Le arpilleras cilene
raccontano famiglie. Lo fanno appoggiandosi a una tradizione antica e la
rinnovano, ripetendo un rituale consueto per trasformarlo in una strategia di
lotta e di resistenza. Nel tempo e in epoca di dittatura, sostituiscono al
quadro di una comunità festosamente riunita la rappresentazione di una
prigionia, quella dei loro figli scomparsi, ragazze e ragazzi rubati alla vita
che avrebbero dovuto e potuto scegliere. La “Sala de torturas”, di Marjorie
Agosìn, è di un dolore intollerabile. In tratti semplici, con una essenzialità
cromatica assoluta, il ricamo evoca un’assenza dolorosa e l’idea di una
privazione di libertà che non è sopportabile. È successo e continua a
succedere, da qualche parte e in qualche modo, e la comunità civile, o presunta
tale, continua a prenderne atto senza molto reagire. “Così va il mondo” ripete
a intermittenza il narratore di Slaughterhouse Five, or the Children
Crusade (Kurt Vonnegut Jr., 1970) mentre cerca di raccontare il
massacro della guerra, il bombardamento di Dresda e le vittime insensate di
un’operazione inutile.
Serve tornare a questi racconti in un
natale virato in dramma come il nostro. È, per me, una strategia per fare i
conti con un’assenza molto diversa, temporanea e contingenziale, che pure rende
tutti tristi e furiosi. Oggi navighiamo nella nostalgia dei nostri figli
intrappolati all’estero dalla chiusura di frontiere fino a poco fa
attraversabili per spostarsi da un paese “libero” all’altro. Tolleriamo
male che i nostri privatissimi “giovani Holden”, disseminati per il mondo, non
abitino più qui e non riescano a tornare da noi. Che il loro posto rimanga
vuoto, in una festività il cui senso fatichiamo ormai a capire, ci pare
inaccettabile.
Nei fatti, una contingenza sanitaria
specifica, ha funzionato da reagente per rendere vistosamente chiaro un dato:
tanti ragazzi sono via, fuori da confini prima permeabili, altrove. In molti
casi, non è stata esattamente una scelta. Questo è un paese nel quale la
filiera che dalla formazione scolastica e accademica porta al lavoro si è
interrotta da tempo, intrappolata in intoppi amministrativi, aporie formative,
gattopardeschi percorsi che dovrebbero selezionare e che in realtà mortificano
l’entusiasmo e demoliscono la creatività e il talento. Arriva a meta chi si
adegua, dunque spesso il più accomodante, il più esperto nella strategia
dell’affiliazione, il meno competente ma più bravo nel marketing, il più tarato
su ciò che appare invece che su ciò che è. Questo è un paese in cui il giovane
Holden ha smesso da tempo di coltivare la cultura umanistica, perché gli hanno
detto che essa non serve a nulla se non a procurarsi sogni strampalati e la
propensione a diventare un disadattato. Siccome a nessuno piace essere un
disadattato, questo giovane Holden nuovo di zecca cambia patria. E a natale, in
tempo di pandemia, lascia la sedia vuota.
Di fronte al desiderio inadempiuto, i
bambini pestano i piedi e strillano, e se la prendono con il gatto, il tempo,
la mamma, la televisione e il governo ladro. Gli adulti, invece, ragionano. O
dovrebbero farlo. E il ragionamento da fare, qui, è ampio e complesso,
prospetticamente aperto su un futuro del quale, prima o poi, dovremmo provare a
occuparci. Esso riguarda i danni sistematicamente inflitti alla formazione,
l’insipienza di percorsi professionalizzanti pensati apposta per demotivare gli
entusiasti e premiare gli astuti, le opportunità professionali cancellate dalle
convenienze politiche la sciatteria formale e sostanziale con la quale in più
occasioni, in passato ma non solo, alcune tra le cariche più importanti dello
stato hanno liquidato il malessere giovanile come una responsabilità esclusiva,
appunto, dei giovani. Che sono giovani, si sa, e non hanno voglia di far nulla.
Questa cosa mi rende furiosa. Mi
colpisce la distrazione colpevole con la quale, in tempi difficili di pandemia,
sono state governate scuole e università, intrappolate in un labirinto di
necessità magicamente dissolte quando si trattava di riaprire attività
remunerative. Mi ferisce la penalizzazione pesante del mondo della cultura, con
cinema e teatri chiusi, in un momento in cui la coesione della comunità intorno
alla bellezza dell’arte, con tutte le cautele possibili, avrebbe potuto
salvarci. Mi turba la faciloneria nella gestione dell’informazione, l’arroganza
dei media, l’incapacità di una documentata esposizione dei fatti. E
l’incapacità di tacere, quando questi fatti non ci sono e quando non si ha
nulla da dire.
Il risultato di tutto questo è una
comunità scomposta – non ordinata e non pacificata – nella quale la
cancellazione di un rito di ricongiungimento produce un dolore transitorio,
qualche furore insensato orientato a caso e nessuna riflessione
sull’opportunità di mettere in atto misure che tutelino le generazioni più
nuove e consentano di governare il futuro in modo più sensato.
Perciò i giovani se ne vanno. Se ne sono
già andati. Hanno scelto di cercare altrove quello che qui non si trova, in
termini pratici e simbolici, e di andare a fare il cameriere a Madrid o la
ricercatrice a Londra, o qualunque altra cosa ovunque sia, ma non qui. È una
scelta difficilissima che risponde al desiderio di costruirsi in un contesto
interessante. Chi se ne va di casa, da noi, non è il giovane Holden (J. D.
Salinger, The Catcher in the Rye, 1951), ma neanche somiglia al
Duddy Kravitz di Mordecai Richler, The Apprenticeship of Duddy Kravizt,
1959) e non ne possiede la smisurata ambizione. Semplicemente, chi se ne va lo
fa perché non ha altra via d’uscita. E nel momento stesso in cui se ne va,
comincia a costruire la sua patria immaginaria, quella terra idilliaca di puri
affetti che Salman Rushdie, da esule, ricostruisce alla perfezione nel
suo Imaginary Homelands (1991).
Dove però non torna.
E lascia una sedia vuota.
Nessun Natale più di questo ha messo in
luce quanto sia dura privarsi di quel che diamo per scontato. La ritualità ci
serve. Lo dimostra il modo agguerrito nel quale rimpiangiamo i tragici pranzi
natalizi con la famiglia allargata che in altri anni in moltissimi abbiamo
detto di detestare. Non è questione di incoerenza. Siamo umani, e ci manca il
rito, la scansione del tempo, la conferma che i giorni non sono tutti uguali.
Non tolleriamo gli spazi vuoti quando sappiamo che potremmo riempirli. Ma
incaponirsi è da bambini. I grandi cercano soluzioni. Le costruiscono
soluzioni. Usano quello che sanno – se lo sanno, e la cultura serve a sapere –
per evitare di perdere la parte della comunità che deve e può costruire il
futuro.
Così torno al punto da cui sono partita.
Torno alle occasioni in cui possiamo occuparci di ragazzi che davvero faticano
a tornare o che non sono tornati. Torno a Patrick Zaki e a Giulio Regeni,
e a posizioni che dovremmo prendere da adulti e da governanti, e che non stiamo
prendendo. Torno alle battaglie inutili che fanno le persone normali, anche
quando sono singoli in una comunità poco coesa. Torno alla necessità, da
adulti, di occuparci del mondo che verrà e di chi dovrebbe costruirlo.
Ogni presenza conta, e se è una presenza giovane, conta di più.
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