Raccogli il fardello dell’uomo bianco –
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili –
Così Rudyard Kipling, il cantore inglese del colonialismo si esprimeva nel
1899. Il fardello, in quel caso, era la annessione delle Filippine agli Stati
Uniti di America, ma alludeva all’intera esperienza coloniale britannica, che
all’epoca copriva una grande parte delle terre emerse.
Il “fardello” di Kipling è la mission civilisatrice a cui,
sosteneva nel 1885 Jules Ferry, teorico della avventura coloniale, la Francia
doveva adempiere in ossequio al “sacro dovere delle razze superiori di
civilizzare le razze inferiori”, colonizzando l’Africa “in nome della
democrazia” e – aggiungeva senza falsi pudori – creare un mercato per i
prodotti dell’industria francese.
Il fardello che invece Colombo e i suoi successori dovettero sobbarcarsi
era la salvezza delle anime, per cui i conquistadores portavano
il verbo di Dio e in cambio si prendevano l’argento e gli schiavi.
Anche l’Italia – sabauda, giolittiana o fascista non fa differenza –
giustificava l’uso dell’iprite con il compito di “portare la civiltà”.
Da 500 anni la pretesa di superiorità europea (comprendendo
nell’espressione “Europa” sia la sua escrescenza americana che l’estensione
asiatica fino agli Urali) è stata l’ideologia giustificatrice per la
sistematica subordinazione dei popoli non-europei e il substrato culturale
dell’invenzione della razza e la nascita del razzismo.
Il nocciolo è la descrizione dell’altro non-europeo sempre come mancante di
qualcosa: la civiltà, la democrazia, la fede, i diritti umani, lo
sviluppo, il project management. Una mancanza che l’Occidente vuole
colmare. Il suprematismo europeo è così ben radicato in tutti noi che,
parafrasando Croce, “non possiamo non dirci razzisti”.
Non è forse la colonialità dello sguardo europeo che fa vedere i/le
non-europee sempre come bisognosi/e del nostro aiuto piuttosto che come
compagni/e di lotta, al più loro nostri partner piuttosto che noi loro alleati?
In questa colonialità si rispecchia interamente l’avventura afgana
euroatlantica. La guerra per la democrazia e per i diritti umani è il fardello
dell’uomo bianco del XXI secolo.
La mission civilisatrice si esprime nel sacro dovere di
insegnare la democrazia e portare i diritti umani a tutte le popolazioni (salvo
quelle di alcuni amici dell’occidente sulle quali sorvoliamo).
E liberare le donne. È così che un esercito invasore viene presentato come
“liberatore delle donne” e quando se ne va c’è qualcuno che addirittura chiede
di rimanere. Sulla pretesa occidentale di liberare le donne afghane con la
guerra ha già detto cose, credo definitive, la antropologa femminista
palestinese Lila Lughod (2).
La pretesa superiorità europea è data così per scontata che si finisce per
pensare che tutto sommato l’occupazione militare dell’Afghanistan, anche se
fatta per fini non nobili, ha comunque finito per giovare alla popolazione del
paese, occultando il fatto che le condizioni di vita delle popolazioni sono
invece peggiorate in questi 20 anni, nonostante tutto il circo di aiuti
umanitari che ormai accompagnano sempre gli eserciti.
Dal 2001 ad oggi, in Afghanistan si è accorciata la speranza di vita di due
anni, si è ridotto il tasso di scolarizzazione del 22% e, almeno nei primi
dieci anni, sono aumentate la mortalità infantile e il numero delle persone
sotto la soglia della povertà. Oltre 200mila vite sono state spezzate e sei
milioni di persone hanno dovuto emigrare.
Certo, c’è stata un po’ più di libertà, nelle città e per i ceti colti
della popolazione, ma è impensabile sostenere che tenere una popolazione in
guerra per 20 anni ne possa migliorare la vita.
E la fede nella esportazione della democrazia – ma occorre ricordare che
sinora gli Stati Uniti hanno avuto successo solo nelle operazioni di
esportazione del fascismo – è tale che meraviglia accorgersi che, dopo 20 anni
di guerra, la popolazione e l’esercito non hanno mosso un dito per difendere
quello che avrebbe dovuto essere il “loro”(!) governo, presunto democratico, ma
coerentemente corrotto, come sempre avviene, per conseguenza inevitabile e
strutturale, per tutti i governi fantoccio.
E non ci si venga a dire che non si è riusciti: non si sarebbero spesi
2.300 miliardi, il 115% del PIL afghano senza nessun risultato, se lo si fosse
voluto.
Poi c’è la evacuazione di questi giorni. Per cui se “loro” ci hanno
aiutato, “noi” li salviamo (o almeno ci proviamo). Ma la divisione tra “noi” e
”loro” è così ben radicata e scontata che questo “noi” e “loro” è un mare
nero in cui annegano tutte le differenze.
“Noi” siamo operatori umanitari che curano i bambini, ma anche soldati che
gli sparano e siamo comunque “noi”. E loro possono essere confidenti dei
servizi segreti o signori della guerra, oppure attivisti per la libertà, ma
resteranno comunque “loro”, che noi che siamo i buoni accogliamo benevolmente.
Tutti gli sforzi per salvare tutte le persone a rischio, qualunque ne sia
il motivo, vanno fatti, e va ringraziato chiunque collabora a salvarne, anche
se questo non riscatta l’onore di coloro che di vite ne hanno sacrificate
decine di migliaia.
E so per esperienza diretta ventennale che la solidarietà concreta e
l’aiuto reale non è un pranzo di gala al riparo da complessità e compromessi in
una visione da rotocalco idilliaca, ma irreale.
Ma c’è nell’operazione salvataggio un qualcosa di sottile e di ambiguo per
cui alla fine si chiede alla pubblica opinione di riconoscersi in tutti gli
europei che erano lì, senza giudizi di valore per quello che vi facevano.
E traspare un’impressione, probabilmente falsa, ma inquietante, secondo cui
in Afghanistan c’era effettivamente una commistione tra missioni, militari e
cooperanti a braccetto, che dovrebbero essere antagoniste.
L’immagine che ci viene presentata è comunque sempre quella dei bianchi
europei che aiutano, che sia con le armi o con la cooperazione, un popolo sottosviluppato.
La mission civilisatrice allora rischia di saltare fuori
di nuovo anche declinata come capacity building della società
civile. E la cooperazione allo sviluppo rischia di trovarsi ad essere un
elemento strutturale al disegno neo-coloniale.
È il mito della superiorità europea che riemerge sotto mentite spoglie?
Questa esperienza afgana forse deve portare a una riflessione sulla pratica
della cooperazione e sul rapporto tra intervento di solidarietà e lotta
politica contro il neocolonialismo europeo?
Parliamone.
Note
1.
The White Man’s Burden: The United States and the Philippine Islands
https://en.wikipedia.org/wiki/The_White_Man%27s_Burden
2.
Do Muslim Women Really Need Saving? Anthropological Reflections on Cultural
Relativism and Its Others https://www.jstor.org/stable/3567256
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