Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)
C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’
quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le
braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato
all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la
solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la
narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.
Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto,
sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti,
doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la
scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11
settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata
come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.
Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e
il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato
che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi
ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro,
i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in
qualunque istante di qualsiasi conflitto.
Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi
discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si
fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e
i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a
favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal
popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea
percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una
modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società
ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a
intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una
ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della
pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e
capitalistico.
Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da
poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al
terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta
annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui,
complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a
combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due
milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un
disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato
dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche,
una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione,
ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità,
pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi.
Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una
percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.
Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in
Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso
conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo
il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile
durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del
31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno
economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a
vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e
tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti
(e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza
internazionale.
La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è
costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313
miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma
a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del
dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per
i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri
armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti
che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai
reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di
aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle
truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa
parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector
General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi
siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina –
per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione
degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che
non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.
Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato
come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di
aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni
afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando
che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle
città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una
percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor
più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la
settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di
abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti
per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un
territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità
media abitativa di un quarto circa di quella italiana.
Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio
afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche
abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo
si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree
ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.
Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le
disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso
dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro
Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo
conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta
contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte
all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini
dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo
aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.
Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush,
che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci
del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti
Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi
anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da
cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure
per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati
e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra
snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la
paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati
o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche
gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne,
costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per
uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG
(Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.
Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua
assurdità dal documentario Restrepo, realizzato
nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger,
in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi
durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di
David Finkel, I bravi soldati (Mondadori
2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo
qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello
afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la
distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).
La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che
Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata,
soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in
questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane,
abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei
comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino
alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja,
insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure
alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra
cecena5.
Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al
combattimento urbano (qui), mentre
gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per
migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava
continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali
condizioni (ancora qui), non può
esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui
andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo
militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre
se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane,
fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della
“difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.
L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è
stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente
perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte
dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime
“collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di
una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno
fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti
fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia
militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai
voluto portare la democrazia in Afghanistan8.
Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva
altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi
giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra
possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si
tratta di mettere the boots on the ground.
Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per
l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile
sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e
storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla
sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente
testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha
svolto più turni in quell’area.
Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe
scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di
disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo.
Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito
sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque
dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Sulle task force per operazioni speciali. Ho
imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con
tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i
talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro
per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un
programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di
carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò
che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per
uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La
scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui
non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro
abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo.
Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il
2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite
perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta
distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica
diversamente ti sta ancora mentendo12.
Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad
affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in
malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente
le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui
l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che
portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e
all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono
sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.
Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa
ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali
una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza
di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già
annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle
truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza
dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi
tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha
compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre
2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di
battaglia iracheno15.
Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti,
oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici
minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un
numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana
impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato
insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità
di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono
all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta
battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le
truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui
era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata
il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra
in Vietnam.
Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista
geo-politico e giornalista di rilievo:
Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè
da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco
terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco
terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra
contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare,
non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche
una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo,
costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di
vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo
logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo
riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui,
per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non
abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza
avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e
tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da
diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere
rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un
nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad
esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto
perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati
Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in
un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non
esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si
è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di
America17.
Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle
americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si
prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo
lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di
armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani
con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si
ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che
andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al
miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò
soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di
Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni
guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le
industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco
conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati
contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le
banche, fin dal primo macello imperialista.
Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene
conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano
i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere
stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto
planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla
guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con
il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura
dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe
sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni
di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha
mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di
là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che
gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando
impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il
motto we play, you pay che sembra averne sempre
caratterizzato la politica militare.
La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di
recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche
tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed
operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di
raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e
determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e
la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai
sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è
appena iniziata e il politically correct non
servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.
1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018
2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31
3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)
4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021
5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²
6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021
7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)
8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021
9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea
10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga
11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47
12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA
13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”
14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”
15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006
16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001
17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021
18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006
19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui
20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021
21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?
22. Adriano Sofri, per non
smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era
una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a
sventolare ancora idee simili. Complimenti!
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