cosa credi tu? Qui appena un parlamentare viene eletto, si
cerca subito la lobby da rappresentare". Non ci avevo creduto, mi sembrava
una esagerazione, magari buona solo per una parte politica, quella a cui apparteneva
la mia fonte. Ora mi sto ricredendo e rendendo conto di come si stia passando
(o si sia già passato?) dalla democrazia alla lobbycrazia.
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